Maroni sugli immigrati: Il nostro buonsenso c'è, manca l’Europa
Il monito: «Ci sono tante leggi quanti gli stati della Comunità Europea» Il presidente Dellai condivide la posizione del Ministro
Va subito detto che nel corso del
dibattito non è emerso nulla di diverso di quello che conoscevamo
già. Ma alcuni aspetti sono da annotare.
Anzitutto, il ministro mette il buonsenso in testa a tutto, anche
nell'applicazione delle leggi.
Da annotare la sua osservazione sull'emigrazione dei cervelli dai
paesi della sponda meridionale del Mediterraneo: «Quei paesi hanno
bisogno dei giovani più preparati. Non devono lasciare il proprio
paese in un momento in cui ha la necessità di reimpostare il suo
futuro.
Infine, l'Europa: ognuno dei 27 Paesi della CE ha raggiunto accordi
bilaterali con gli stati del Terzo Mondo.
Ognuno dei 287 Paesi ha una sua legislazione che regola il fenomeno
dell'immigrazione, spesso in contrasto l'una con l'altra.
Il ministro dell'interno Roberto Maroni ha affrontato al teatro
Sociale di Trento, dialogando con Giovanni Peri, docente
all'Università di California e alla Bocconi, il tema di chi deve
governare le politiche dell'immigrazione.
Ad introdurre l'incontro il giornalista Dario Di Vico.
Secondo Maroni «in Italia non esiste una carenza legislativa in
questa materia, la legislazione vigente mette in campo tutti gli
strumenti necessari sia per contrastare l'immigrazione clandestina
sia per gestire i flussi regolari. Ciò che manca, invece, è una
politica concertata a livello europeo».
Il dibattito è stato aperto dal professor Peri, che ha portato il
punto di vista degli economisti.
«L'economia sostiene che la mobilità delle persone porta dei
vantaggi all'economia nel suo complesso. Ma nel mondo solo il 3%
delle persone lavora in un paese diverso da quello in cui è nato,
mentre il commercio estero dei paesi è in media il 20% del Pil. La
mobilità delle persone è quindi più limitata rispetto a quella
delle merci.
«Tuttavia l'immigrazione è crescita: in Italia è passata dall'1 al
7% in circa 15 anni. Ciò che determina le migrazioni sono
essenzialmente tre fattori: il divario economico fra paesi ricchi
(Ocse) e resto del mondo; la spinta demografica nei paesi in cui si
origina l'emigrazione; la presenza di una domanda di lavoro, di
servizi che non viene soddisfatta, nei paesi di accoglienza (il
caso esemplare è quello delle badanti).»
Gli immigrati «rubano» il lavoro ai nativi o invece sono di aiuto
alle economie che li ricevono?
Anche la risposta a questa domanda la conoscevamo già.
Gran parte degli studi dimostra che la maggioranza degli immigrati
non tolgono lavoro agli autoctoni, ma coprono servizi altrimenti
disertati dagli autoctoni e aiutano a tenere basso il costo di tali
servizi.
Un dato interessante semmai è che la mobilità - in termini di
propensione ad emigrare - è più alta in chi ha un titolo di studio
elevato piuttosto che in chi ha un titolo basso.
La capacità dei paesi riceventi di attrarre cervelli in
futuro farà quindi la differenza. Sul piano fiscale, infine, sembra
che gli immigrati sono più contributori netti che riceventi; ciò
soprattutto perché i migranti sono in gran parte giovani.
In definitiva, quindi, le migrazioni sarebbero in realtà una
opportunità per i paesi ricchi.
Per quanto riguarda i paesi poveri il dibattito è aperto: da un
lato ci sono le rimesse, che rappresentano ormai una voce
importante di molte economie, dall'altra il «costo» determinato
dalla fuga dei giovani in possesso di qualifiche più elevate
(mitigato dal fatto che ormai una quota di migrazioni è determinata
da migranti tornanti, che dopo qualche anno rientrano in
patria).
L'Italia infine, sembra fare difetto di una politica attiva
dell'immigrazione.
Si procede per sanatorie, manca una politica di selezione degli
immigrati e mancano canali preferenziali per attrarre i
«cervelli».
Maroni è partito da qui per proporre innanzitutto la distinzione
fra immigrazione regolare e irregolare, e all'interno di questa
seconda categoria fra migranti economici e richiedenti asilo (sulla
base delle regole europee).
Non sempre è facile distinguere in base al paese di provenienza: ad
esempio, non tutti coloro che arrivano dalla Libia sono
effettivamente dei richiedenti asilo.
Non c'è nemmeno un modello unico a cui rifarsi: tutti i modelli
funzionano per un certo periodo, poi - lo si è visto in Germania -
devono essere rivisti.
In quanto a Usa e Canada, hanno una differenza fondamentale
rispetto all'Italia: il controllo dei propri confini, mentre in
Europa i confini fra i paesi membri sono caduti.
A fronte di ciò, non esiste un modello europeo unico sia di
contrasto all'immigrazione irregolare sia di accoglienza dei
migranti.
Qualche cosa si sta facendo, nel senso di trasferire al Parlamento
europeo la possibilità di emanare direttive e regolamenti; ma
abbiamo ancora un 95% di legislazione nazionale e un 5% di
legislazione europea.
