Esattamente 150 anni fa, Garibaldi sbarcava a Marsala
Era alla testa di 1.089 patrioti. Tra loro anche 16 trentini e 1 altoatesino Lo sbarco a Marsala

Sono iniziate quest'anno le
celebrazioni del 150° anniversario della proclamazione del Regno
d'Italia e noi abbiamo deciso di far coincidere la nostra
narrazione con la data di sbarco a Marsala, perché è stato quello
il momento di massima tensione dell'intera avventura.
Desideriamo ricordare che nel 1960, quando scadde il 1° centenario,
il clima era del tutto diverso da quello di oggi. Parlare di
Regno d'Italia non era proprio la massima aspirazione dei
nostri governanti, sia perché parlare di Patria era considerato
fascista, sia perché di regno proprio non si
voleva parlare dato che il referendum era passato da meno di 15
anni.
Eppure l'Italia, intesa come stato nazionale, nel 1961 esisteva
proprio da un secolo. Le istituzioni ne parlarono in alcune
occasioni, senza mai dare fiato alle trombe.
Solo un anno dopo, nel 1961, anno della nascita dello Stato,
qualcuno decise di dedicare all'anniversario la manifestazione
sportiva allora più importante a tutti i livelli: il Giro
d'Italia.
Ecco come venne strutturato il Giro d'Italia del 1961.
Tappa | Data | Percorso | km | Vincitore di tappa | Leader cl. generale |
---|---|---|---|---|---|
1ª |
115 |
||||
2ª |
185 |
||||
3ª |
149 |
||||
4ª |
118 |
||||
5ª |
144 |
||||
6ª |
224 |
||||
7ª |
221 |
|
|||
8ª |
237 |
||||
9ª |
53 |
||||
10ª |
140 |
||||
11ª |
252 |
||||
12ª |
149 |
||||
13ª |
278 |
||||
14ª |
250 |
||||
15ª |
178 |
||||
16ª |
207 |
||||
17ª |
204 |
||||
18ª |
161 |
||||
19ª |
249 |
||||
20ª |
275 |
||||
21ª |
214 |
||||
Totale | 4.003 |
Oggi, a 150 dalla Spedizione dei Mille, ci sono altre
nuove ragioni per cui qualcuno vorrebbe non celetrare l'avvenimento
più importate della nostra storia, la nascita dell'Italia.
E forse è proprio per questo che il Presidente della Repubblica
continua a insistere sulle ragioni per cui il nostro Paese si
merita una vera e propria serie di celebrazioni per festeggiare
l'Unità.
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La spedizione dei Mille è forse il più celebre episodio del periodo
risorgimentale italiano. Avvenne nel 1860, quando un corpo di 1.058
volontari, protetto dal re del Piemonte, al comando di Giuseppe
Garibaldi, partì dallo «scoglio» di Quarto (oggi «Quarto dei
Mille», Genova) sbarcò in Sicilia occidentale, e conquistò l'intero
Regno delle Due Sicilie, patrimonio della casa reale dei
Borbone.
Il tutto era cominciato a partire dal famoso incontro organizzato
da Cavour a Plombières tra Vittorio Emanuele II e Napoleone III,
nei giorni 21 e 22 luglio 1858, e soprattutto dalla firma del
trattato di alleanza difensiva fra Francia e Regno di Sardegna,
avvenuta il 26 gennaio 1859.
Il 24 aprile 1859 Cavour era riuscito a farsi dichiarare guerra
dall'Austria, governata da un Francesco Giuseppe non ancora del
tutto maturo a guidare un grande
impero come quello Austro Ungarico, o comunque non abbastanza
smaliziato da distinguere le provocazioni dalle minacce.
Le ostilità di quella che sarebbe passata alla storia come «Seconda
guerra di indipendenza» ebbero inizio il 27 aprile. Terminarono
l'11 luglio, quando il re d'Italia e l'imperatore dei Francesi
firmarono in tutta fretta l'armistizio a Villafranca con
l'imperatore Francesco Giuseppe.
Meno di tre mesi, quasi una blitzkrieg ante litteram, che forse va
spiegata un attimo.
Le battaglie di Solferino e San Martino erano costate una
carneficina. Morirono in tutto qualcosa come 28.000 ragazzi. E il
termine «un mare di sangue» è più che appropriato perché per
settimane il sangue dei poveri caduti marcì nei canali della zona.
Fu in quell'occasione che qualcuno pensò a costituire la Croce
Rossa, perché prima il soccorso ai feriti era affidato al buon
cuore della povera gente.
Comprensibile dunque che i tre capi di stato abbiano concordato in
quattro e quattr'otto un armistizio sulla spinta emotiva di quello
cui avevano assistito.
