Le «Troppe coincidenze» di Giuseppe Ayala
Chiacchierata fiume con lo storico magistrato del pool antimafia di Falcone e Borsellino su mafia, politica e la tragedia di Brindisi
Lunedì 11 giugno alle 21, al Teatro Valle dei Laghi di Vezzano, Giovanni Ayala, magistrato e uomo politico presenterà il suo nuovo libro «Troppe coincidenze» (Mondadori 2012).
Un incontro che s’inserisce all’interno del progetto «LINK – percorsi di educazione alla legalità e alla cittadinanza in Valle dei Laghi», promosso da Comunità Valle dei Laghi, Piano Giovani Valle dei Laghi, Fondazione Aida e Comunità Murialdo, con il sostegno della Provincia Autonoma di Trento.
Noi lo abbiamo intervistato in anteprima e questo è quello che ci ha raccontato.
Lunedì sarà in Trentino per presentare il suo nuovo libro. Un testo che tratta un argomento da sempre caldo, ossia il rapporto tra mafia, «poteri occulti» e politica. Cosa ci può dire al riguardo?
Non è purtroppo una novità questa collusione che ha almeno un secolo e mezzo di vita, quanto cioè la storia del nostro Paese.
Già nell’Ottocento venivano denunciati legami tra la mafia e pezzi di politica.
L’analisi ragionata che faccio nel mio libro si riferisce soprattutto agli anni tremendi ’92/93.
Cioè agli anni delle stragi di Palermo, Roma, Firenze e Milano che avvennero in un quadro politico travolto dallo «tsunami» di Tangentopoli.
Lì ci sono delle coincidenze, io le chiamo coincidenze perché oltre non posso andare, che fanno sorgere degli interrogativi molto seri e quest’analisi ragionata la offro a chi ha voglia di leggerla per rendersi meglio conto di come sono andate effettivamente le cose in quegli anni.
Non vuole essere né una sentenza né un’indagine, evidentemente, ma ripeto un’analisi ragionata. Molto ragionata.
Una delle tante coincidenze sottolineate nel libro è anche la rinuncia della mafia all’attacco dello Stato.
E’ così. Dopo le tre stragi efferate del ’93, che bisogna stare attenti, avvennero tutte sotto il Governo Ciampi, un governo tecnico che sanciva il definitivo indebolimento del quadro politico di riferimento di «Cosa nostra», la strage più tremenda doveva avvenire il 23 gennaio del 1994 allo Stadio Olimpico di Roma.
Era stata piazzata lì una Lancia Tema imbottita di tritolo ma per fortuna, a causa probabilmente di un disturbo di onde radio, il telecomando non funzionò.
Il punto è che da quel momento sono passati 18 anni e la mafia non ammazza più, per somma fortuna, uomini politici, giornalisti.
Ha completamente cambiato strategia.
Allora la domanda che mi pongo è: ma che cosa è successo all’inizio del ’94 per indurre «Cosa Nostra» ad abbandonare quella tremenda strategia?
L’unica coincidenza è con il profondo rinnovamento del quadro politico, e qui mi fermo.
Ognuno si formi la propria opinione.
Subito dopo la tragedia di Brindisi si parlò di mafia, di terrorismo. Lei però dice: la mafia non usa più il tritolo, non fa più saltare in aria. Durante quei primi momenti Lei che cosa ha pensato?
Nei primissimi momenti francamente non mi sono precluso nessuna ipotesi, anzi ho trovato molto giusto quello che il Presidente della Repubblica disse, ovvero che non si poteva privilegiare nessuna pista.
Poi, fermo restando che avevo solo notizie giornalistiche, la cosa che mi ha molto colpito e sulla quale ho ragionato era l’assoluta mancanza di professionalità del killer.
Un killer che si fa riprendere da una telecamera cozza con l’estrema preparazione degli uomini della mafia e dei terroristi.
Questo fatto mi induceva a optare, come adesso pare confermato, per un’iniziativa di un singolo e quindi avulso dal contesto mafioso o terroristico.
