La «Lectio» di Iginio Rogger nell’anniversario Degasperiano
«Il Trentino tra Autonomia e identità»: una pagina di storia trentino-sudtiolese, in una prospettiva sempre più euro-regionale
La prima parola è «autonomia»,
l'ultima è «utopia»: come due parentesi che contengono le pagine di
storia scritte dal nostro Alcide Degasperi. Monsignor Iginio Rogger
le ha posizionate così nella sua lectio magistralis pronunciata
davanti a un pubblico che mai dimentica lo statista trentino e che
anche quest'anno si è ritrovato nel paese natale di Alcide
Degasperi, Pieve Tesino, per ricordare l'anniversario della sua
scomparsa.
Don Rogger ha affrontato il tema «Autonomia e identità trentina:
dal Principato vescovile allo Statuto regionale del 1948»
proponendo un percorso storico denso ma nel contempo ricco di
stimoli critici che hanno toccato i temi dell'oggi, dai rapporti
tra Trentino e Alto Adige alle questioni linguistiche, alle
celebrazioni per Hofer.
Semplice - quasi a sottolineare la sobrietà degasperiana che lo
stesso Rogger ha evocato - e affettuosa l'atmosfera che ha
caratterizzato l'incontro di questo pomeriggio terminato coi canti
del coro di Ospedaletto e gli auguri del presidente della Provincia
autonoma di Trento, Lorenzo Dellai che per i 90 anni di monsignor
Rogger ha simbolicamente donato l'ultima fatica editoriale della
Fondazione, il completamento dell'«Opera omnia degasperiana».
L'appuntamento è stato organizzato dalla Fondazione trentina Alcide
Degasperi i cui soci fondatori sono l'Istituto Sturzo e la
Provincia autonoma di Trento.
Ma ecco il testo integrale della Lectio magistralis in occasione
del cinquantacinquesimo anniversario della morte di Alcide De
Gasperi Pieve Tesino, 18 agosto 2009 (© Copyright: Fondazione
Trentina Alcide De Gasperi).
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La parola «Autonomia» è un termine genericissimo, che si può
realizzare in mille modi.
Nel Trentino lo si può decifrare solo in connessione con la sua
storia. E il riferimento primario si pone qui in rapporto al Land
Tirolo, al quale il Trentino si trovò semplicemente incorporato dal
1803 con la cosiddetta secolarizzazione e dal 1816 con la
reimpostazione della monarchia austriaca.
Il Land, che non è pura «espressione geografica» ma un territorio
dotato di sue strutture costituzionali distinte, è stato voluto e
riorganizzato nel Tirolo con delle resistenze tenacissime, in
contrapposizione alle tendenze unificatrici dello statalismo
austriaco.
Il Trentino convive nella struttura istituzionale del Land. Ma
questo fatto non cancella le profonde differenze che distinguono i
gruppi etnici e contrappongono modelli economici e criteri
amministrativi ereditati da una lunga storia. Lo stesso diffondersi
di una sensibilità nazionale ha intensificato il sogno di una
autonomia più appropriata, che assegnasse alla popolazione italiana
una sua autonomia distinta.
E così è nato un vero e proprio movimento autonomista trentino, con
le sue battaglie, i suoi interventi e programmi, che talvolta
parvero vicini a realizzarsi ancora al tempo dello stesso regime
austriaco.
Fu così del tutto naturale che lo stesso modo di pensare
riprendesse forza e cercasse di affermarsi anche dopo l'annessione
all'Italia. Evidentemente esso non si riduceva entro l'orbita
dell'irredentismo nazionale. E così esso riprese con tutta la sua
vitalità anche nei mesi del Governatorato militare e nella politica
del Partito Popolare Trentino fino all'avvento del fascismo.
Tutto questo implica e presuppone la presenza di radici storiche
più remote, che dobbiamo brevemente rievocare prima di passare alla
problematica contemporanea.
