Crisi irachena: le inaspettate opportunità di dialogo con l'Iran
Dopo decenni di tensioni, un comune obiettivo di fermare l’avanzata jihadista sta accreditando Teheran come prezioso interlocutore – Di Francesca Manenti
>
Il recente collasso delle condizioni di sicurezza in Iraq e il riacutizzarsi delle violenze nel vicino teatro siriano, negli ultimi mesi, hanno inevitabilmente riportato l’attenzione internazionale su una crisi che, ormai da diversi anni, sta interessando in modo trasversale il Medio Oriente.
In seguito all’avanzata in questi territori dei militanti di ISIS (Stato Islamico dell’Iraq e del Levante), il gruppo salafita che ha proclamato il califfato islamico lo scorso 29 giugno, infatti, la Comunità Internazionale, e in particolare l’Occidente, ha guardato con sempre maggior preoccupazione ad un possibile quanto imprevedibile cambiamento degli equilibri di potere all’interno della regione.
In un momento di grande delicatezza per la stabilità di un contesto strategico come quello mediorientale, l’urgenza di trovare una soluzione al rapido deterioramento della già precaria tenuta delle istituzioni, soprattutto in Iraq, ha determinato una storica convergenza di interessi tra i governi occidentali e l’Iran, che da sempre guarda ai due vicini come a Paesi strategici per consolidare la propria influenza nella regione.
Per la prima volta dopo decenni di tensioni, dunque, il comune obiettivo di fermare l’avanzata jihadista sta accreditando Teheran agli occhi dell’Occidente come un prezioso interlocutore regionale, in grado di ricoprire un ruolo di primaria importanza sia nella gestione della crisi attuale sia nella ridefinizione del futuro scenario politico iracheno.
Il governo iraniano, infatti, fin dalle prime battute della degenerazione del conflitto in Iraq ha optato per un sostegno, seppur indiretto o ufficioso, al governo di Bagdad per contrastare gli attacchi dei militanti di ISIS nel Paese e cercare di salvaguardare la tenuta istituzionale dello Stato iracheno.
Il supporto di Teheran, fino ad ora, è stato declinato in due direttrici. Innanzitutto, attraverso un sostegno diretto sia alle Forze Armate irachene sia, secondo quanto dichiarato dal Presidente del Kurdistan Massoud Barzani, alle milizie curde, i Peshmerga, impegnate contro il gruppo jihadista nelle regioni settentrionali del Paese, al confine con la medesima Regione Autonoma.
Benché sia il Presidente iraniano, Hassan Rouhani, sia il Ministro degli Esteri, Mohammad Javad Zarif, abbiano sempre negato un coinvolgimento attivo delle Forze iraniane al conflitto, fonti curde riportano l’ingresso di soldati e di alcuni carri dell’181ª Brigata Corazzata iraniana vicino alla città di Jalawla, nella provincia di Dyala, a circa 30 chilometri dalla frontiera con l’Iran.
Già lo scorso giugno, l’arrivo in Iraq del Generale Qassem Suleimani, Comandante della Forza Quds iraniana, unità speciali della Guardia Rivoluzionaria (GR) impiegate all’estero, sembrerebbe aver testimoniato la presenza di almeno tre unità delle Forze speciali, entrate in Iraq dalle province occidentali di Urumieh e Lorestan per rafforzare la sicurezza nella cintura attorno a Bagdad.
Inoltre, gli sforzi dei militari professionisti sarebbero supportati dall’azione di circa duemila volontari Basiji, milizia iraniana responsabile in patria per l’ordine pubblico.
In secondo luogo, il supporto dell’Iran al conflitto iracheno passa attraverso il finanziamento e la fornitura militare a quelle milizie sciite che, formatesi in seguito all’intervento degli Stati Uniti in Iraq nel 2003, sembrano trovare ora nuovo spazio nella lotta all’affermazione dello Stato islamico.
