Cinquant’anni fa il sacrificio di Foti e Martini alla stazione di Trento
Dorigatti: «L'Aquila di San Venceslao per ricordare il loro sacrificio e il lavoro quotidiano della polizia per consentire la pacifica convivenza della democrazia»
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«Il 30 settembre 1967 a Trento il brigadiere del corpo delle guardie di pubblica sicurezza Filippo Foti e la guardia scelta Edoardo Martini salvarono con il loro consapevole sacrificio la vita di centinaia di persone.
«In questa ricorrenza la presidenza del Consiglio provinciale ha ritenuto suo dovere ricordare l'eroismo di questi due servitori dello Stato, ai quali la comunità trentina deve molto, ponendo in luce l'ancora attualissima centralità dei valori del senso del dovere e della responsabilità da loro testimoniati.»
Così il presidente Bruno Dorigatti ha motivato oggi, in una sala Depero gremita di autorità, l'attribuzione dell'Aquila di San Venceslao agli agenti Foti e Martini consegnando l'importante riconoscimento nelle mani del Questore di Trento, Massimo D'Ambrosio, in rappresentanza della polizia di Stato, «ma anche di tutte le donne e gli uomini delle forze dell’ordine e della magistratura caduti nell’adempimento del loro dovere».
D'Ambrosio ha espresso la gratitudine di tutta la polizia di Stato per questo riconoscimento, frutto di un patto non scritto con i cittadini del Trentino.
Non a caso, ha osservato, «molti agenti di polizia non trentini hanno deciso di formare qui le loro famiglie».
Il Questore di Trento ha anche colto l'occasione per ricordare che quest'anno ricorrono i 110 anni della polizia ferroviaria, la Polfer, e ha concluso indicando nell'Aquila di San Venceslao, «simbolo di queste terre, un invito e uno stimolo a volare sempre più in alto».
Presenti anche le due figlie di Edoardo Martini e due nipoti di Filippo Foti, nell'introdurre la cerimonia Dorigatti ha collocato l'esplosione che costò la vita a Foti e Martini – l'ordigno era in una valigia abbandonata su un treno proveniente da Monaco – negli «anni delle bombe e dei tralicci», segnati da «un terrorismo fintamente irredentista e invece palesemente pangermanista e di radice neonazista» che, dopo aver mirato alle strutture fisiche dello Stato nel vicino Alto Adige/Südtirol, si accanì sugli uomini delle forze dell'ordine e sui civili.
«Ma – ha aggiunto Dorigatti, – quella della violenza si dimostrò una strada senza uscita, che proprio per il suo sanguinoso itinerario portò all’isolamento sociale e politico del terrorismo.
«Una strada – ha proseguito – che contribuì però ad aprire nuove stagioni dell’autonomia speciale del Trentino e dell’Alto Adige/Südtirol che sfociarono, infine, nel secondo Statuto d’autonomia.»
«L’impegno di due uomini come Aldo Moro e Silvius Magnago – ha proseguito il presidente, – ma anche quello delle forze politiche democratiche presenti nelle istituzioni locali e nazionali, trasformò le spinte conflittuali in risorse del dialogo e della reciproca comprensione, consentendo così la sconfitta definitiva di processi eversivi che miravano a scardinare l’unità dello Stato.»
Si arrivò così alla sottoscrizione di «patti internazionalmente garantiti, che sono alla base di quel modello di convivenza etnica oggi indicato ovunque come esempio virtuoso e positivo e che consentirono di evitare la trasformazione di queste valli nei luoghi di fratricide guerre civili come quelle che, per decenni, hanno contraddistinto, ad esempio, la vicenda nord irlandese».
«In questo scenario – ha proseguito Dorigatti, – Foti e Martini divennero Uomini dello Stato partendo dalla condizione di figli di un’Italia povera, segnata dall’emigrazione e che, a fatica, provava a risollevarsi dalle tragedie della guerra e della dittatura; figli in divisa, secondo la lezione pasoliniana, dei ceti operai, contadini ed impiegatizi e delle difficoltà di un Paese vinto e stremato.
«Davanti a quel morire improvviso e a quelle famiglie amputate degli affetti più cari – ha aggiunto – pur sapendo che la nostra riconoscenza e le nostre parole non colmano i vuoti, abbiamo la presunzione di credere che anche piccoli gesti come questo possano dire qualcosa a chi è rimasto e farci sentire tutti un’unica comunità di persone, di cittadini, di italiani e di europei.»