Per rifarci alle origini vedremo come è proprio nelle piccole
comunità legate a valli diverse che si incontra il primo senso di
patria dei trentini. Esse sono comunità fiscali, che provvedono al
loro interno alla distribuzione degli oneri per fronteggiare in
solido gli obblighi verso l'autorità superiore. Sono nel contempo
vere comunità economiche, che gestiscono una proprietà collettiva,
vitale per la sussistenza di tutti, retta da norme precise e
verificabili.
Questo genere di vita porta a distinguere fortemente un determinato
tipo di solidarietà che si esercita con i vicini, da un
atteggiamento piuttosto diffidente con cui vengono guardati i
«foresti».
Un controllo sociale molto severo e un regime di vita parsimonioso
e ordinato è insito al sistema. Un'attenzione gelosa e appassionata
a tutte le vicissitudini minute della cosa pubblica si accoppia
alla dimensione dell'ambito comunale entro il quale tutti si
conoscono.
In questo modo di sentire non fa molta differenza la diversità
linguistica delle comunità, né il regime giudiziario che in certe
aree è prettamente germanico (sentenza tramite una giuria
collegiale) mentre in altre adotta il sistema latino di un unico
pretore giudicante. E neppure la tipologia di abitazione, che vede
coesistere anche nel Trentino nuclei compatti di popolazione e masi
dislocati creati da un progetto di colonizzazione.
In questo contesto le carte di regola dei comuni trentini e i
Weisthümer delle comunità tirolesi hanno molte analogie fra loro.
Il Trentino registra anche il fenomeno di Markgenossenschaften come
la comunità di Fiemme, dove nel 1111 i sudditi negoziano con
l'autorità statale del vescovo-conte le modalità
dell'amministrazione della giustizia e delle esazioni fiscali.
A questo si connette ancora un altro connotato che è decisamente
positivo. Il contadino delle valli alpine, continuamente esposto
all'urto dei fattori naturali, sente d'istinto che il primo aiuto
nei frangenti della vita l'uomo deve cercarselo con le proprie
forze e col proprio coraggio. La Selbsthilfe, nell'immediato e
verso il futuro, rimane una regola che lo porta a non attendersi
dagli altri ciò che si può fare da sé. Con le relative implicanze
psicologiche, etiche e sociali.
La forte spinta verso un ideale autarchico dei piccoli comuni si
riscontra anche nell'ambito ecclesiastico. Dal secolo XIII in poi
le singole vicinie, senza intaccare le competenze delle vecchie
circoscrizioni pievane, sono andate creando a proprie spese delle
stazioni distinte di cura d'anime, con propria chiesa e dotazione
economica atta a sovvenzionare un proprio curato. Manterranno
gelosamente fino al secolo ventesimo il diritto di nomina elettiva
dei titolari, quasi una forma di giuspatronato.
Ecco dunque un mondo intero di cose e di atteggiamenti sui quali
s'è intessuta per secoli la storia quotidiana di un popolo. Certo
l'epoca a noi contemporanea ha cambiato radicalmente la struttura
agraria di fondo e ha sconvolto gli stessi rapporti numerici di
classi sociali ed economiche.
Quei parametri ideali e quei modelli di vita comunale sono divenuti
irripetibili. Eppure ancora a fine Ottocento e nei primi decenni
del ventesimo secolo il movimento economico e politico dei
cattolici trentini si articola robustamente sullo sfondo
dell'ambiente rurale e qui raccoglie i suoi successi determinanti.
Non v'è dubbio che esso ha lasciato un'eredità spirituale anche
alle generazioni successive.
È lecito tornare a chiedersi allora dove si collochi quel minimo di
storia comune del territorio, che malgrado tutte le tendenze
centrifughe doveva pur promuovere un senso di coesione tra le valli
trentine e la volontà di una unione più salda destinata a comporsi
in autonomia.
Nel tentativo di elencare i pochi elementi che stanno all'origine
di questo processo è giusto ricordare quello che fu il ruolo della
chiesa locale di Trento, con le sue tradizioni di fede e di
costume, con le sue strutture organizzative e i suoi santi patroni.
La fusione degli antichi ceppi etnici prelatini, delle immigrazioni
longobarde, alemanniche, franche e baiuvare che vengono a formare
un solo popolo, non è pensabile senza di essa.
