Belle Epoque. (Erotica storia d’amore di fine ottocento)

Tredicesima e ultima Puntata

La mattina del matrimonio andai a far visita alla tomba di famiglia, dove adesso c'erano i posti per me, mia moglie e i miei discendenti.
Prima mi rivolsi ai miei antenati, invitandoli a ringraziare nostro Signore a nome di tutto il casato Alvisi per avermi fatto trovare due figli.
Poi rivolsi la mente ai miei genitori e mi accorsi di non aver mai pensato a veramente loro. Mi vergognai e sentii il cuore stringere di puro dolore. Forse non li avevo mai amati fino a quel momento, ma ora sapevo che loro avrebbero voluto che io li amassi… Mi inginocchiai e chiesi loro perdono per non aver capito nulla, per non averli amati abbastanza, per non essere stato loro abbastanza grato di essere venuto al mondo. Mi mancavano improvvisamente entrambi da morire.
Mi scese una lacrima sulla guancia.

Il giorno delle nozze sfogliai il Gazzettino, trovando la notizia del matrimonio di mia figlia. Avevo fatto acquistare un centinaio di copie da lasciare casualmente in giro per la casa… Cosa volete, ad una certa età si hanno queste debolezze…
I ragazzi e le ragazze delle famiglie dei miei contadini erano vestiti da cocchieri, posteggiatori, camerieri, cuochi, sottocuochi, cantinieri, baristi e guardie. Era il giorno del matrimonio della figlia del loro signore e sapevano che il regalo migliore era quello di far funzionare il ricevimento alla perfezione. Io avevo fatto un giro di controllo con la vecchia e fidata Annamaria, la quale ora diceva che mi aveva visto nascere e che Novella mi avrebbe visto morire. Nel frattempo, quindi, dovevo imparare a controllare io Novella, la quale mi portò a verificare che aveva fatto lavare le mani ai camerieri, che aveva fatto mettere il vino bianco nel ghiaccio (avevano appena inventato una macchina che lo fabbricava), che le cucine avevano ricevuto le giuste disposizioni riguardo alla tempistica.

Novella si era sposata il nostro cocchiere, il quale si era dichiarato disposto ad imparare a condurre un'automobile se mai ne avessi acquistata una. Non mi ero mai scopato Novella, ma era l'unica a sapere di me e Ortensia. Per questo l'avevo avvicinata per avvisarla che il matrimonio non sarebbe stato incestuoso.
«Lo so, lo so.» - mi aveva risposto facendomi l'occhiolino. Dunque ne sapeva molto più di me, la troia, ma non volli lo stesso approfondire.
Mi ero accorto che per troppi anni non avevo più guardato le donne con l'interesse di una volta. Il mio desiderio si era placato per vent'anni, cioè da quando avevo casualmente scoperto che le donne non sono solo un corpo e un'anima, ma anche delle compagne vere e proprie. Adesso era giunto il momento di riprendere gli equilibri, pur facendo posto alle nuove generazioni.
Chissà se l'avvento di un nuovo giovane maschio in villa le aveva incuriosite e magari un po' intrigate. Chissà se mio figlio sarebbe stato abbastanza generoso con loro o se avesse voluto riservare il suo aristocratico pene solo per mia figlia... Il paradosso retorico mi fece rendere conto di pensare idiozie senili, ma la cosa non mi disturbò per nulla.
Inevitabilmente notai come un tempo il culo della giovane Bruseghin che stava china per raccogliere un vassoio, un didietro di tutto rispetto e mi ripromisi di provarci non appena dimenticati i fasti e le angosce del matrimonio. Era ora che il conte Matteo Alvisi, che aveva riscoperto la moglie e la sua grande femminilità, facesse nuovamente sentire la sua presenza virile in casa. Tanto, l'avrebbero comunque prima o poi definito vecchio bavoso e pomicione.
Incominciai con Novella.
«Novella?»
«Comàndi siór cónte.»
«Io non ti ho mai montata...»
«El sé sémpre en témpo, dotor.» - disse guardandomi in faccia soddisfatta.
«Novella! - dissi, evidentemente preso di contropiede. - Ma cosa dici!»
«Ho detto qualcosa di male?»
«No, ma perché mi hai chiamato dottore
«È stato un làpis, come dite voi che siete studiato, siór cónte…»
Voleva dire un lapsus e magari Freudiano, come si dice da quando il dottor Freud ha pubblicato il suo singolare libro sulla psicanalisi.
«E cosa direbbe tuo marito?»
«Non sarebbero affari suoi.»
«Senti senti che perversa! Ha ha!»
«Ah, non sto mica scherzando, siór cónte. Lui deve fare la sua parte di cocchiere onesto, servizievole e… sopratutto fedele.»
«Non dire altro, Novella.»
«Siete voi che comandate.»
«Insomma, tu ti faresti montare da me?»
«Come mi aveva comandato la paróna Ortensia tanti àni fa
«Ricordi proprio tutto eh?»
«Certo. Ma dovreste ricordarvelo anche voi. - Sorrise maliziosa. - Non avrei neanche da confessarmi, perché non farei altro che mantenere una promessa.»