Dorigatti ha esortato a vincere anche oggi la violenza e la paura «spesso alimentata ad arte anche da propagatori interessati, ritrovando ragioni di unità, di compattezza e di fiducia nelle istituzioni, con il coraggioso stringersi tutti attorno ai nostri valori, alla nostra democrazia ed alla nostra volontà di resistere.»
E prima di consegnare al Questore D'Ambrosio l'Aquila di San Venceslao raffigurata nella targa scolpita da Othmar Winkler, il presidente del Consiglio provinciale ha espresso «riconoscenza alle donne e agli uomini della Polizia di Stato e delle altre forze dell'ordine che si prodigano per garantire la sicurezza e la tranquillità sociale in un momento complesso e difficile come quello che stiamo vivendo un po' ovunque in Europa».
La cerimonia – intervallata da alcuni brani classici eseguiti al pianoforte dal maestro Federico Scarfì e da una lettura che ha presentato il contesto storico in cui è avvenuto l'attentato costato la vita alle due guardie – ha visto la presenza anche dei consiglieri Borga, Tonina, Giovanazzi, Manica, Baratter e Dallapiccola.
Il nostro giornale ha parlato di questo terribile episodio nella serie intitolata «Storia della nostra Autonomia», pubblicata in trenta puntate scritte dal dott. Mauro Marcantoni (vedi). Ricorrendo oggi il cinquantesimo anniversario del sacrificio, desideriamo tuttavia pubblicare qui di seguito un quadro più puntuale di quel periodo storico. |
Il BAS, Befreiungsauschuss Südtirol (letteralmente: «Comitato per la Liberazione dell'Alto Adige») viene fondato, nel 1956, da un sudtirolese: Josef «Sepp» Kerschbaumer, con lo scopo di giungere all'autodeterminazione dell'Alto Adige e quindi alla secessione dall'Italia, per ottenere infine la riannessione all'Austria e, con essa la riunificazione di larga parte dei territori del Tirolo storico.
Il nodo altoatesino non è, d'altronde, nuovo. Dapprima una politica di forzata italianizzazione dell'etnia germanofona, anche in virtù di forti immigrazioni interne e della progressiva cancellazione di ogni traccia identitaria del mondo tedesco con il divieto dell'uso della lingua nelle scuole e la revisione toponomastica; poi la politica delle «opzioni» che allontana parte non irrilevante della popolazione tedesca ed infine l'annessione al III Reich ed una sorta di momentanea «rivincita» tedesca sull'etnia italiana.
Dopo la guerra però l'attenzione della Repubblica italiana si fa invece via via più sensibile, a partire dal cosiddetto «Accordo Degasperi – Gruber» che dà avvio al processo autonomistico.
Il quasi contestuale ampliamento della zona industriale di Bolzano favorisce la ripresa dei flussi migratori provenienti da altre realtà regionali, celando maldestramente l'intento di creare appunto una maggioranza di lingua italiana in Alto Adige.
La reazione sudtirolese non si fa attendere e sfocia nei primi spontanei atti di violenza contro le Forze dell'Ordine.
È in questo clima che nasce il BAS. Attorno a Kerschbaumer si raccolgono non pochi sudtirolesi, sopratutto con trascorsi nazisti e sono costoro che danno vita al movimento clandestino, capace in breve di strutturarsi in cellule che operano in modo autonomo.
All'inizio le azioni del BAS si limitano alla propaganda anti-italiana, ma verso la fine degli anni Cinquanta e dopo la rottura politica della S.V.P. culminata nel famoso raduno di Castel Firmiano e nella pronuncia del «Loss von Trient!», il BAS comincia a procurarsi, spesso oltre frontiera, materiale esplosivo.
L'idea è quella di fare scalpore senza procurare danni alle persone e così i primi attentati colpiscono monumenti fascisti e, più di ogni altra cosa, i tralicci dell'alta tensione, elevati a simbolo della forte presenza dello Stato in Alto Adige.
Il 22 novembre del 1957, cinque giorni dopo il citato raduno di Castel Firmiano, il BAS compie il suo primo vero attentato, minando la tomba di Ettore Tolomei nel cimitero di Montagna di Egna.
Venti giorni dopo circa, due esplosioni a Laces, in Val Venosta, preparano il terreno a quella che passerà alla storia come la «Notte dei Fuochi» del 12 giugno 1961, quando quarantadue tralicci dell'alta tensione sono fatti saltare in aria un po' ovunque in territorio sudtirolese.