Decisamente sopravvalutato invece presso gli storici appare il
ruolo che si suole attribuire al Principato vescovile di Trento in
ordine alla coesione del territorio. Il Principato vescovile rimase
fino al suo tramonto un organismo di diritto feudale, estremamente
debole e decentrato, incapace di raggiungere una compattezza
paragonabile almeno a quella che fu la Patria del Friuli col suo
parlamento e il suo esercito. È facile immaginare cosa doveva
succedere di esso nell'età in cui i territori circostanti si
modernizzavano e si trasformavano in organismi molto più
efficienti.
Nel corso del Duecento Trento riesce come per miracolo a sfuggire
all'assorbimento della politica di Ezzelino da Romano e delle
signorie della pianura. Ma vi riesce in modo permanente lasciandosi
inquadrare entro l'orbita dell'altro stato forte e centralizzato
che da Mainardo II in poi si va formando in Tirolo.
Nel corso del tempo solo il Tirolo riuscì a impedire una
penetrazione politica dal Sud, ponendo come cintura di sicurezza la
zona dei Confini Italiani (i Welsche Konfinen) nella bassa
Valsugana e nella Vallagarina, con terre che in buona parte sono di
alto dominio del Principato vescovile ma che ormai rimangono
consegnate al governo diretto dell'autorità del Land. Il Tirolo
viene a compenetrare anche la vita interna del Principato
vescovile, prima con un regime di Compattate, poi anche con veri e
propri patti di confederazione. Esso assume in larga misura il
controllo dell'ordine pubblico e in toto l'onere della difesa
armata, organizzata in modo analogo a quanto accade nel cuore del
suo territorio, mediante il sistema fiscale dei «fanti steorali»
descritto nel Libello del 1511.
Il vecchio territorio del Principato vescovile viene decurtato
anche della sua parte settentrionale, occupata fino a Lavis dal
Tirolo. E l'area rimanente si presenta enormemente frastagliata,
con una carta che nel secolo XVIII registra giurisdizioni vescovili
e giurisdizioni tirolesi in numero quasi eguale, disseminate
sull'intero territorio.
Anche la nobiltà trentina, vecchia e nuova, ama inserirsi nei
ranghi della nobiltà tirolese e cerca di crescere in quella
sfera.
È in atto così un ampio processo di simbiosi che investe tutti i
settori della vita. Appoggiandosi sul Tirolo il Principato
vescovile riesce a conservare formalmente la sua autonomia
istituzionale, configurata più nei termini di una
Reichsunmittelbarkeit, che in quelli di una sovranità vera e
propria. Anche i conflitti continui che sorgono per la salvaguardia
delle prerogative del governo vescovile si muovono entro questo
quadro e non possono venir letti come il nervo principale degli
avvenimenti, che tende invece all'assimilazione del territorio.
Nessuno perciò ebbe a stupirsi, se nel 1803 e poi nel 1816 quello
che si classificava già come Tirolo italiano venne integrato nel
Land tirolese, cioè nella regione autonoma riconosciuta entro
l'ambito della monarchia austriaca. Nessuno ancora sentiva come
discriminante assoluta il fattore della nazionalità e della lingua.
La parola stessa di nazione doveva ancora cambiare significato. Ma
fino a quell'epoca alla natio Tirolensis si ascrivevano senza
difficoltà anche i trentini, come appare ad esempio dal Liber
Nationis Tirolensis esistente presso il Collegio Germanico di
Roma.
L'incorporazione piena del Trentino nella compagine del Land Tirol
(1816) creò naturalmente una situazione nuova dal punto di vista
istituzionale. Quelli che furono spesso chiamati i due circoli di
Trento e di Rovereto si trovarono confrontati in modo immediato e
diretto con gli interessi e i costumi delle popolazioni del vecchio
corpo del Tirolo.
Non fu dapprima la lingua a creare contrapposizioni. Ma piuttosto
la sproporzione nella ripartizione degli oneri fiscali e nella
assegnazione dei fondi di sviluppo, dovuta alla condizione di
minoranza in cui veniva a trovarsi la rappresentanza trentina.