Tra questi, stanno ricoprendo un ruolo di particolare importanza in supporto alle Forze regolari irachene la Brigata del Giorno Promesso, gruppo derivante dall’esperienza sadrista dell’Esercito del Mahdi, della Lega dei Giusti (Asaib Ahl al-Haq) e di Kata’ib Hezbollah.
Legate a doppio filo al governo iraniano, come testimoniato dall’impiego di alcune di queste milizie anche nella crisi siriana in supporto al governo di Assad, da sempre principale alleato e pupillo dell’Iran nella regione, questi gruppi sciiti potrebbero rivelarsi il principale strumento a disposizione di Teheran per giocare la propria partita nello senario iracheno ed estendere la propria influenza all’interno del Paese.
Sia l’Esercito del Mahdi sia la Lega dei Giusti, infatti, trovano espressione anche all’interno del panorama politico e associativo iracheno, e, grazie all’impegno sociale e all’erogazione di servizi per la popolazione, riscuotono un consistente successo soprattutto tra la comunità sciita.
In un momento in cui il neo nominato Primo Ministro, Haider al-Abadi, si trova a dover formare il nuovo governo iracheno, il prezioso aiuto che i gruppi paramilitari sciiti stanno dando per la stabilizzazione della sicurezza interna potrebbe garantire ai gruppi politici ad essi collegati di trovare un maggior spazio nel futuro esecutivo, con ovvi benefici per l’agenda politica di Teheran nel Paese.
Benché, dunque, l’obiettivo della partita che l’Iran sta giocando nella crisi irachena sia inequivocabilmente il rafforzamento della propria influenza in Medio Oriente, a consacrazione del proprio status di potenza regionale, in questo particolare momento storico gli interessi strategici iraniani vengono a coincidere con le esigenze della Comunità Internazionale di eradicare il califfato islamico all’interno della regione.
In un momento in cui i Paesi Occidentali, seppur con sforzi differenti, stanno progressivamente incrementando il proprio impegno per il ripristino della sicurezza in Iraq, un’eventuale sinergia con il governo di Teheran potrebbe rivelarsi una variabile strategica per massimizzare l’efficacia della risposta internazionale alla militanza jihadista.
La marginalizzazione diplomatica conosciuta dal governo iraniano negli ultimi trent’anni da parte di molti attori della Comunità Internazionale, tuttavia, rende difficile l’istituzione di una collaborazione trasparente e ufficiale.
La reciproca diffidenza innescata da anni di isolamento politico, infatti, ha inevitabilmente creato sia all’interno dei Paesi Occidentali sia in Iran una forte retorica antagonistica, che alcune formazioni politiche, da entrambe le parti, spesso utilizzano per catalizzare il consenso dell’opinione pubblica.
La mancanza di fiducia e di una consolidata esperienza cooperativa, dunque, potrebbe facilmente suscitare forti critiche nei confronti dei governi impegnati in eventuali trattative, indebolendo così non solo il consenso interno ma, soprattutto nel caso dell’Iran, riducendo la libertà di manovra di Presidente e Ministro degli Esteri.
In questo contesto, per cercare di muovere un primo passo verso la distensione delle relazioni, e migliorare così il tono di un eventuale confronto di più ampio respiro, la Comunità Internazionale potrebbe partire dall’attuale trattativa sul nucleare che Iran e il gruppo dei così detti 5+1 (Stati Uniti, Russia, Cina, Gran Bretagna, Francia e Germania), stanno portando avanti dallo scorso 27 novembre.
Il meccanismo di dialogo costruito per le trattative sul dossier nucleare, infatti, potrebbe costituire la base di partenza per formare quel rapporto di fiducia tra le rispettive diplomazie necessario per ampliare poi il tavolo negoziale anche ad ulteriori e successivi argomenti.