A proposito, avevo anche ripreso a confessarmi dal prete del paese. Dato che avevo ridotto i rapporti extraconiugali e lui non era più così giovane, niente più scopate strane da parte mia e niente più onanismo da parte sua. Di conseguenza, mi pareva giusto che il matrimonio lo celebrasse lui perché in un certo senso era di famiglia, senza contare che in veste di confessore ne sapeva molto più lui di tutti noi messi insieme. Come voleva il protocollo di famiglia, avrebbe celebrato il matrimonio nella cappella della villa.
La bella Battiston stava china, sistemando insieme ad una giovane fanciulla l'angolo delle poltrone.
«Come sta la mia bellissima Antonietta?
«Siór cónte!»
Si chinò in avanti con educazione e mi sorrise con complicità come se l'ultima scopata, che risaliva a più di vent'anni fa, fosse accaduta la sera prima.
«Sei sempre più attraente.» - restituii la galanteria.
Facendo i conti, avrebbe dovuto avere trentanove anni.
«Grazie siór cónte, voi siete sempre un gentiluomo. - Si fece indietro. - «Siór cónte, conosce la mia figlia Alda? »
Mi feci avanti piano mentre la ragazza si metteva a fare l'inchino tenendo gli occhi bassi e un sorriso malizioso sulle labbra.
«Ha-haa… - dissi avvicinandomi con sguardo attento. - Ma guarda te, che capolavoro che hai fatto.»
La giovane si raddrizzò stringendosi le mani guantate. Le girai intorno osservandola. Vestita da cameriera era davvero carina come sua madre.
«Perché non venite a trovarmi tra una decina di giorni? - chiesi spudoratamente. - Mia moglie si recherà a Padova per una settimana.»
«Ossignór, come ai veci tempi?»
«Beh, perché no? È cambiato qualcosa?»
«A guardarvi bene, sembra proprio di no!»
«E allora tanto meglio.»
«Verremo a servizio durante l'assenza della signora contessa.» - confermò, scandendo le parole e inchinandosi rispettosamente.
«Brava Nia. Mettiti d'accordo con Novella.»
Mi venne in mente la Lissandrin. Mi avevano detto che era andata ad abitare ad Asolo e che aveva avuto una figlia anche lei. Sarebbe stata la quarta generazione e a questo punto non avrei dovuto perdere l'occasione. Ci sarei andato non appena fosse tornato il cocchiere da Padova. Poi vedremo come metterle insieme, pensai, guardando ancora le due donne chinate a sistemare le poltrone.
Lissandrìn e Battistón, canticchiai come ai vecchi tempi, prese insieme sul paión.

Mi interruppe i turpi pensieri il poeta Ermete Federici.
«Ciao Ermete!»
«Ciao ciao Matteo! Come stai? Giorno felice oggi, eh?»
«Così sembrerebbe... Senti, si dice che il conte Macchi abbia avuto una crisi mistica e abbia smesso di frequentare le ragazzine. È proprio vero?»
Il conte Ernesto Macchi era il classico maiale che si trova sia in campagna che in città. Beh, correva voce che si fosse ravveduto.
«Come? - Rispose il poeta ridendo. - No no... Ha semplicemente ereditato le sue sostanze e adesso è diventato tirchio!»
«Edificante, poetico.»
«Ma è solo questione di tempo. Come diceva il Padre Dante, poscia, più che il dolor poté il digiuno...»
«O, come diceva il figlio di Dante, poscia, alza la coscia e piscia
«Sei diventato un poeta anche tu?»