Solo dal 1848 venne a inserirsi potentemente nella problematica il
fattore della nazionalità e della lingua. Da allora il problema
dell'autonomia si prospetta in maniera del tutto nuova, nella forma
di quella lunga lotta che doveva prolungarsi sino alla fine del
regime austriaco, imprimendo i connotati più espliciti alle più
recenti aspirazioni trentine.
Non è qui certo il luogo per riepilogare la lunga e travagliata
vicenda, con i molti insuccessi e le umilianti sconfitte subite dai
rappresentanti trentini alla Dieta di Francoforte e alla
Costituente di Kremisier, nell'ambito della Dieta tirolese come nel
Reichsrat e presso il governo di Vienna.
Tuttavia, con tutta la comprensione e simpatia che meritano le
aspirazioni nazionali inserite in queste battaglie, non si può fare
a meno di considerare quale fosse la provenienza e la tipologia del
modello di autonomia richiesto. È evidente che esso si ispirava a
quella forma di governo autonomo che il Land Tirolese per antica
tradizione conservava nel rapporto con la monarchia austriaca,
tenacemente difeso e rivendicato anche nel processo di
modernizzazione assolutistica che stavano attraversando le
strutture statali e provinciali. Senza questo rapporto rimane
incomprensibile ciò che i trentini propriamente volevano.
L'autonomia a cui essi aspiravano per la popolazione italiana
doveva essere qualcosa del tutto simile a quella che il Tirolo
possedeva ed esercitava per la popolazione tedesca.
In questo la storia del Trentino, anche se attraversata da profonde
aspirazioni nazionalistiche e irredentistiche, si pone in posizione
ben diversa rispetto alla storia delle altre regioni italiane.
Autonomia piccola e autonomia grande; micro-autonomia comunale e
macro-autonomia su scala regionale: non c'è dubbio che si tratta di
due fronti diversi, che anche strettamente complementari.
Il modo come questi sono compenetrati nel Trentino in una
interminabile ricerca di equilibrio, in una aspirazione mai
realizzata del tutto ma anche mai totalmente estinta, è stata la
grande scuola alla vita democratica e civile di questa terra, che
qui riconosce ancor oggi la propria vocazione, come dimostra tra
l'altro lo straordinario patrimonio umano, culturale ed economico
accumulato in più di un secolo di storia dalla cooperazione
trentina.
Venendo ora all'epoca contemporanea, cioè all'indomani del crollo
del fascismo e della fine della seconda guerra mondiale, emerge
spontaneo l'interrogativo, se e a quali condizioni il Trentino
poteva finalmente progettare e promuovere un regime di autonomia
misurato sul suo territorio.
La risposta rimane nell'ordine dei futuribili, sui quali si può
discettare all'infinito, ma dei quali, secondo l'assioma
scolastico, non datur scientia.
Il fatto storico concreto, invece, è che l'autonomia trentina
riuscì a ottenere una sua realizzazione istituzionale nel contesto
dell'applicazione dell'Accordo De Gasperi-Gruber del 5 settembre
1946.
Con l'autonomia regionale approvata dall'Assemblea costituente nel
gennaio 1948 i trentini conseguirono d'un tratto l'adempimento
delle loro aspirazioni e lo ottennero con uno statuto che li
rendeva partecipi dell'attuazione dell'accordo stipulato a tutela
della minoranza etnica sudtirolese, dotato di una particolare
garanzia internazionale.
Sono evidenti i vantaggi che il Trentino ricavò da questa
posizione, a cui si deve nel concreto anche il carattere del tutto
speciale dell'Autonomia trentina. Converrà non dimenticare che
ancor oggi essa si regge su questa base, pur con tutte le modifiche
apportate in seguito con gli statuti successivi.
Da allora è rimasto aperto l'interrogativo sollevato sui fronti
diversi, se non costituisca un privilegio indebito questa
inclusione del Trentino in un regime di autonomia voluto e creato
primariamente come strumento di tutela della minoranza etnica
sudtirolese.
