Il misterioso caso della principessa Evelyn von Pless/ 1ª parte

Intrighi, spionaggi, rapine, loschi personaggi nazisti nella storia della ragazza dalla doppia identità incarcerata a Trento nel 1948 – Di Maurizio Panizza

Il Mistero della principessa Evelyn.

Pubblichiamo in tre puntate un’interessante inchiesta giornalistica del nostro Maurizio Panizza, titolare della rubrica «Da una foto una storia» de L'Adigetto.it.
La storia di Evelyn von Pless è intrigante e terrà il lettore con il fiato sospeso fino all’ultima riga. Perché - è bene ricordarlo - si tratta di una storia vera.
Panizza ha fatto una ricerca davvero minuziosa e tutto ciò che ha riportato in questa ricostruzione è assolutamente reale e veritiero.
GdM

Nel novembre del 1948, quando in Europa risuonavano ancora gli echi della guerra, in una cella del carcere di Trento, da quasi un anno una giovane donna era in attesa di giudizio.
Era stata arrestata a Milano, dove abitava in quel periodo, con l’accusa di essere stata a capo di una banda di criminali che un anno prima, nella notte del 15 febbraio 1946, aveva fatto irruzione in una villa di Merano, residenza del barone tedesco Alexander von Hoepfner.
La cosa strana, però, era che la stessa ragazza - la quale si dichiarava innocente - un mese prima del suo arresto aveva denunciato presso la Procura di Milano tale personaggio per essersi appropriato, in combutta con un certo Erich Wolter, di tutti i suoi beni in denaro e gioielli.
 
Ancora più misteriosa risultava però l’identità di quella venticinquenne, la quale, secondo un passaporto falso che aveva con sé al momento dell’arresto, avrebbe dovuto chiamarsi Sonja Ballasch, mentre per sua dichiarazione lei sosteneva invece di essere la principessa Evelyn von Pless, detta Elfi, figlia del principe Hans Heinrich XVII von Pless, capostipite di una delle più ricche famiglie aristocratiche polacche.
Un enigma, quello della doppia identità della carcerata da sciogliere non solo da parte della magistratura, ma anche da un’opinione pubblica nazionale che grazie alle cronache giornalistiche ben presto si era interessata a quello strano caso.
Erano i mesi in cui, sempre a Trento, veniva celebrato un altro processo, ancora più drammatico e clamoroso, che in parte avrebbe messo in ombra l’ingarbugliata vicenda della sedicente principessa.
 
Infatti era ormai arrivata a conclusione l’istruttoria contro Aldo Garollo, il «mostro di Vetriolo», che due anni prima, nella località turistica sopra Levico Terme aveva ucciso a colpi di mitra i genitori e tre vicini di casa.
In un’epoca ancora confusa, di corruzione e di loschi interessi, gli italiani cercavano di uscire dai drammatici strascichi della guerra anche con un pizzico di leggerezza proprio attraverso la curiosità (a volte morbosa) che una vicenda come quella della bella principessa sapevasuscitare.

In tal senso la giovane reclusa - ribelle, intrigante e soprattutto misteriosa - sembrava il soggetto più adatto a fornire infiniti spunti all’immaginazione e alle fantasiose aspettative di un’opinione pubblica sempre più attenta e sempre più ghiotta di pettegolezzi.
 
Il principe Hans Heinrich XVII von Pless presunto padre di Evelyn.

Intricata si rivelò sin da subito la vicenda processuale avviata presso il Tribunale di Bolzano nell’ottobre 1948, perché durante le udienze si sprecarono le accuse reciproche fra accusatore e accusata in merito alla verità dei fatti accaduti due anni prima.

Verità che oggi, alla luce degli atti processuali, pone molti punti interrogativi sul fatto che il procedimento giudiziario possa essere stato «pilotato» da poteri occulti in capo al controverso barone tedesco coinvolto in prima persona con la dittatura.
Del resto si sa bene come nel dopoguerra molti magistrati transitarono del tutto indenni dal Fascismo alla Repubblica senza mai dover rispondere di quanto compiuto nelle aule del regime.
Tutto questo con la conseguenza che i conti con il Ventennio non furono mai chiusi definitivamente e, ancora più grave, che parte della magistratura durante i processi continuava ad avere simpatia per i fascisti e i nazisti che avevano permesso loro di fare carriera.  
 
Tornando al «nostro» processo, se da parte sua l’accusatore sosteneva con assoluta certezza che la donna che guidava la banda di rapinatori era proprio la Ballasch, lo stesso non dava invece spiegazioni sul perché avesse sporto denuncia un anno dopo i fatti e, soprattutto, solo dopo che la ragazza aveva accusato lui di essersi impossessato di tutti i suoi averi.
In più, c’era la testimonianza della domestica di casa von Hoepfner, la quale all’indomani della rapina aveva giurato che la donna entrata in casa quella notte aveva all’incirca 40 anni, mentre all’epoca la Ballasch ne aveva solo 22.
Ma c’era anche un altro particolare inspiegabile. Quello che il giorno dopo l’assalto in villa aveva spinto il barone a dichiarare alla polizia di avere riconosciuto nella donna a capo dei malviventi una certa Maria Enza Lehmann (amante del Wolter) incontrata tempo prima a Roma.
Denuncia, però, che il von Hoepfner non molto tempo dopo avrebbe incomprensibilmente ritirato per giungere a incolpare l’anno successivo proprio Sonja Ballasch.
 