Ma anche dal punto di vista politico il buonsenso dettava a tutti
la strada dell'armistizio. Francesco Giuseppe aveva capito di
essere finito in una trappola, Napoleone Terzo aveva capito che
un'Italia troppo grande sarebbe diventata concorrente, Vittorio
Emanuele Secondo capì che era giunto il momento di fare buon viso a
cattivo gioco.
E per impedire che Cavour si potesse opporre all'armistizio, il
futuro re d'Italia lo aveva distolto con opportuni incarichi di
stato inventati lì per lì al solo scopo di tenerlo lontano da
Verona.
Quanto Cavour seppe dell'armistizio, non c'era più nulla da fare.
Ovviamente si dimise e il re accettò le dimissioni.
Becco e bastonato, Cavour sarà peraltro recuperato da lì a poco,
perché anche Vittorio Emanuele aveva bisogno di un uomo di stato di
statura europea per andare avanti col suo disegno. Che prevedeva
l'impiego di quell'incredibile personaggio che era Giuseppe
Garibaldi.
L'imbarco a Quarto (Genova)
Mazzini e Garibaldi erano accorsi in Italia allo scoppio della
guerra. Il primo si diede da fare adoperandosi nell'eversione, il
secondo costituì il corpo di spedizione «Cacciatori delle Alpi» con
i fuorusciti dal Lombardo Veneto.
Il 22 maggio i Cacciatori delle Alpi passarono in Lombardia dal
Lago Maggiore a Sesto Calende, con l'obiettivo di operare nella
fascia prealpina in appoggio alla offensiva principale. Il ruolo
tipico per un comandante geniale e poco disciplinato come
Garibaldi.
Il 26 difesero Varese da un attacco di forze austriache superiori
guidate dal generale Urban.
Il 27 maggio batterono il nemico alla battaglia di San Fermo e
occuparono Como, la città maggiore dell'area.
Dopo Magenta lì seguì la ritirata austriaca: l'8 giugno Garibaldi
era a Bergamo, il 13 a Brescia,
entrambe già evacuate dagli Austriaci.
Nell'ultima fase della guerra Garibaldi, alle dipendenze del
generale piemontese Cialdini, deve muovere per la Valtellina,
attraversare lo Stelvio e tagliare la strada a eventuali rinforzi
austriaci in afflusso dal Tirolo.
Arriva a occupare le quattro vallate Valtellina, Camonica, Sabbia e
Trompia, sino alla frontiera del Tirolo, ed ora con i suoi
effettivi saliti a 12.000, si prepara al balzo successivo.
Ma è troppo tardi: l'8 luglio a Villafranca firmano l'armistizio.
Sembra la prova generale di Bezzecca, manca solo il telegramma
«Obbedisco!».
A quel punto la politica torna nelle mani della diplomazia e quindi
è di nuovo il momento di Cavour. Per quanto arrabbiato a morte
della troppo rapida conclusione della guerra, il cancelliere si
prepara ad affrontare l'amministrazione delle nuove terre acquisite
con l'armistizio.
Ma Vittorio Emanuele invece mantiene i rapporti con Giuseppe
Garibaldi, il personaggio che fa esattamente al caso suo.
Non è un effettivo ed ha un'abilità decisamente superiore alla
media. Comprende che se gli dai un briciolo di potere è capace a
farne un cavallo di battaglia.
L'idea di fare un colpo di mano nel meridione d'Italia era
considerato un crimine, prima ancora che una follia, per un uomo di
stato come Cavour, per il quale un trattato aveva un significato
intoccabile.
Cavour ha infatti mosso i suoi servizi segreti per individuare
eventuali cellule eversive.
Ma per un re ruspante come Vittorio Emanuele, Garibaldi
rappresentava proprio quello che ogni governante vorrebbe avere: un
eroe capace di assumersi le responsabilità se le cose fossero
andate male e di passarle al suo sponsor se fossero andate
bene.
La foto in posa di otto Trentini che avevano partecipato
alla Spedizione dei Mille. Si tratta di un certo Faconti,
di Camillo Zancani (altoatesino, con la barba), Oreste Baratieri,
Ergisto Bezzi, Enoch Bezzi, conte Francesco Martini, Filipo
Tranquillini, Giuseppe Fontana.
Il Regno delle due Sicilie era difeso da qualcosa come 93.000
uomini e dalla migliore flotta del Mediterraneo.
Per affrontare questa forza imponente, Giuseppe Garibaldi era
salpato da Quarto il 5 maggio 1860 su due vapori, il
Piemonte e il Lombardo (pagati dal governo sardo
all'armatore Raffaele Rubattino) con 1.089 volontari.