I tedeschi hanno anche parlato di una «truffa» di De Gasperi,
operata per eccessiva affezione ai trentini. Tralascio le
interpretazioni espresse da parte italiana da allora fino ad
oggi.
Sentendo come obbligo di coscienza la ricerca di una comprensione
migliore dell'onestà dell'operazione nelle intenzioni di De
Gasperi, dopo la morte dello statista trentino mi avvicinai ad una
ipotesi interpretativa che ad un tratto ricevette una sua verifica
inattesa. L'ipotesi alla quale mi riferisco è che l'idea di civiltà
che anima l'Accordo De Gasperi-Gruber esige che la minoranza
tedesca dell'Alto Adige venga a trovarsi in condizioni pienamente
equiparate a quelle godute dalla maggioranza italiana nel suo stato
nazionale italiano.
Una conferma autorevole di questa ipotesi mi è venuta dalla
testimonianza diretta dell'ex ministro degli esteri austriaco Karl
Gruber. L'11 novembre 1991 mi trovai infatti a fungere da
interprete per la deposizione resa da Gruber a Vienna nei
preliminari del processo canonico per la beatificazione di Alcide
De Gasperi. Profittando alquanto della mia posizione cercai di
approfondire l'interrogativo su quelle che potevano essere state le
intenzioni di De Gasperi nel dilatare al Trentino l'autonomia
prevista come necessaria per la salvaguardia del carattere etnico e
dello sviluppo culturale ed economico degli abitanti di lingua
tedesca dell'Alto Adige.
Chiesi infatti a Gruber: «È possibile che De Gasperi, nell'idea di
agganciare l'autonomia dei Trentini a quella dei Sudtirolesi,
secondo un'idea che egli certo favoriva e per la quale aveva
acquisito simpatizzanti anche nel Sudtirolo, avesse fiducia che
tale inclusione tornasse a vantaggio dei Sudtirolesi stessi nel
processo di realizzazione di essa?»
Ed ecco la risposta testuale di Gruber, anch'essa registrata su
nastro: «De Gasperi ne era convinto: se l'autonomia si realizza per
i Trentini, diventa un fatto irreversibile. Se si realizza per i
Trentini, si realizza anche per i Sudtirolesi; ogni pericolo di
vanificarla verrà respinto anche dai Trentini.»
Gruber si diceva convinto, sia per proprio conto, come anche per
quello che era stato il pensiero di De Gasperi, che nella difficile
impresa prevista per la realizzazione degli intenti contenuti
nell'Accordo l'ottenimento effettivo dei diritti naturali della
minoranza etnica tedesca sarebbe stato aiutato e sorretto dalla
compartecipazione dei trentini, che dal canto loro avevano pur
conosciuto il disagio di una minoranza etnica incompresa. Tale
testimonianza, estremamente significativa anche per quelle che
furono poi le sorti del primo decennio di Autonomia regionale, è
stata testualmente pubblicata in «Studi Trentini di Scienze
Storiche» (78, 1999, pp. 483 s.).
In realtà, lo spirito che animava il sessantacinquenne De Gasperi
nelle trattative con Gruber era perfettamente in linea con un
percorso spirituale, culturale e politico iniziato molti anni
prima, ad inizio Novecento, negli anni universitari viennesi. Sono
questi gli anni in cui De Gasperi, che mai fu irredentista,
sviluppa il concetto di «coscienza nazionale positiva», ovvero la
possibilità di distinguere tra appartenenza nazionale e
appartenenza statuale.
Più tardi, come Trentino inserito nel Regno d'Italia, avrà ben
chiara l'urgenza di salvaguardare l'eredità autonomistica in un
tessuto statale sostanzialmente centralistico e che ben presto
avrebbe conosciuto il dispotismo fascista.
A maggior ragione, all'indomani della Seconda Guerra mondiale, De
Gasperi si chiederà come un'autonomia speciale di portata regionale
possa utilmente integrarsi con la nuova storia repubblicana ed
europea.
Tutto questo implicava naturalmente non tanto la rivendicazione di
particolari privilegi, ma piuttosto l'assunzione di responsabilità
e di effettive capacità di autogoverno e di buon governo nello
spirito autonomistico della storia secolare di questa terra a
scavalco del Brennero.
