Il fallimento della sinistra secondo Federico Rampini

Applausi quando Rampini ha condannato la politica del ferreo rispetto del patto di stabilità di Bruxelles in ossequio al «fondamentalismo ultraliberista» tedesco

Federico Rampini è una vecchia conoscenza del Festival e non ne ha mai persa un'edizione. Questa volta l'editorialista di Repubblica, anche docente in varie università e autore di libri sempre molto apprezzati dal pubblico, ha affrontato un tema che può essere considerato un po' l'altra faccia del populismo: il fallimento della sinistra.
Una critica a tutto campo alle idee della cosiddetta «sinistra radical-chic», quella di Rampini, concentratasi soprattutto sul tema dell'immigrazione, dipinta superficialmente come una risorsa e una ricchezza, quando già Marx nell'800, analizzando la grande migrazione dall'Irlanda, ne aveva messo in luce gli effetti negativi sulle classi popolari dei paesi di accoglienza, in particolare l'abbassamento dei salari causato dall'arrivo di ingenti quantità di manodopera a basso costo. 
 
Da Rampini inoltre una rivisitazione del concetto di nazione, che non va buttato alle ortiche per abbracciare acriticamente il globalismo: la nazione è stata la culla delle democrazie moderne, mentre ogni volta che ci si allontana da questa dimensione per abbracciare il «sistema-mondo» qualcosa, in termine di partecipazione democratica, si perde.
Applausi quando Rampini ha condannato la politica dell'austerità e del ferreo rispetto del patto di stabilità di Bruxelles in ossequio al «fondamentalismo ultraliberista» tedesco, che oggi la sinistra abbraccia acriticamente, di nuovo, dimenticando che ad esempio già Barack Obama aveva messo in guardia la Merkel rispetto agli effetti perversi dell'austerity.
E ancora: il tema del riscaldamento globale: è di fondamentale importanza, ma la risposta non può essere «il modello californiano», che evidentemente non è alla portata di tutti ma solo di ristrette élites.
 

 
Nella sua introduzione il giornalista Massimo Mazzalai ha ricordato la considerazione del presidente della Provincia autonoma Maurizio Fugatti, all'indomani dell'esito dell'ultima tornata elettorale, in sintesi: la sinistra critica il governo, ma non si fa carico delle richieste del popolo.
«Ho iniziato a fare il giornalista ai tempi di Berlinguer – ha esordito Rampini – quando sinistra e popolo erano in qualche modo la stessa cosa.
«C'era una evidente capacità da parte del Partito Comunista di interpretare gli interessi e i valori di una parte consistente del popolo italiano. oggi non è più così, e non solo in Italia.
«La socialdemocrazia tedesca è quasi scomparsa, e così il partito socialista francese. È un evento sconvolgente: il popolo vota a destra.
«C'è una spiegazione consolatoria: il popolo sbaglia. Si lascia tentare da chi parla alla pancia, alle emozioni.
«È un vizio tipico dell'intellettuale di sinistra ragionare così. In realtà il popolo ha capito che la sinistra ha smesso di rappresentare i suoi interessi.
«Quando vado a parlare all'America profonda, operaia, che aveva votato Obama e poi ha votato invece Trump - parlo dell'America “di mezzo”, che la sinistra radical-chic di solito ignora - mi dicono: non siamo noi ad avere abbandonato la sinistra, è la sinistra ad avere abbandonato noi.»
 

 
Rampini ha ricordato una figura emblematica, quella del presidente francese Mitterand. La sua epoca è stata caratterizzata da un «rifiorire» del centro di Parigi, diventato ancora più nuovo, attraente, scintillante, con il nuovo museo D'Orsay e il Gran Louvre; nel frattempo nelle periferie la classe operaia ha iniziato a votare Le Pen. Perché?»
Un tema fondamentale è quello dell'immigrazione, e Rampini non si è tirato indietro nell'affrontarlo.
«Fa sorridere – ha detto – che una parte della sinistra oggi applauda Macron. Macron è un sovranista, per lui gli immigrati non devono passare la frontiera di Ventimiglia.
«Lo stesso vale per l'Austria. Ma a chiudere per prima i confini è stata Angela Merkel, non Salvini, incalzata da un'opinione pubblica che rifiutava la politica delle frontiere aperte.
«La promessa fatta da alcune élites che la società multietnica sarebbe stata un paradiso in terra è una falsa promessa. L'integrazione è sempre stata un problema.
«Naturalmente gli immigrati impiegati nei servizi pubblici di basso profilo o nelle pulizie domestiche fanno comodo a un certo ceto sociale, ma chi ne paga le conseguenze è chi vive nelle periferie.
«Merkel a un certo punto ne ha preso atto: per questo ha cambiato politica e ha fatto l'accordo con Erdogan (per chiudere la rotta balcanica). Se si guarda la mappa della Brexit in Inghilterra si nota che la Brexit ha sfondato nella periferia, non nelle grandi città.»
 