Quei mille erano di estrazione borghese. Neanche un
contadino, neppure un operaio, ma c'erano 6 artigiani, 150 erano
avvocati, 100 studenti, 100 commercianti, 50 ingegneri, 50 chimici,
una trentina fra capitani di lungo corso, giornalisti, ufficiali
disertori, proprietari terrieri, scrittori e perfino tre
spretati.
Provenivano in gran parte dall'Italia settentrionale. 160 erano
bergamaschi, 150 genovesi, 72 milanesi, seguiti da veneti,
emiliani, toscani e romani. I Trentini erano 16, uno era
altoatesino. Tutti i
nomi sono reperibili tramite questo link.
Le loro armi erano vecchie e decrepite. Solo tre le carabine a
canna rigata, due i pezzi d'artiglieria. Insomma, solo un grande
ottimista poteva credere che ai Mille
potesse andare meglio che ai Trecento giovani e forti sbarcati con
Pisacane a Sapri (anche sbarcati grazie alle navi di
Rubattino).
Il 7 maggio, Garibaldi sosta a Talamone, sulla costa toscana presso
Grosseto, per rifornirsi di armi presso il presidio piemontese di
Orbetello e per dirottare un gruppo di volontari in direzione dello
Stato Pontificio con il fine di sviare l'attenzione sugli scopi
effettivi della spedizione.
A sinistra, il trentino Pilade Bronzetti.
L'11 maggio, cioè esattamente 150 anni fa, Garibaldi sbarcava
vicino Marsala alle ore 13 circa, fra due navi Inglesi preavvisate
che, di fatto, coprirono (o quantomeno non ostacolarono, uscendo
anzi dal porto per facilitarlo) lo sbarco, mentre la diplomazia
piemontese si univa al coro europeo di protesta contro l'atto di
pirateria del «bandito Garibaldi».
Sbarcati a Marsala, i Mille non sapevano esattamente cosa fare. Ma
in questo li aiutarono i Borbonici, perché si schierarono
inspiegabilmente sulla difensiva, quindi era lì che dovevano andare
i nostri.
Dopo i primi scontri, tuttavia, la situazione si fece incerta, fino
alla battaglia di Calatafimi, avvenuta quattro giorni dopo lo
sbarco, il 15 maggio. Fu il primo vero scontro militare, quello che
poteva mettere in dubbio la tenuta della brigata, tanto da far
pronunciare a Bixio la famosa frase (vero o inventato che sia) «qui
si fa l'Italia o si muore!».
Ancora una volta furono i Borbonici a risolvere la situazione,
perché il comandante borbonico, generale Landi, vedendo che gli
invasori non si ritirarono, decise di farlo lui.
Meglio una bella ritirata che una brutta sconfitta? Chissà, di
certo però Landi non fu un traditore. Con molte probabilità anche i
suoi soldati si trovavano al primo scontro a fuoco, ma erano meno
motivati degli avversari.
La battaglia di Calatafimi
La singolare rotta di Calatafimi giunse alle corti
d'Europa come un fulmine a ciel sereno. Se qualcuno voleva fermare
Garibaldi, ormai era troppo tardi.
A Napoli, l'eco della sconfitta portò il panico a corte e la gioia
ai rivoltosi. Re Francesco (Franceschiello) si consultò con Pio IX,
il quale gli consigliò di concedere la costituzione ma di «non
concedersi ai Piemontesi».
E Francesco la concesse, autorizzando l'uso della bandiera
tricolore, con lo stemma borbonico al posto di quello sabaudo.
Dal punto di vista militare, tuttavia, per i Borboni era finita:
con il re rimasero solo i fedelissimi.
Perfino le corone europee lo abbandonarono.
L'Austria protestò, ma decise di non muoversi, avendo le ferite
della Seconda Guerra d'indipendenza ancora sanguinanti.
Prussiani e Russi minacciarono severe rappresaglie, ma anche per
loro si trattava solo di parole.
Gli Inglesi si aspettavano che i Francesi muovessero la flotta da
Nizza a La Spezia, ma in questo si oppose Cavour.
Ai primi di agosto, alcune navi da guerra francesi, inglesi e
spagnole si portarono nella baia di Napoli e vennero raggiunte da
una squadra navale piemontese. A tutte non rimase che tenersi
d'occhio le une con le altre.
Il 3 agosto Cavour, che evidentemente aveva capito come sarebbe
andata a finire, emise un decreto col quale invitava i funzionari
napoletani a giurare fedeltà a Vittorio Emanuele Secondo.
Spinto dalle diplomazie internazionali, Vittorio Emanuele inviò un
ordine a Garibaldi per imporgli di non attraversare lo stretto di
Messina e Garibaldi rispose un plateale «disobbedisco!». Ma si
trattava di battute che rispondevano al gioco delle parti, secondo
gli accori presi in tal senso.