Non è un caso che nella seduta del 29 gennaio 1948 dell'Assemblea
costituente, ormai alle soglie della approvazione dello Statuto
regionale, lo statista trentino non si limiti a rimarcare l'urgenza
di «mantenere l'impegno che si era preso a Parigi: assicurare,
cioè, l'esercizio di un potere autonomo agli abitanti della zona di
Bolzano - tanto più dopo la tragica vicenda delle opzioni - e
garantire l'esistenza e tutti i diritti alla minoranza italiana
nella provincia di Bolzano…».
De Gasperi avverte il bisogno di aggiungere il seguente inciso: «…
Io che sono pure autonomista convinto e che ho patrocinato la
tendenza autonomista, permettete che vi dica che le autonomie si
salveranno, matureranno, resisteranno, solo ad una condizione: che
dimostrino di essere migliori della burocrazia statale, migliori
del sistema accentrato statale, migliori soprattutto per quanto
riguarda le spese. Non facciano la concorrenza allo Stato per non
spendere molto, ma facciano in modo di creare una amministrazione
più forte e che costi meno. Solo così le autonomie si salveranno
ovunque, perché se un'autonomia dovesse sussistere a spese dello
Stato, questa autonomia sarà apparente per qualche tempo e non
durerà per un lungo periodo».
Solo in questa prospettiva, concludeva De Gasperi, non c'è alcun
pericolo di «creare in Italia una serie di repubblichette che
disgregherebbero la Repubblica italiana».
Come non intravedere in queste parole il cosciente ricupero critico
di tutta una storia trentina passata!
Da una parte c'è la convinzione che se Trentini e Sudtirolesi sono
chiamati per forza storica a collaborare è anche perché i trentini
già a suo tempo hanno vissuto la condizione di minoranza e una
forte aspirazione di autonomia entro uno stato non omogeneo alla
loro etnia ma che non riduceva ad un unico modello le differenze
linguistiche, toponomastiche, amministrative e giuridiche.
Dall'altra c'è però anche l'idea che questa terra tra le montagne,
e dunque la nuova regione, sia chiamata per forza della sua stessa
storia a farsi laboratorio di autogoverno e di buona convivenza non
solo per l'Italia ma per la stessa Europa.
Qui sta appunto la base etica e morale della inclusione dei
Trentini nello Statuto di Autonomia del 1948.
La storia della nostra terra, quando riuscirà finalmente ad
emergere libera da ogni pregiudizio, dovrà pur chiedersi
sinceramente come mai queste intenzioni, nel corso degli anni
Cinquanta, rimasero in larga misura lettera morta.
Uno studio anche sommario della stampa locale di quegli anni
basterebbe da solo a dimostrare come il Trentino preferì schierarsi
dalla parte più facile e più redditizia del centralismo statale,
piuttosto che andare alla ricerca di quei temi di comune interesse
che, pur nella diversità della lingua, potevano associarci nella
ricerca di una migliore convivenza democratica.
In quale misura dietro questo orientamento abbia giocato un ruolo
anche una strategia intelligente, che fin dalle prime battute seppe
orientare lo sviluppo in tal senso, è cosa che meriterebbe più
attenta indagine.
Con ciò non si tratta di mettere in discussione l'integrità morale,
la sensibilità culturale e giuridica, e ancora lo spirito di fede
cristiana di alcuni protagonisti politici dell'epoca in questione.
Ma quando si tratta di comprendere un ruolo politico in rapporto al
bene comune lo sforzo deve andare oltre la sfera soggettiva
personale.
Appunto in questa prospettiva è mia convinzione che l'orientamento
politico che allora prevalse con l'apporto determinante di buona
parte della classe politica trentina del tempo non corrispondeva né
alle istanze più feconde della storia passata di questa regione né
al progetto politico voluto da De Gasperi e Gruber con il loro
celebre accordo.