A ormai dieci mesi dalla firma del Joint Plan of Action, l’accordo firmato a suggello della comune volontà di chiarire la natura e gli scopi del programma nucleare di Teheran, tuttavia, i colloqui tra i negoziatori internazionali non sono ancora giunti ad una soluzione definitiva.
Posticipato al prossimo 24 novembre il termine ultimo per la firma dell’accordo, precedentemente fissato a fine luglio, infatti, la rigidità delle posizioni delle parti coinvolte rimane tuttora il principale ostacolo per la definizione di un’intesa di lungo termine.
Nonostante in questi mesi le autorità iraniane abbiano iniziato ad implementare alcune delle disposizioni previste dall’accordo, tra cui la riduzione dello stock di uranio arricchito al 20%, utilizzato nei propri reattori, (diminuito da 209,1 kg a 38,4 kg), e la consegna di informazioni sull’impiego dei detonatori ad innesco simultaneo, EBW (Exploding Bridgewire Detonators), infatti, le misure fino ad ora adottate non sembrano soddisfare i dubbi dei negoziatori internazionali circa l’esistenza di una dimensione militare del programma di ricerca di Teheran.
In particolare, il rifiuto da parte del governo iraniano di concedere l’accesso agli ispettori dell’AIEA (Agenzia Internazionale per l’Energia Nucleare) al sito di Parchin, considerato essere un complesso militare di sperimentazione per la realizzazione di armi atomiche, nonché la fermezza nell’escludere dalle trattative il proprio programma balistico, sembrano due voci destinate ad essere ancora questioni spinose per un rapido procedere dei colloqui.
Inoltre, sulla ripresa del negoziato, che dovrebbe avvenire a margine dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite a metà settembre, potrebbe ora pesare la recente decisione degli Stati Uniti di imporre nuove sanzioni contro alcuni istituti finanziari, compagnie di trasporto (aeree e navali) e singoli individui sia iraniani che stranieri, accusati di aver evaso le vigenti disposizioni sanzionatorie.
In questo contesto, un ruolo di facilitatore potrebbe essere ricoperto dall’Unione Europea e, in particolare, dall’Alto Rappresentante per gli Affari Esteri e la Sicurezza Comune, che in sede di trattativa ricopre l’incarico di capo mediatore della delegazione dei 5+1.
L’UE, infatti, potrebbe farsi mediatore delle diverse rivendicazioni per assicurare ad entrambe le parti un’equa e trasparente compensazione dei rispettivi interessi posti sul tavolo di trattativa.
Da un lato, infatti, potrebbe spingere Teheran, consapevole di non negoziare da una posizione sfavorevole sia in virtù delle buone relazioni con Russia e Cina, sia del ruolo giocato nel contesto iracheno, a non avanzare richieste che potrebbero portare i negoziatori occidentali, soprattutto statunitensi, ad assumere una posizione difensiva.
Dall’altro potrebbe spingere i diversi Paesi europei coinvolti nel dialogo a fare un passo avanti verso una progressiva distensione delle proprie posizioni, favorendo così non solo un’accelerazione dei colloqui sul nucleare, ma soprattutto la creazione di un precedente, da cui poter partire per ampliare l’esperienza di dialogo ad altri questioni di interesse comune.
In questo modo, inoltre, la diplomazia europea dimostrerebbe la capacità di esprimere una voce comune e di trovare una soluzione che non sia confliggente ma alternativa, per quanto assolutamente coerente, con le necessità portate avanti a Washington.
Con l’inizio del semestre europeo a guida italiana, il nostro Paese ha ora l’opportunità di agevolare uno sviluppo in questa direzione.
La qualità delle relazioni bilaterali con l’Iran permettono all’Italia di assumere un ruolo di primo piano e di compiere con grande solerzia gli sforzi necessari ad agevolare l’avvicinamento di Teheran e a stabilire un dialogo trasversale con l’Unione Europea e, conseguentemente, con la Comunità Internazionale.
Francesca Manenti
(Cesi)