 
«Ma il tema dell'accoglienza dei migranti è troppo rovente, troppo divisivo, – ha detto Rampini. – Per affrontarlo in maniera meno viscerale bisogna guardare al passato. Ad esempio alla catastrofica emigrazione dall'Irlanda, nell'800, a seguito della famosa carestia delle patate.
«Un'isola che aveva 4 milioni di abitanti ne perse per fame un milione (tasso di mortalità del 25%). Un altro milione decise di emigrare, per disperazione.
«Oggi chi pensa agli irlandesi d'America pensa a storie di successo: i Kennedy, i Ford, Disney. Ma all'inizio non fu affatto così: negli Usa gli irlandesi vennero accolti malissimo.
«Come anche gli italiani. Non solo per le differenze culturali: perché questi irlandesi disperati erano pronti a lavorare ad ogni condizione. Marx vide il problema, e scrisse pagine memorabili sulle migrazioni.
«Che la sinistra fa finta oggi di non vedere. I capitalisti hanno sempre voluto le frontiere aperte, perché significano disponibilità di manodopera a basso costo.
«È vero che gli immigrati fanno solo i lavori che gli italiani non vogliono più fare? Solo in parte.
«È vero forse per chi fa la raccolta di pomodori in condizione di semischiavitù.
«Ma se si guarda alla totalità dei lavori, si registra ciò che sapeva anche Marx: l'immigrazione riduce i salari dei residenti. Poi, certo, il pil può crescere anche grazie agli effetti delle migrazioni. Ma a scapito di chi?
«Per quanto riguarda le pensioni. l'immigrato non sta pagando le nostre pensioni, se è regolare sta alimentando il nostro sistema pensionistico, di cui dovrebbe beneficiare anche lui, se rimarrà qui, se un giorno andrà in pensione nel paese che lo ha accolto.
«Se guardiamo al tema delle pensioni sul lungo periodo, le immigrazioni non risolvono il problema. A meno di non continuare ad alimentare per sempre l'immigrazione. E non è detto che il popolo sia d'accordo nel fare questo.»
 

 
Una critica a tutto campo, insomma da parte di Rampini, a quelli che ha dipinto come luoghi comuni della sinistra. Ma c'è anche un'altra sinistra. Ad esempio quella roosveltiana. Che ha creato un welfare nuovo e moderno, che ha rafforzato i diritti dei lavoratori e i sindacati, che ha tassato di più i ricchi.
Quell'America è nata quando le frontiere erano già state chiuse.
Più tardi, a partire dalla metà degli anni 60, le regole sono cambiate, il flusso migratorio in America è tornato a crescere, si sono aperte le frontiere.
Contemporaneamente, è iniziato lo smantellamento del welfare state, l'indebolimento dei sindacati, la crescita esponenziale delle disuguaglianze. Fino ad arrivare all'America di oggi.
 
Quale la lezione storica? «Le società più coese ed omogenee sono quelle meno diseguali, quelle più multietniche sono anche le più diseguali.
«È accaduto negli Usa e sta accadendo, oggi in Svezia, un paese dove l'immigrato che arrivava nel Paese acquisiva immediatamente tutti i diritti dei residenti, che quel sistema di welfare avevano contribuito a creare, per generazioni.
In quanto al multiculturalismo, Rampini ha messo in guardia rispetto ad una visione dell'Islam che minimizza le spinte reazionarie e «medioevali» presenti in seno a questa religione, soprattutto nel wahabismo.
Da ciò ne discende un recupero anche del tema della nazione, che la sinistra ha sposato quando si trattava di rapportarsi ai tibetani, ai curdi, ai palestinesi, ovvero ai popoli privi di nazione, ma che invece ha abbandonato alla destra quando si guarda all'Europa, a casa propria.
«La democrazia è fiorita all'interno della nazione - ha detto - mentre quando si va verso il globalismo qualcosa si perde. Se vogliamo che Trump continui a governare per molti anni smantelliamo tutti i confini.
«Ma attenzione: anche chi emigra crede nei confini. Infatti, vuole stare dalla parte giusta del confine, dove c'è o dove spera di trovare sicurezza, legalità, lavoro.»
 

 
E lo spread? «È diventato uno dei modi per attaccare il governo Conte, – ha rimancato Rampini. – Se l'Europa, governata da un certo Junker, che è stato alla guida del più osceno paradiso fiscale d'Europa, critica l'Italia, la sinistra sceglie di stare con Bruxelles.
«È un voltafaccia clamoroso rispetto ad anni ed anni di critica radicale, da sinistra, all'austerity e al patto di stabilità. Anche Obama diceva alla Merkel che l'austerità era una follia, che le sue rigidità avrebbero depresso l'economia europea. All'epoca la sinistra europea lo applaudiva.
«Oggi la sinistra è completamente sdraiata sul tema del patto di stabilità. Ciò non significa non condannare l'incompetenza di questo governo, che non ha credibilità per contestare le regole europee.
«Questa Europa sbaglia. Ma per smuovere il fondamentalismo degli ultraliberisti tedeschi bisogna avere la forza delle idee e sviluppare una strategia delle alleanze in Europa. Che non c'è.»
 
Infine l'ambientalismo. Per Rampini il tema dei cambiamenti climatici è a tutti gli effetti il problema fondamentale, ma è sbagliato affrontarlo proponendo in alternativa un ambientalismo per «super-ricchi», che sacrifica i diritti dei lavoratori sull'altare di un «modello californiano» che evidentemente non è alla portata di tutti.
Ma ce n'è anche per i supermanager alla Marchionne, cioè per élites globaliste che hanno approfittato dei paradisi fiscali consentiti proprio dalla Globalizzazione per evitare di versare le tasse dovute (quelle personali ma soprattutto quelle delle multinazionali che hanno gestito e gestiscono), riportando indietro l'orologio della storia al feudalesimo, a un'epoca in cui tutti erano tenuti a versare i tributi tranne appunto le classi più elevate, la nobiltà.