Da tempo, ormai, porto avanti questa tesi storiografica. Giunto
alle soglie del mio novantesimo anno mi auguro che non siano
sterili battute giornalistiche ma anzitutto rigorosi studi storici
a confermarla o a smentirla. Da parte mia e, ne sono sicuro, da
parte di tutti voi, anche nel caso in cui non condivideste la mia
tesi, non può che valere la massima antica secondo cui la ricerca
della verità deve essere più forte di tutto.
È dunque nello spirito critico dello storico che si sforza di unire
la libertà di giudizio al rispetto dovuto ad ogni persona che mi
avvio a concludere questa lectio.
Di fronte ai grandi rivolgimenti a cui va incontro l'intero assetto
politico italiano e la storia d'Europa, si impone a tutti noi in
modo urgente l'interrogativo sull'avvenire dell'Autonomia
trentina.
C'è chi a un quadro di autonomia comune dei trentini con i
sudtirolesi non dà più alcuna fiducia, forse anche perché non vi ha
mai creduto.
D'altronde c'era e c'è ancor oggi chi non si rassegna ad
abbandonare il certo per l'incerto. Poiché ancor oggi la nostra
speciale autonomia, nella sua circoscrizione geografica e nella sua
struttura istituzionale ha la sua base portante nello Statuto del
1948 e la sua radice nell'accordo De Gasperi-Gruber.
In ogni caso, chi propone alternative ha tutto il dovere di
elaborare un progetto articolato e credibile, che, partendo dalle
nuove motivazioni di fondo, sappia costruire una ipotesi realistica
per il piccolo territorio trentino.
Parte da qui, a mio avviso, la necessità di riflettere ancora oggi
su quale senso debba avere una struttura regionale che abbraccia il
Trentino e il Sudtirolo e che si apre sempre più in prospettiva
euro-regionale.
Come già detto, consento in pieno con quanti considerano questa
impostazione costituzionale desiderabile o perfino necessaria. Ma
sulle condizioni non esistono sconti, se non si vuol ricadere di
nuovo negli equivoci del passato.
Prediamo in considerazione un certo clima spirituale. L'esistenza
di una ragione di convivenza politica tra la popolazione trentina e
quella tirolese suppone che si voglia riconoscere come base
fondamentale ciò che abbiamo in comune, rispetto a ciò che ci
distingue e divide. E si assuma come orientamento supremo la regola
evangelica che ci impegna anche a fare agli altri quello che si
vorrebbe fatto a se stessi.
Emerge spontaneo e doveroso in proposito l'interrogativo se e in
quale misura queste aspirazioni siano divenute l'asse portante di
quello che amò chiamarsi il Movimento Autonomista Trentino nella
seconda metà del secolo ventesimo.
Senza disconoscere la sincerità di tante passioni, nonché la forza
partecipativa di taluni passaggi storici, e pur tenendo conto del
frammentarismo di tale Movimento, non sembra che i programmi e gli
effetti realizzati su questo punto e in tal senso siano stati
particolarmente brillanti. Problemi come quello della scuola
tedesca, dell'amministrazione della giustizia o della toponomastica
in Alto Adige non furono certo quelli che nel secondo dopoguerra
riscaldarono gli animi del Movimento Autonomista Trentino.
Metterei poi in guardia da un certo scimmiottamento di gusti e
costumi tirolesi, dal quale acquisteremmo piuttosto disprezzo che
simpatia da parte di chi ha un senso delicato della schiettezza dei
costumi dei popoli.
Converrà invece dilatare fortemente nell'ambiente trentino una
conoscenza esaustiva di tutta la bibliografia tedesca e
internazionale sulla storia del Tirolo e sui problemi dell'Alto
Adige, in modo da non fare in materia un discorso declinato tutto
alla nostra maniera.
L'attualità del bicentenario di Andreas Hofer, con i gravi problemi
di storia e di mito che lo attraversano, è una buona occasione per
presentarsi a questo esame con tutte le carte in regola, non
strumentalmente ma tenendo in tensione coinvolgimento popolare e
impegno scientifico e storiografico, senza il quale non ci può
essere respiro davvero europeo.