È l'imbocco sella strada ,senza ritorno, del terrorismo sudtirolese che gode di coperture e finanziamenti, non solo in Austria, ma anche in Baviera a cura di gruppi ed associazioni di chiaro stampo neonazista.
A Nassi di Faedo, ovvero al confine fra le province di Trento e Bolzano, un ordigno esplode ed uccide un operaio cantoniere, Giovanni Postal, che diventa così la prima vittima di un lungo elenco di morte e violenza. Pochi giorni dopo altri otto tralicci vengono distrutti dall'esplosivo.
Lo Stato reagisce ed arresta numerosi componenti del BAS, contribuendo così ad una ulteriore radicalizzazione delle posizioni contrapposte.
Il 3 settembre 1964, a Selva dei Molini in Val Pusteria, rimane ucciso il Carabiniere Vittorio Tiralongo: adesso sono gli uomini dello Stato ad essere nel mirino terroristico.
Sei giorni dopo un sottufficiale e quattro militari sono gravemente feriti in un imboscata/attentato a Rasun di Anterselva. Ventiquattro ore dopo, un altro militare viene ferito. Il 2 maggio 1965 viene scoperto un ordigno esplosivo sul treno «Brennero Express»; dieci giorni dopo esplodono tralicci ad Egna e a Malles Venosta; il 21 maggio una bomba viene rinvenuta in un'abitazione di Bolzano.
L'anno seguente la scia di sangue non smette. Il 23 maggio 1966 a Passo Vizze, un'esplosione investe ed uccide il Finanziere Bruno Bolognesi ed il 25 luglio, il BAS mette a segno un'altro attentato a San Martino di Casies dove, in un agguato, muoiono i Finanzieri Salvatore Cabitta e Giuseppe d'Ignoti, mentre il 26 agosto, in un assalto alla Caserma dei Carabinieri di Sesto Pusteria perdono la vita i Carabinieri Luigi De Gennaro e Palmerio Ariù, Giuseppe d'Ignoti, mentre poco più di un mese dopo, l'esplosivo distrugge la caserma della Guardia di Finanza di Malga Sasso, dove periscono il Vicebrigadiere Eriberto Vogger, il Finanziere Martino Cossù e, per le gravi ferite riportate, dopo alcuni giorni, anche il tenente Franco Petrucci muore in ospedale.
Nel 1967 il livello dello scontro si alza drammaticamente. Nei pressi di Cima Vallona, al confine fra Alto Adige e Bellunese, il 25 giugno di quell'anno, un traliccio viene fatto saltare e un alpino, Armando Piva, muore per le ferite subite.
Sul posto viene allora inviato un reparto della Compagnia Speciale Antiterrorismo dei carabinieri di Bolzano, che, dopo aver ispezionato il luogo dell'attentato, rimane vittima di un imboscata con mine antiuomo.
Muoiono sul colpo il capitano dei Carabinieri Francesco Gentile, il sottotenente paracadutista Mario Di Lecce, mentre il sergente paracadutista Olivo Dordi muore in ospedale per le ferite subite.
Sopravvive solo Mario Fagnani. Poco più di tre mesi dopo la mano terroristica colpisce a Trento.
È il 30 settembre 1967. Alle ore 14.44, una valigia piena di donarite esplode dilaniando i corpi del Brigadiere Filippo Foti e della Guardia scelta Edoardo Martini, del Corpo delle Guardie di Pubblica Sicurezza.
Filippo Foti, nato a Syracuse negli Stati Uniti d'America nel 1916 è di origini calabresi ed è celibe. Edoardo Martini, nato a Vicenza nel 1923 è sposato ed ha tre figli.
Nel frattempo la politica e la ricerca costante del dialogo fra Roma e Vienna danno i loro primi frutti. Le autorità austriache collaborano e la rete attorno ai terroristi comincia a sfaldarsi, anche perché la stessa S.V.P. prende evidenti distanze dall'estremismo ed approva, nel 1969, il cosiddetto «Pacchetto», dando avvio alla fase costituente del secondo Statuto d'autonomia regionale.
La stagione delle bombe prosegue a ritmi alterni fino al 1988, per poi lasciare spazio definitivamente al confronto e alla ricerca pacifica di soluzioni di convivenza etnica che oggi costituiscono una realtà ovunque additata come esempio costruttivo.