I paradossi del lavoro globale nell’analisi di Luciano Gallino
Gallino: «Contro la flessibilità globale senza diritti, torni il primato della politica»
«C'è una precisa strategia delle
imprese transnazionali per tagliare le conquiste e i diritti
ottenuti dai lavoratori nel ventesimo secolo.»
In Italia tra i 10 e gli 11 milioni di persone hanno un lavoro
«flessibile», e di questi 5-6 milioni sono i «precari per legge»,
lavoratori con contratti atipici ma regolari, il resto è tutto
lavoro nero.
Luciano Gallino, uno dei padri della sociologia in Italia e uno dei
massimi esperti del lavoro, parla quasi sottovoce ma ciò che dice
ha il fragore di un tuono: «Non è vero che la flessibilità del
lavoro sia un processo virtuoso e, soprattutto, inevitabile.»
Di economisti che la pensano come lui ce ne sono pochi, ma ci sono,
e sono quelli convinti che debba essere la politica a governare
l'economia, non viceversa. Un controcanto sviluppato nel suo ultimo
libro «Il lavoro non è una merce. Contro la flessibilità». Laterza
2008, e che il direttore dei «Quaderni di Sociologia ha riproposto
stamane a Palazzo Geremia, sovvertendo molti luoghi comuni e
credenze, ad esempio che economia irregolare ed economia regolare
non siano due facce della stessa medaglia ma che, anzi, esse siano
strettamente legate in molti settori produttivi, attraverso il
gioco degli appalti e subappalti.
Gallino ha il merito di chiamare le cose col loro nome. Parla di
lavoro decente e lavoro indecente, di «rimercificazione» del
lavoro, di una strategia concordata delle imprese transnazionali e
dei governi occidentali per tagliare i guadagni e i diritti
ottenuti dai lavoratori nel ventesimo secolo.
Da funambolo dei numeri qual è, Gallino parte da alcuni dati.
«In Italia, secondo una stima molto prudente, 4-5 milioni di
persone hanno un contratto di lavoro regolare ma moltissimi di
questi contratti (co.co.co. a tempo determinato, a progetto ecc.)
recano una data di scadenza: qualche mese, settimane, in qualche
caso alcuni giorni. Nel 2005 la durata media dei contratti era di
18,3 giorni. Molti contratti prevedono un orario ridotto: almeno il
60 per cento dei contratti, subiti o imposti, sono a tempo
parziale. Stiamo andando verso un peggioramento della situazione.
Nei primi mesi di quest'anno le nuove assunzioni riguardano per il
70 per cento contratti a scadenza e solo il 15 per cento delle
imprese hanno comunicato la transizione al tempo indeterminato.
Contratti che prevedono una retribuzione media di 1.200 euro al
mese, ma teniamo conto che stiamo parlando di periodi lavorativi
che non superano in media gli 8 mesi. Ben 5 milioni di italiani
sono occupati con un contratto irregolare, sono i lavoratori
dell'economia sommersa, dei quali 3 milioni sono a tempo
parziale.»
Perché trattare insieme i lavoratori flessibili con contratto
irregolare e quelli flessibili con contratto regolare? Perché i
passaggi tra questi due bacini sono molto intensi e fragili.
«Contrariamente a quanto si dice, l'economia irregolare è
strettamente legata a quella regolare, in molti settori produttivi,
attraverso gli appalti e subappalti.»
Per Gallino, la domanda di lavoro flessibile nasce dalla
ristrutturazione su scala globale del processo produttivo.
Obiettivo principale di questa ristrutturazione è quello di
produrre qualsiasi bene nei paesi in cui il costo del lavoro è
minimo e dove sono minimi anche i diritti dei lavoratori.
Secondo l'Organizzazione mondiale del lavoro, le persone che
lavorano sono 3 miliardi, 1,3 dei quali sono lavoratori che non
guadagnano abbastanza per vivere (2 dollari al giorno).
