Matteo Renzi, ovvero la «sconfitta di Pirro»
Il Paese ha bocciato la riforma costituzionale, non l’unico vero leader che l’Italia ha avuto dopo Berlusconi
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Il Primo Governo Gentiloni sta ricevendo l’imprimatur dalle Camere e forse è il momento di ripercorrere i mille giorni di Matteo Renzi per capire meglio che cosa abbia portato a questa situazione.
Questa Legislatura non ci è mai piaciuta. È formata da partiti tra loro incompatibili e tra i quali il rapporto verbale non può certamente essere definito dialettico.
Bersani non era riuscito a formare il governo e allora Napolitano aveva incaricato Letta, il cui merito è stato esclusivamente quello di trovare una nuova - apparentemente improbabile - maggioranza. Una maggioranza piuttosto singolare, infatti, dato che abbiamo visto raccordare il PD con parte del Centrodestra di Berlusconi.
Poi è arrivato Matteo Renzi che, portando in dote il plebiscito alla segreteria del PD, senza troppi riguardi si è sostituito a Letta. Un caso forse unico in Italia, dove un segretario di partito, non parlamentare, è entrato di brutto a Palazzo Chigi.
D’improvviso con Renzi la Legislatura ha preso vita, irritando le opposizioni del Centrodestra e dei 5 Stelle, che già sognavano un ritorno immediato alle urne. Renzi si è dimostrato fin dall’inizio un Presidente disinvolto, decisionale, attivo, ottimista, con le idee chiare. Come Berlusconi di un tempo.
E qui c’è un primo punto da rilevare.
Renzi, contrariamente a Bersani e a tanti altri leader del suo partito, è un Democratico di terza generazione.
La prima generazione, lo ricordiamo, era quella formata da Democrazia Cristiana e Partito Comunista che, dopo aver litigato per l’intera Prima Repubblica, si erano dovuti mettere insieme per non scomparire.
Ovviamente le due anime non sono mai andate pienamente d’accordo, ma bene o male hanno sempre trovato la quadra, né più né meno di come accadeva nella Prima Repubblica, altrimenti la DC non sarebbe riuscita a varare una sola legge se il PCI avesse fatto l’ostruzione vera.
Per dimenticare quelle due anime «che – come ebbe a dire a noi Massimo D’Alema – nascono comunque dal medesimo ceppo», è stato necessario che la terza generazione arrivasse alle soglie del potere.
Anche questo lo avevamo fatto osservare a D’Alema, il quale ci aveva precisato che «anche Renzi avrebbe dovuto non dimenticare mai i caratteri originali del PD»...
Dunque, sostenuto dal successo delle primarie del PD, Renzi venne al governo. Dimostrò subito di ragionare col buonsenso, senza domandarsi se la cosa giusta da fare fosse di destra o di sinistra.
Questo infastidì gli antichi maggiorenti, perché il corso di Renzi si avvicinava troppo alle logiche di Berlusconi. Infatti, al di là dei colori e delle posizioni di principio, le cose giuste da fare erano abbastanza condivise dai partiti che animavano la parte moderata del Parlamento.
Ad un certo punto i rapporti tra Berlusconi e Renzi, codificati in quello che passerà alla storia col nome irriverente di Patto del Nazareno, divennero così affini da imbarazzare sia il centrodestra che il centrosinistra.
Renzi, a star troppo vicino a Berlusconi, avrebbe perso per strada gran parte del partito. Viceversa, Berlusconi aveva meno da perdere, essendo un leader storico consolidato e, soprattutto, all’opposizione.
Fatto sta che Renzi si trovò costretto a interrompere il feeling con Berlusconi. La frattura fu codificata con la votazione dei senatori che hanno voluto estromettere Berlusconi dal Senato per via della condanna a quattro anni (poi ridotti a uno per via del condono) di carcere per una strana evasione fiscale.
Non è stato un bel gesto, anche se politicamente obbligato, perché Berlusconi aveva tutti i diritti a restare senatore, se non altro perché la legge Severino era stata fatta dopo i fatti che hanno portato alla sua condanna. Non doveva essere modificata la legge Severino: bastava che il Senato non espellesse Berlusconi.
