Il «Trato marzo» – Di Maurizio Panizza
Una delle regole non scritte della comunità trentina che risalgono nei secoli
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Frotte di ragazzotti salivano su di un luogo bene in vista sopra al paese e da lì, all’imbrunire, iniziava un rito vecchio di centinaia d’anni, richiamando con fuochi, grida e scoppi, i popolani all’attenzione.
Per certi versi il «Trato marzo» - come si chiamava - si configurava come una sorta di rito di passaggio per l’età adulta i cui protagonisti spesso erano i coscritti, i giovani giunti quell’anno alla maggiore età.
Era una tradizione fortemente radicata nel territorio contadino del Sud Tirolo e di essa è rimasta un'ampia letteratura a riguardo.
Nel 1889, scriveva Albino Zenatti:
«La sera del primo di marzo, chi percorresse la strada che da Verona mena a Rovereto e a Trento vedrebbe dai poggi che sovrastano i paeselli delle due rive dell'Adige, innalzarsi grandi fiammate ad illuminar di una luce fantastica le vecchie torri degli Scaligeri e dei Castelbarco, e udrebbe grida e canti e spari risvegliar gli echi del Monte Baldo.»
In ogni vallata il «Trato marzo» poteva chiamarsi in modo leggermente diverso (ad esempio Tra zo marz, in Basso Trentino), ma le feste seguivano sempre uno schema rituale comune e celebravano tutte la rigenerazione del tempo verso primi di marzo, in coincidenza con l’arrivo della primavera.
Se fino agli inizi del ’900 questo era un rito diffuso in molte parti del Trentino, oggi resiste ancora in pochi paesi (vedi le foto di Grumes di queste pagine) più come momento di folklore che non come quell’antico rito pagano visto in chiave trasgressiva con esplicito richiamo alla sessualità e alla fecondità.
Un canto di accoppiamento, si potrebbe definire, che conteneva in sé soprattutto un elemento regolatore dell’ordine sociale del paese, nonché la volontà di garantire continuità ai valori e alle regole comunitarie, in particolare al matrimonio e alla famiglia.
Dall’alto del paese, ad un certo punto, uno dei giovani cominciava il rito (che poteva variare leggermente da paese a paese) gridando a squarciagola:
- Trar zo marz su questa tèra, per sposar ’na fiòla bèla.
- Chi éla? Chi no éla?
domandavano in coro gli altri compagni, mentre sotto, in paese, si radunavano altri ragazzi e curiosi.
- L’é la Bepina dele Viate.
- A chi ghe la dénte?
Rispondevano gli altri a botta e risposta:
- Al Toni del Minco.
- Ghe la dénte o no ghe la dénte?
- Dénteghela! Dénteghela!
E allora giù grida, spari e risate a non finire per poi proseguire prendendo di mira altri soggetti fino a quando non fossero state passate in rassegna tutte le ipotetiche e molte volte del tutto improbabili coppie da maritare.
Era, per certi versi, un modo scherzoso, ma pure feroce di mettere alla berlina dei capri espiatori attraverso la burla e la denuncia.
In effetti, molto spesso l’attenzione dei declaratori si appuntava non solo su giovanotti o ragazze in età da marito, quanto piuttosto su coloro che il matrimonio per una ragione o per l’altra non l’avevano ancora contratto o difficilmente avrebbero potuto farlo.
In altre parole, se la funzione principale della donna era quella riproduttiva, i riti del Trato marzo servivano a riconfermare questo principio mettendo in ridicolo chi da questa funzione (il matrimonio e la procreazione, appunto) intendeva derogare: le zitelle, gli scapoli, le vedove, addirittura - a volte - pure i parroci e le perpetue.
Alla lunga, comunque, queste antiche tradizioni via via trasformatesi in vere e proprie commedie, vennero a più riprese messe sotto accusa proprio dalla Chiesa, la quale in numerose occasioni si dichiarò contraria al mantenimento di simili usanze offensive delle persone, della Chiesa e dell’ordine costituito.
Infatti, in Sud Tirolo, fin dalla prima metà del XVII secolo, il Trato marzo era stato proibito dal Principe Vescovo e dalle varie autorità civili, spesso - come abbiamo visto - senza grandi risultati.
Col passare del tempo, però, fu questa la causa che in Trentino portò alla graduale scomparsa dei riti profani di inizio primavera.
Ecco una lettera proveniente da Mori, apparsa l’8 marzo 1910 sul giornale «Il Popolo».
«Tratto marzo! È ora di finirla con quest’uso, che se in tempi addietro poteva costituire uno svago tollerabile per la gioventù innamorata, oggi è degenerato in una consuetudine così stupida e nauseabonda, che i Zulù arrossirebbero di mettere in pratica. Succedono da varie sere delle scene veramente riprovevoli e i nomi delle persone che per vecchiaia, per fisiche imperfezioni od altro, hanno tutto il diritto al nostro rispetto e alla nostra compassionevole commiserazione, vengono gridati ai quattro venti, con aggiunte di nomignoli offensivi ed inverecondi.»
Ma vi era anche un altro rito pubblico di antica cultura popolare, pure quello avente come oggetto il matrimonio. Era una tradizione in uso nei secoli scorsi con forme analoghe pure in Inghilterra, Francia e Germania.
Consisteva in questo: quando ad esempio era in vista un’unione fra un vedovo anziano e una donna molto più giovane, o un matrimonio non voluto dai parenti; oppure quando era previsto uno sposalizio con qualcuno che veniva da fuori (o, addirittura, se si era a conoscenza di una relazione clandestina), veniva messa in scena una strana rappresentazione pubblica, della quale i giovani erano gli attori, ma dove i registi, più o meno occulti, erano gli adulti.
In questi casi, i giovani andavano a fare chiasso battendo su secchi metallici o padelle proprio davanti alle case di chi era stato preso di mira, appunto perché quel rapporto era visto di cattivo occhio e, se possibile, non si doveva consumare.
Ma non era solo baldoria. A volte con dei mattoni si muravano in casa le vittime, oppure se ne ostruiva la porta con carri o legname: insomma, una cattiva carnevalata che veniva a coinvolgere tutto il paese.
Quella che oggi noi chiamiamo privacy e che fa parte dei diritti acquisiti e inalienabili di ogni singolo cittadino, allora evidentemente non esisteva. Per questioni di sopravvivenza in un periodo estremamente duro, il ruolo della comunità era del tutto prevalente rispetto agli interessi della singola persona. Infatti, i comportamenti dell’individuo erano costantemente sottoposti al giudizio di tutta la collettività, in particolare della Chiesa, e il rituale in parola scattava proprio nel momento in cui qualcuno con il suo comportamento minacciava la coesione interna rompendo quell’ordine sociale e morale che garantiva da secoli al paese l’equilibrio demografico e la riproduzione della forza lavoro.
E’ in questo modo che la gente contadina aveva saputo conservare e tramandare attraverso i secoli la propria cultura contenuta in riti e in regole non-scritte della comunità al fine di adattarla ai ritmi dell’economia e della sopravvivenza. Cultura e regole, che alla luce dell’oggi è difficile, se non impossibile, cercare di giudicare.
Maurizio Panizza
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