Dal canto suo la Ballasch (alias principessa von Pless) nel corso del processo celebrato presso la Corte di Assise di Bolzano e concluso nel giugno del 1950 dichiarerà:
«Io, Evelyn von Pless, sono nata il 15 agosto 1923 a Pless, in Polonia. Mio padre si chiama Heinrich von Pless.
«Egli aveva avuto una relazione con la principessa Elisabeth von Osorovski, così, a differenza di tutti gli altri bambini, io sono vissuta senza una mamma e senza una vera famiglia.
«Sono stata riconosciuta da mio padre, ma mia madre dopo avermi dato alla luce è tornata da suo marito.»
 
«A Pless – continua il racconto della ragazza – passai la mia giovinezza in una casa che apparteneva a mio nonno, ma nel palazzo non potevo rimanere perché la principessa Caterina, moglie di mio padre, non lo voleva.
«Qualche volta, però, mia madre veniva silenziosamente a trovarmi informandosi dei miei progressi presso le mie istitutrici, Evan von Thiele-Winchel e la baronessa Elisabeth von Raettner, incaricate di assistermi e di sorvegliarmi.»
 

Il palazzo principesco di Pless (oggi Pszczyna).
 
Per quanto riguarda invece il barone von Hoepfner, la Ballasch lo descriverà ben diversamente da come l’opinione pubblica lo aveva conosciuto fino a quel momento.
Riferirà di averlo incontrato a Roma verso la fine del 1941, tramite il Wolter che era il suo socio in affari.
Quest’ultimo, con il quale lei era entrata in contatto a Berlino - prima tappa della sua fuga dalla Polonia occupata dalla Wermacht - le aveva fornito un passaporto falso e l’aveva aiutata a fuggire ospitandola poi in una villetta alla periferia della Capitale.
«A Roma – dichiarerà la ragazza durante le deposizioni – vivevo del denaro che mi era stato dato dall’amministratore dei Pless von Bergen tramite la mia governante di allora, von Hochtstaedter.
«Possedevo una grande quantità di gioielli e denaro in zloti, franchi svizzeri e francesi, ma poco denaro tedesco.»
Racconterà poi come dalla fine della guerra il barone fosse conosciuto in Germania con il soprannome di «Juedenhoepfner» (pizzica-ebrei).
Dopo l’occupazione nazista di Roma, tale appellativo gli era derivato dalla sua stretta collaborazione con la Gestapo.
Secondo quanto sostenuto dalla Ballasch (e anche da una letteratura d’inchiesta del dopoguerra) il von Hoepfner contattava le famiglie di ebrei benestanti promettendo loro il salvacondotto e il trasporto in Palestina in cambio di ingenti somme di denaro.
«Quando costoro gli avevano versato il denaro – riferirà la ragazza – li faceva prendere e avviare ai campi di concentramento.
«Molte volte le vittime si incontravano con l’Hoepfner presso gli uffici della ditta, in via Basento 10, dove lavorava anche l’amante del Wolter.
«Pure la donna era ebrea, così questa povera gente si fidava di lei.»
 
Che in questa atroce faccenda ci sia stato il diretto coinvolgimento dell’Hoepfner - come sostento da Elfi - oggi è difficile da verificare, anche perché il barone nazista pare godesse di alte coperture e protezioni.
Il primo indizio è dato dal fatto che dopo la denuncia della Ballasch nei suoi confronti, il suo arresto durò solo un giorno; il secondo - quasi una prova - che subito dopo la guerra non solo riuscì ad ottenere la cittadinanza italiana a tempo di record (il 2 ottobre 1946), ma incassò pure ampi benefici dal Governo.
Scriveva il Corriere tridentino del 3 novembre 1948: «In due riprese - alla fine del 1947 e nel maggio del 1948 - il barone incassò dal governo italiano ben 6 milioni e 350mila lire per danni di guerra perché la sua impresa, la IMES, aveva perduto due imbarcazioni a causa del conflitto».
E più avanti: «A un certo momento, però, la Finanza volle incassare i propri diritti sugli utili della ditta, cui fin troppo generosamente aveva in precedenza calcolato un imponibile di un milione e 800mila lire e per questo richiedeva i libri contabili della società.
«Ma i libri non si trovavano più in quanto, secondo il barone, erano stati trafugati due anni prima dalla Ballasch nel corso della rapina in villa.»
 
Per l’ineffabile barone, la Ballasch sembrava così diventare, ancora una volta, il facile capro espiatorio di tutte le sue mancate risposte.
Che poi il von Hoepfner fosse un nazista è confermato dalla storia.
Figlio del generale Paul von Hoepfner, di tradizioni rigidamente prussiane, Alexander aderì al Partito Nazionalsocialista di Hitler sin dalla sua fondazione nel 1920.
Prova ne è che più tardi gli fu riconosciuto il «bottone con fronde in oro» di cui vennero insigniti i primi centomila iscritti.

Maurizio Panizza
 
(Fine prima parte. La seconda verrà pubblicata domani)