«Ostia, il conte Enrico! - mi lasciai sfuggire vedendolo, perché era superstizioso e non volevo perdere l'occasione. - Chi non muore si rivede!»
«Vàra, quando ti védo me tóco sempre i coióni…!»
«Enrico, - gli chiesi seriamente. - hai letto i Promessi Sposi
«Certo menagramo… Perché me lo chiedi?»
«Lo sai perché il Manzoni chiamava l'Innominato quel personaggio infame che…?»
«No, - rispose rilassandosi. - Perché lo chiama così?»
«Perché pronunciare il suo nome portava sfiga.»
«Bruto lazarón, menagràmo nato d'un càn! »
«Non potresti usare un lin-guaggio più urbano, Enrico?» - gli chiesi ironico.
«Terque quaterque, testiculis tactis.» - intervenne allora il mio illustre amico Checco Clementi con ottimo tempismo letterario.
Clementi era venuto con il suo amichetto di turno. Beh, non proprio un amichetto direi, dato che sembrava un armadio. Checco, nel suo tight che gli cadeva a pennello e con una perla bianca sotto il nodo della cravatta, era elegantissimo quanto emozionato perché sarebbe stato il testimone di mia figlia, come si leggeva nel Gazzettino che teneva in mano casualmente… La cosa avrebbe scatenato le critiche dei benpensanti, ma non avevo trovato nulla di meglio per dichiarare la tolleranza della mia famiglia nei confronti dei diversi, come peraltro dei poveri e degli emarginati, in pieno spirito liberale della Belle Époque.
«Non ci saran più vergini… - canticchiai sottovoce all'amico omosessuale; era un ritornello universitario che solo io potevo citare in sua presenza, - …né culattoni a spasso
«Esclusi i presenti.» - Strizzò l'occhiolino.
«Esclusi i presenti.»

L'orchestrina che avevo fatto venire stava accordando gli strumenti. Stavolta, dopo la marcia nnziale, avrebbero suonato musica moderna. Mi ero personalmente adoperato affinché nel loro repertorio venisse inserito il Can Can. L'avevo visto ballare al Moulin Rouge di Parigi e mi sembrava l'ideale per l'occasione; gioviale, pieno di vita, dissacrante. L'autore era un certo Jacques Eberscht, ma evidentemente il nome non piaceva al suo editore, perché questo gli affibbiò il nome d'arte Offenbach, preso dalla cittadina vicina a Francoforte dov'era nato il musicista. Forse pronunciare il suo vero nome portava male… Questi editori!
Gli ospiti erano tutti arrivati, compresi i suoceri, da tempo Conti Carraro, mentre lo sposo sarebbe venuto da Castelfranco Veneto, dove era giunto in treno e dove aveva passato la notte con la mamma e i suoi intimi. Castelfranco era un po' lontana da Altivole, ma avevano assicurato che con la loro nuova automobile avrebbero impiegato solo un'ora a percorrere quei dieci chilometri di strada sterrata.

Mia moglie era con Ortensia nella sua camera, aspettando che io andassi a prenderla non appena avessi visto arrivare il convoglio dello sposo. Andai all'ingresso e uscii in giardino ad ascoltare il rilassante chiasso delle cicale proveniente dal bosco e quello delle rane che gracidavano nel laghetto. Avrei voluto essere nell'isoletta da solo, come quand'ero ragazzino, per osservare la cerimonia senza parteciparvi, ma quello era proprio il mio momento e non potevo mancare. Il matrimonio era solo un aspetto piccolo piccolo di un evento grande grande.
Ripensai al contratto matrimoniale stipulato tra le parti su mia iniziativa. Gli eredi del marchese Marco di Moncalieri e della contessa Ortensia Alvisi avrebbero portato due cognomi: Parrini Alvisi, conti di Altivole e marchesi di Moncalieri...
Sentii i rintocchi dell'orologio della piazza e alzai gli occhi al cielo. Gocce del tempo, sospirai, che si staccano
D'un tratto, preceduti dalle campane del paese che iniziarono a scatenarsi a festa col din-don-dan tipico della campagna veneta, un'incredibile macchina color malva, lunga almeno come due carrozze, seguita da altre cinque o sei, entrò dal cancello principale della villa, esposto a Est, spaventando la selvaggina della mia tenuta e i pesci delle mie acque. Il sole, da dietro, rendeva la scena di una luminosità irreale. Era la felicità che stava entrando nella mia vita.
Ora sapevo di amare sia mia moglie che Ortensia.
I miei due figli stavano per prendere possesso di ciò che gli apparteneva per sangue, per amore, per sesso e… per diritto ereditario del mio casato nobiliare, i conti Alvisi della Serenissima, aristocratici da prima della Serrata del Maggior Consiglio.

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Marco Alvisi






FINE








Nelle immagini, dall'alto: Una Isotta Fraschini modello 8 Bateau; il dipinto di Peter Paul Rubens, Lady London; Toulouse Lautrec, Bar; Villa Giauna, a San Vito di Altivole, dove è accaduta la storia che abbiamo raccontato rendendola... più credibile dell'originale.