«La sfida - afferma Gallino - non viene da Cina e India, ma dalle
imprese occidentali là insediate, i sindacati hanno pochi strumenti
per opporsi a questa offerta di forza lavoro a basso costo e quindi
la vera sfida della globalizzazione si gioca sul terreno della
politica del lavoro. L'esito di questa sfida dipenderà dal
pareggiamento tra i redditi e i diritti delle forze lavoro più
"benestanti" e quelli delle dei lavoratori meno o per nulla
tutelati, un incontro che avverrà verso l'alto della scala, facendo
salire un miliardo di lavoratori, oppure verso il basso.»
Fenomeno nuovo? Niente affatto. Il rischio che i paesi in via di
sviluppo siano utilizzati dalle imprese transnazionali per aggirare
i lacci e laccioli delle legislazioni che tutelano i diritti dei
lavoratori è stato individuato già quarant'anni fa. Molti sono i
documenti, le linee guida e le Dichiarazioni dettate nel tempo al
fine di assicurare, da parte delle imprese transnazionali, il
rispetto di fondamentali diritti sociali nei paesi in via di
sviluppo, il problema è che tali principi sono completamente
disattesi da decine di migliaia di imprese.
Il motivo è semplice: questi documenti non prevedono sanzioni di
alcun tipo, vedi ad esempio sul lavoro infantile, e dunque… «Le
clausole non dovrebbero essere indirizzate agli Stati ma alle
imprese».
Torna l'esempio della Cina.
«In Cina i salari non arrivano a 1 dollaro l'ora, non sono
riconosciuti i diritti dei lavoratori, che sono obbligati di
risiedere nel recinto della fabbrica, a lavorare per 60 ore a
settimana, e vige il divieto di sciopero. Le zone economiche
speciali e le zone franche cinesi occupano molte decine di milioni
di lavoratori. Da queste zone provengono in buona parte le
esportazioni delle imprese occidentali. Un fiume di export che
diventa una enorme pressione sui salari di tutto il mondo. Il
legame tra la globalizzazione in Cina e la possibilità di avvalersi
laggiù di lavoratori docilmente flessibili è emerso un anno fa in
modo evidente, quando il governo cinese si apprestò ad introdurre
nuovi requisiti per i contratti, prevedendo che siano posti sotto
la tutela dell'autorità pubblica, prevedendo un salario minimo
garantito, l'indennità di licenziamento e , cosa straordinaria, la
contrattazione sindacale. Che cosa è accaduto? Molte imprese
americane ed europee hanno iniziato una campagna molto intensa al
fine di costringere il governo cinese ad annacquare quelle
proposte. Hanno avuto un certo successo, perché la nuova legge,
entrata in vigore il primo gennaio 2008, è stata approvata con
regole meno rigide.
«Chi si è indignato per primo? Qualche organizzazione non
governativa o qualche sociologo? No, i parlamentari americani, che
hanno parlato con sgomento, di fronte agli sforzi delle imprese
americane, di una vergognosa campagna lobbistica contro i diritti
fondamentali dei lavoratori. In Europa e in Italia non è avvenuto
niente del genere!
«La democrazia ha lasciato andare troppo oltre il mercato.»
Il caso cinese - questa la conclusione di Luciano Gallino - dice
che le politiche del lavoro dovrebbero essere il problema centrale.
Il mercato del lavoro sembra essere una secondaria questione
economica. Una politica mondiale del lavoro dovrebbe perseguire
obiettivi quali assicurare i diritti dei lavoratori che non li
hanno fino ad avvicinarli a quelli dei lavoratori ed alle
retribuzioni dei paesi più sviluppati. La domanda, ossessiva e
ossessionante, delle imprese relativamente alla flessibilità nasce
dallo squilibrio tra queste due categorie di lavoratori. Ridurre
tale squilibrio è però possibile e vi sono molti dispositivi delle
leggi internazionali che lo consentono.