L'98 agosto Garibaldi sbarcò in Calabria e in sostanza non trovò
ostacoli nella sua risalita verso Napoli. Ben presto si trovò a
Salerno.
A quel punto Francesco decise di ritirare 50 milioni di ducati e li
fece trasferire, per prudenza, presso la banca d'Inghilterra.
Poi predispose la via di fuga dalla capitale a Gaeta, fortezza
rassicurante grazie alla vicinanza del confine con lo Stato della
Chiesa.
Prima di lasciare Napoli, però, dispose affinché venisse combattuta
una battaglia campale vera e propria, sospinto in questo da Vienna,
e concentrò le sue truppe sul Volturno. Alla fin dei conti aveva
ancora 40.000 uomini e tutto era ancora possibile.
Garibaldi accolto trionfalmente a Napoli
Ma anche i Garibaldini nel frattempo avevano ingrossato le fila,
giungendo al numero di 24.000 uomini. Molti patrioti erano giunti
da tutta Italia, anche dal Trentino.
Il 1º ottobre 1860, a sud del fiume, si svolse lo scontro
principale. Fu una delle più importanti battaglie del Risorgimento
sia per il numero dei combattenti coinvolti che per i risultati
ottenuti da Giuseppe Garibaldi, che arrestò una decisa offensiva
dell'esercito borbonico, finalmente divenuto combattivo e
militarmente determinato.
Ciò che venne meno ai Borbonici, bene armati ed equipaggiati, con
validi ufficiali e soldati, fu l'abilità l'abilità dei capi.
Il contrario dei Garibaldini, mal preparati e poco equipaggiati, ma
comandati da militari capaci e di grande carisma.
Garibaldi mostrò un notevole intuito tattico e organizzativo, non
perse le giornate intere che affaticavano le decisioni del nemico
prima di attaccare.
A fianco dei Borbonici si schierarono unità regolari ungheresi e
polacche.
A fianco dei Garibaldini si schierarono unità regolari di
bersaglieri.
La battaglia comunque rimase incerta fino alla fine.
Gli scontri, notevolmente cruenti e sanguinosi per entrambe le
parti, si chiusero con un nulla di fatto. Il che, in pratica, per i
borbonici significava la sconfitta.
Francesco II, che era uscito da Napoli con l'esercito per salvare
la capitale dalla distruzione, di fronte alla realtà, lasciò le
consegne all'ex ministro di polizia, ora primo ministro, Liborio
Romano, che in accordo con i liberali invitò Garibaldi in
città.
Garibaldi vi entrerà il 7 settembre 1860.
Nel frattempo, Cavour era riuscito a convincere Napoleone III del
pericolo costituito dall'impresa di Garibaldi perché nei territori
occupati dalle camicie rosse, paventando il possibile sorgere di
una repubblica rivoluzionaria che avrebbe potuto turbare
l'equilibrio europeo.
Per questo Napoleone III accettò che il Piemonte si facesse garante
dell'ordine costituito e che inviasse un esercito a contrastare
l'avanzata dei mille (ormai divenuti oltre 50.000).
Così, due contingenti piemontesi, comandati da Manfredo Fanti ed
Enrico Cialdini, entrarono da nord nello Stato Pontificio,
scontrandosi con il generale Lamoricière a Castelfidardo, presso
Ancona, il 18 settembre del 1860.
Il 9 ottobre il comando delle truppe piemontesi fu assunto
direttamente da Vittorio Emanuele II.
Il 26 ottobre Giuseppe Garibaldi e Vittorio Emanuele III si
incontrarono a Teano (foto
sotto). Il mondo e in particolare l'Italia trattenne in fiato
in attesa degli eventi, ma fu a questo punto che avvenne il colpo
di scena. Garibaldi salutò in Vittorio Emanuele II il «primo re
d'Italia».
L'avventura dei 1.000 era finita. L'Italia era fatta, anche se non
ancora proclamata.
La fortezza di Gaeta venne assediata dai Piemontesi fino alla resa,
che avvenne solo il 13 febbraio del 1861.
I Borbonici ebbero un meritato onore delle armi.
Francesco II e la moglie Maria Sofia si imbarcarono per Roma, dove
vennero ospitati dal papa.
Maria Sofia morì nel 1925, sette anni dopo la Grande Guerra, che
lei si augurava potesse finire a favore degli Imperi Centrali e
riavere così il trono perduto.
Guido de Mozzi
[email protected]
Le immagini dei Trentini sono state gentilmente
concesse dalla Fondazione Museo Storico del Trentino, i quadri
riprodotti in foto sono giacenti presso il Museo del Risorgimento
di Milano.