D’altra parte con il passare dei giorni rilevavo il fatto che la pista terroristica non reggeva per la semplice ragione che non era stata fatta nessuna rivendicazione.
Ora noi sappiamo bene, perché i delitti terroristici purtroppo sono stati tanti, che segue sempre una rivendicazione.
In quel caso passavano i giorni ma la rivendicazione non arrivava quindi mi orientavo sempre di più verso quello che poi è stato lo sbocco che è finito sui giornali.
Molti hanno detto, sentendo anche le dichiarazioni fatte dai brindisini dopo la tragedia avvenuta all’esterno della scuola Morbillo-Falcone che il Sud è cambiato, che il Sud ha una forza nuova, ha voglia di alzare la testa. Lei è d’accordo con queste affermazioni?
Sì, sono d’accordo. Io purtroppo, a causa della mia anagrafe, ho una memoria lunga e debbo dire che in molte parti del Sud, compresa la mia amata Sicilia, registro da parte della società civile delle novità positive.
Non vanno generalizzate ma non vanno nemmeno ridimensionate. Specialmente tra i giovani c’è una voglia di legalità, una voglia di sconfiggere questo fenomeno tremendo che ormai avvilisce non soltanto le regioni del Sud ma anche quelle del Nord.
Sono segnali importanti che ci autorizzano a essere fiduciosi del futuro.
Secondo Lei che cosa si è fatto di buono in questi ultimi decenni e che cosa invece non è cambiato per niente?
Questo libro in fondo è anche la cronaca della mia esperienza parlamentare. Io sono stato eletto per la prima volta nell’aprile del 1992, quindi poco prima che iniziasse quella stagione tremenda che ricordavo.
Dedico un capitolo corposo anche alla «questione giustizia», alla mancata riforma delle giustizia che fa sì che la nostra Italia abbia una giustizia di una lentezza intollerabile. E cito un dato che emerge da una rilevazione fatta dalla Banca Nazionale degli Investimenti sui tempi della giustizia in 181 Paesi del mondo. Ebbene noi siamo al 156 posto preceduta, tanto per dire, anche dall’Angola e dal Gabon.
Io ritengo che questa sia una vergogna, uso con consapevolezza questa parola, ed è una responsabilità grave da attribuire alla nostra classe politica e parlamentare. E’ una riforma che sarebbe facilissimo fare ma il fatto che non sia mai stata realizzata significa che non si vuole, in questo Paese che la giustizia funzioni come funziona nei Paesi verso ai quali dobbiamo guardare. Ossia Francia, Germania, Inghilterra.
E’ una responsabilità politica, a mio avviso, enorme.
Per concludere Le chiedo un ricordo di Falcone e Borsellino
Uno solo? (ride). Ma guardi ce ne sono tantissimi, soprattutto su Falcone con cui ho avuto una continuità di rapporto più lunga perché poi Paolo nel 1986 andò a fare il Procuratore alla Repubblica di Marsala mentre io andai a fare il maxi processo e quindi perdemmo un po’ i contatti anche se ci siamo continuati a volere molto bene.
Con Falcone ho avuto un rapporto quasi di convivenza. Facevamo assieme anche le poche vacanze che avevamo, quindi penso che non debba spendere molte parole per far capire il vuoto enorme che la loro scomparsa ha lasciato in me.
Ho continuato a fare quello che ritenevo giusto fare, non mi sono fermato. Se hanno continuato a seguirmi anche dall’aldilà penso mi abbiano apprezzato per questo.
Sono convinto che non sarebbe piaciuto loro se mi fossi fermato e fossi caduto nella cosiddetta “sindrome del «reduce». Questo l’ho volutamente evitato e comunque non sta a me giudicare se ho fatto bene oppure ho fatto male. Certamente ho continuato a fare delle cose e questo penso che nessuno me lo possa negare.
E l’ho fatto pensando proprio a loro.
Intervista a cura di Chiara Limelli