Nella medesima prospettiva una maggiore conoscenza di quella che fu
la sofferenza spirituale e materiale della popolazione tirolese a
seguito della Zerreissung del Land con l'imposizione del confine al
Brennero, potrebbe ancor oggi distinguere il modo di sentire dei
trentini. Altrettanto dicasi del dramma delle Opzioni del 1939, sul
quale i trentini potrebbero maturare un sentimento meno
tecnicamente politico, ma più umano e popolare.
Il discorso vale ovviamente anche al rovescio: è difficile pensare
ad un rinnovato senso di convivenza senza che anche gli storici
sudtirolesi meditino più a fondo sul significato delle reiterate
richieste di maggiore autonomia sollevate dai Trentini nei
confronti di Innsbruck sin dal 1848; altrettanto dicasi delle
tragiche conseguenze patite dai circa 70.000 trentini fatti
evacuare in vari campi di internamento - le cosiddette «città di
legno» - in Austria, in Boemia e in Moravia, allo scoppio della
Grande Guerra.
Occorre quindi sviluppare una maggiore conoscenza reciproca, a
cominciare dalla lingua, dove, a dire il vero, i sudtirolesi con la
loro conoscenza della lingua italiana ci forniscono uno stimolo a
padroneggiare meglio il tedesco.
Per convivere occorre insomma conoscere alquanto la sensibilità e
perfino le suscettibilità del partner. Ciò non vuol dire
adeguarvisi supinamente; ma tenerne conto è necessario.
Tutto questo riguarda la sfera più vasta e indefinibile degli
atteggiamenti psicologici e morali. Ma senza una cura positiva di
questa base sarà sempre difficile sviluppare una convivenza.
La nostra distanza spirituale si documenta con troppa frequenza.
Ricordo anche il tono di certi interventi nella discussione sulla
nuova università di Bolzano, soprattutto nella fase iniziale. E
guardando ai molteplici problemi della toponomastica, non
bisognerebbe che i trentini, già difensori acerrimi e gelosi
dell'italianità dei loro toponimi all'epoca austriaca, si lascino
scavalcare da nuovi nazionalismi quando si tratta di restituire
alla Vetta d'Italia la sua originale denominazione tedesca!
In ogni caso la sola promozione dei nostri interessi materiali non
potrà mai essere il glutine che tiene insieme una convivenza
regionale. Solo su una nuova e forte impostazione culturale ed
ideale si potranno costruire insieme progetti e programmi più
articolati. Penso anche che la stessa «identità del Trentino»,
anziché perdersi in disquisizioni retoriche, potrebbe emergere in
modo più concreto dal confronto più differenziato e concreto con i
primi vicini.
Le risorse morali per questa crescita vanno dunque richiamate a
raccolta, riconosciute nel loro valore, confermate nell'esercizio
quotidiano della giustizia e della solidarietà, garantite e
sorrette con regolamenti e norme adeguate.
Sono molti i capitoli che ci uniscono ancor oggi con le popolazioni
altoatesine, senza pregiudicare le nostre caratteristiche proprie,
che nessuno oggi del resto mette in pericolo. Sono molto ampie, a
ben guardare, le cause e le motivazioni comuni e gli spazi stessi
di interessi materiali coincidenti, che possono avvantaggiarsi
efficacemente da una promozione fatta insieme, piuttosto che da una
ricerca in ordine sparso.
Venendo alla conclusione, lo scrivente non è certo in grado di
prevedere se la «conversione» spirituale di cui qui si parla sia
realisticamente pensabile e se, allo stato attuale delle cose, pur
effettuata, sia ancora in grado di modificare il corso degli
eventi. Il giudizio pratico e le relative scelte operative spettano
alla responsabilità dei politici.
Per parte mia appartengo a quel ceto di trentini che da sempre
hanno sognato l'autonomia come la sede più propria per la
realizzazione di una democrazia autentica. E sono tra quei, non
molti, che hanno salutato cordialmente la Regione come uno
strumento che ci poneva in condizione di giovare non solo al nostro
bene ma anche a quello della minoranza etnica limitrofa che con noi
convive.
Convinto che il successo finale non mancherà di premiare chi avrà
avuto il coraggio dell'Utopia…
Monsignor Iginio Rogger