In Italia, la prima normativa è stata la legge Martelli, all'inizio
degli anni '90. Poi la legislazione si è via via evoluta.
Gli obiettivi fondamentali: contrastare l'immigrazione clandestina
e creare flussi di immigrazione regolare.
Oggi il fenomeno più rilevante non è tanto l'arrivo dei migranti
clandestini via mare, ma l'arrivo regolare di migranti - via terra
- che poi diventano irregolari (perché si fermano dopo lo scadere
del permesso di soggiorno). Per questi clandestini non ci sono che
due alternative: o i rimpatri o le regolarizzazioni
(sanatorie).
«La Bossi-Fini ha adottato un principio molto criticato ma poi in
realtà adottato anche da altri paesi, come la Spagna: legare
l'immigrazione al possesso di un contratto di lavoro. - Ha
ricordato il Ministro. - Mi sembra un principio assolutamente
corretto, fatta salva la difficoltà di applicarlo correttamente e
in tutti i paesi.
«Sul piano normativo, quindi, il sistema legislativo italiano, per
quanto suscettibile di aggiornamenti periodici, è soddisfacente.
Sul piano dei diritti, parimenti, in Italia gli immigrati godono di
diritti maggiori che in altri paesi europei.
«Ad esempio nel mondo del lavoro l'immigrato assunto regolarmente
gode dello stesso trattamento dei lavoratori italiani: in altri
paesi invece si applicano criteri e trattamenti - anche salariali -
diversi.»
Dov'è allora che le cose non funzionano?
«Manca il raccordo fra i 27 stati europei. - Maroni su questo è
stato preciso. - Così l'emergenza umanitaria che abbiamo vissuto da
gennaio, quando è scoppiata la rivoluzione dei gelsomini
ha visto l'Europa drammaticamente assente».
Il professor Peri ha rilanciato proponendo di migliorare i canali
di reclutamento di manodopera regolare, anche con l'aiuto delle
associazioni imprenditoriali e di quelle create dagli immigrati.
Maroni a sua volta ha spiegato che la legislazione attuale, nello
stabilire le quote di immigrati regolari da accogliere nel
Paese, già prevede di fatto la consultazione delle categorie
datoriali.
Non solo, la legge prevede che il datore di lavoro debba prima
dimostrare che per quel determinato impiego non esistono lavoratori
autoctoni disoccupati da assumere. Ciò ovviamente per prevenire
l'esplodere di conflitti fra disoccupati italiani e lavoratori
stranieri. Tuttavia questa norma di fatto non viene applicata.
«Un problema ulteriore - ha detto Maroni - è dato dal fatto che a
volte i datori di lavoro preferiscono assumere un giovane immigrato
che un lavoratore italiano ultracinquantenne, per questioni legate
al costo del lavoro.»
Riguardo alle politiche attive per «attrarre cervelli» dai paesi in
via di sviluppo e in particolare del Nordafrica, Maroni ha detto
che non sembra corretto sottrarre risorse preziose a quelle realtà,
ma semmai favorire il loro progressivo sviluppo, accompagnato
ovviamente da una crescita dei processi di democratizzazione.
Peri ha obiettato che una quota di persone se ne andrà comunque dai
paesi di origine; studi recenti dimostrerebbero inoltre come dopo
alcuni anni i migranti spesso ritornino in patria riportando a casa
un bagaglio prezioso di competenze e creando network
transnazionali.
«Dipende dai momenti storici - ha replicato a sua volta Maroni. -
Un conto è l'India, un conto i tunisini che in questi mesi sono
sbarcati sulle nostre coste. Dubito che i 24 mila tunisini arrivati
in Italia pensino a ritornare in patria nel prossimo futuro.
«E la cosa strana è che adesso, dopo la rivoluzione del Gelsomini,
dovrebbero aprirsi prospettive nuove e più incoraggianti.
«È prioritario dunque che l'Europa sviluppi un piano di aiuti
comune per il Nordafrica, che lavori per una integrazione delle
economie fra un lato e l'altro del Mediterraneo, che incoraggi la
crescita della democrazia. E' una sfida che non sono certo l'Europa
abbia compreso.
«Se l'Europa non si muove, però, o manda giù solo le bombe, o a
ottobre ci troveremo di fronte ad una situazione dieci volte
peggiorata rispetto a quella attuale.»
Ci sono però due terreni secondo il ministro su cui l'Europa si sta
muovendo, anche se con lentezza: la creazione di un sistema comune
di asilo, che superi i 27 sistemi normativi attuali (ma ci sono
resistenze di alcuni stati membri), e i rapporti con gli stati
terzi (l'Italia ha sottoscritto una trentina di accordi bilaterali
con paesi africani in materie che vanno dalla sicurezza
all'immigrazione clandestina, e altrettanto fanno altri paesi
europei).
«È l'Europa che deve fare gli accordi - ha concluso - e non i
singoli stati.»
Al termine del dibattito, il presidente Dellai ha commentato che
«non c'è nulla da controbattere quando le enunciazioni sono
pienamente condivisibili e quando si riscontra la volontà di
costruire l'Europa».