L’uomo, quella bestia che un tempo è stato – Di Maurizio Panizza

Quando assistiamo a certi comportamenti umani ci troviamo a condividere in pieno le teorie di Darwin

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È dai tempi di Darwin, e dunque da verso la metà dell’Ottocento che viene presa in considerazione in maniera scientifica la teoria che l’uomo discenda dalla scimmia, o quanto meno da un primate molto simile ad essa.
Con ciò, per la prima volta grazie al biologo e naturalista britannico, si diede credito all’evoluzione della specie, quel processo per il quale tutte le forme viventi cambiano di generazione in generazione per adattarsi all'ambiente in continua trasformazione.
Per quanto riguarda l’uomo, è innegabile che l’evoluzione l’abbia portato a essere colui che per intelligenza e capacità sta al vertice della cosiddetta piramide ecologica, tuttavia nel perenne conflitto fra istinto e ragione, spesso l’uomo - o meglio il maschio – rinuncia ai processi dell’evoluzione e ritorna quella bestia che un tempo è stato.  



Perché ciò può accadere? Cosa può arginare gli istinti peggiori che un uomo può manifestare contro i suoi simili?
Sappiamo che in natura non è infrequente che un animale uccida il proprio partner o i propri cuccioli per varie ragioni, ma per noi umani questa è una semplice bestialità.
E se a macchiarsi di tale azione è un uomo, cosa possiamo dire? Che è uno squilibrato? Che è colpa della società. Che qualcuno (la donna, sempre) è andato a cercarsela?

Tutto può fare brodo come giustificazione, anche se in effetti si fa grande fatica a trovare un minimo comune denominatore a ciò che sta accadendo in questi anni. Si parla da tanto tempo di educare i figli all’affettività e in qualche scuola sono stati pure avviati dei corsi in tal senso.
Ma è dell’affettività che abbiamo bisogno se una relazione è irreparabilmente finita?
Non abbiamo piuttosto necessità di buon senso e soprattutto di essere educati alla non-violenza? Tanti anni fa quello della non-violenza (di cui il primo testimone nel mondo fu Gandhi, in Italia, Aldo Capitini) era un movimento a cui aderirono molti giovani e che dagli anni Sessanta in poi raccolse consensi ovunque.
 

 
Oggi, pur essendo ancora presente, pare non sia più di moda essere non-violenti, ovvero pacifisti.
Basta guardarci attorno, frequentare i social, seguire la tv, ascoltare i politici e persino i docenti universitari: la non-violenza è sparita pressoché da tutti i contesti andando a trasformare gli interlocutori in odiatori, i dibattiti in zuffe, i punti di vista in verità rivelate, gli apprezzamenti in insulti.
Nessuno è più disposto ad ascoltare l’altro e la politica - quella che dovrebbe raccogliere il meglio della società - è diventata, in tal senso, la peggior palestra educativa per i nostri giovani.
Eppure bisogna trovare un rimedio, fare qualcosa per arginare una violenza che sembra non finire mai.
La legge può aiutare, ma non può essere risolutiva.
 

 
Se siamo uomini e non bestie (ammesso che sia ancora così), questo lo dobbiamo all’educazione e all’istruzione che di generazione in generazione hanno fatto sì che anche gli istinti più bassi siano stati elaborati e gestiti a beneficio della società in cui viviamo.
Tornare, dunque, alle origini, ad insegnare ai nostri ragazzi la capacità di resistere agli urti della vita senza perdere l’autocontrollo; a capire che in tutte le relazioni può esserci la parola «fine».
A saper voler bene per quello che è stato e non per quello che è, ecco tutto questo, a mio avviso, può essere un sistema per uscirne, non certo in fretta, ma per uscirne in qualche modo.

Maurizio Panizza