Fine della collaborazione, punto.
Poi accadde un altro plebiscito a favore di Matteo Renzi, le elezioni europee del 2014, dove il PD ottenne qualcosa come il 40% dei voti.
Renzi si sentì così autorizzato ad andare avanti senza altri appoggi extra coalizione e iniziò a modificare la Costituzione a colpi di maggioranza.
Noi abbiamo sempre sostenuto che una cattiva riforma sia meglio di una riforma non fatta, per cui abbiamo appoggiato le iniziative volte a semplificare la Costituzione. Il bicamerale perfetto doveva essere interrotto, il Parlamento andava reso più snello, la Pubblica Amministrazione andava semplificata, le province potevano essere incorporate dalle regioni.
Se la riduzione dei parlamentari era fondamentale, la modifica del Senato così come pensata da Renzi era piuttosto semplicistica. L’abolizione delle province poteva essere fatta come in Trentino Alto Adige, dove i consiglieri provinciali riuniti formano il consiglio regionale.
Anche la spinta centralistica del governo Renzi rappresentava una marcia indietro rispetto al 1970, quando furono proprio le sinistre a voler costituire le regioni.
Anche la legge elettorale, fatta in modo che fosse il partito vincente e non la coalizione a prendere il premio di maggioranza, era piuttosto presuntuosa.
Tutti questi nodi vennero al pettine al momento del referendum dello scorso 4 dicembre, quando il Paese – di per sé sempre titubante di fronte ai grandi cambiamenti – ha bocciato la riforma di Renzi con il 60 percento dei voti.
A ben vedere, però, quel 40 percento di Sì rappresenta una grande vittoria per il premier sconfitto. Non è un ossimoro, perché mentre le opposizioni che hanno votato contro Renzi sono incompatibili, cioè non in grado di coalizzarsi, il fronte del Sì sarà compatto al momento delle prossime elezioni.
Per questo le dimissioni di Renzi – doverose perché il No ha bocciato una parte importante dei suoi tre anni di lavoro a Palazzo Chigi – in realtà sono un momento di pausa che gli consntirà di partire meglio al momento opportuno.
Guardando gli scenari politici, vediamo infatti un Movimento 5 Stelle che non vuole legarsi con nessuno, un Centrodestra che non trova accordi di alcun genere (Berlusconi ha chiuso e Salvini da solo non va da nessuna parte), gli altri partiti sono frazionali e non giocano ruoli significativi.
Renzi, prima di andarsene da Palazzo Chigi, aveva fatto un vertice con Padoan e Gentiloni per concordare le mosse successive alle sue dimissioni. E, dato che la politica – tolte le variabili impazzite – è una scienza esatta, tutto è andato come previsto.
Mattarella ha fatto il suo dovere, attenendosi strettamente alla Costituzione, di cui è garante. Il reincarico era doveroso e la scelta del premier doveva rispecchiare la maggioranza esistente in parlamento. Renzi infatti non è mai stato sfiduciato.
Hanno voglia le opposizioni a invocare le elezioni subito. La Costituzione non è stata modificata per legge, tanto meno verrà modificata a «furor di popolo», come cantano alcuni leader.
Questo governo affronterà le emergenze economiche, sociali e umanitarie, poi farà sì che la legge elettorale diventi plausibile per un paese democratico ed estesa a entrambe le camere del Parlamento.
Al momento opportuno il Governo potrà ritenere di aver concluso il mandato e concordare eventuali elezioni anticipate.
Nel frattempo Renzi avrà avuto modo di preparare un ritorno alla grande e ricominciare il suo sogno di rivisitare la Costituzione italiana e portare l'Italia nel futuro. Stavolta in maniera migliore, magari condivisa.
Questo non lo diciamo perché appoggiamo Matteo Renzi, sia ben chiaro, ma perché la strada è tracciata dallo scenario politico di questo momento storico.
G. de Mozzi