Storie di donne, letteratura di genere/ 526 – Di Luciana Grillo

Dunya Breur, «Riaffiorano le nostre vite» – È un libro-monumento che ricostruisce la memoria personale e collettiva di una storia che non deve essere dimenticata

Titolo: Riaffiorano le nostre vite
Autrice: Dunya Breur
 
Traduttore: Franco Tirletti
Editore: Enciclopedia delle Donne, 2023
 
Pagine: 416, ill. Brossura
Prezzo di copertina: € 23
 
Dunya Breur racconta la vita di sua madre Aat, militante olandese antinazista, raffinata artista, disegnatrice delicata che a ventinove anni fu imprigionata e deportata nel campo femminile di Ravensbruck, dal quale uscì con l’aiuto dell’amica carissima Haidi Hautval, francese, per ritornare definitivamente in Olanda.
Dunya si è imposta di trasmettere la storia di sua madre a chi è arrivato dopo, con lo scopo di preservare la Memoria, di dare nuova vita e voce a chi non c’è più, di portare alla luce eventi drammatici che le stesse sopravvissute volevano forse seppellire per sempre.
 
L’aver ritrovato per caso una cartellina ingiallita dal tempo contenente i disegni che sua madre aveva tracciato durante la permanenza a Ravensbruck è per Dunya la spinta necessaria per ripercorrere il tragitto che porta al Lager.
E dunque, questa figlia – affidata dalla mamma ai nonni per salvarle la vita – ha intervistato «le compagne della madre, le donne ritratte nei suoi disegni…» per rendere onore a tutte le donne «vittime talvolta inconsapevoli del razzismo nazifascista», seguendo il suggerimento di suo padre Krijn espresso nelle ultime ore di vita.
 
Aveva venticinque anni, era il 5 febbraio 1943:
«Racconta ai tuoi figli di noi e della nostra lotta e della vita che vogliamo. Possano i nostri più grandi desideri essere superati dalla vita stessa.
Lavora e ama, combatti e vinci.
Vivi. Vivete tutti e diventate grandi.»
 
Dunya parte da lontano, dal suo primo anno di vita, vissuto in prigione con sua madre, mentre suo padre scompariva nel nulla.
La mamma nell’estate del ’43 fu deportata in Germania, a Ravensbruck, e mandata a lavorare: spalava pietre, scaricava dai camion carbone e patate, che rubava nascondendole sotto l’abito a righe da carcerata, portava tutto ciò che possedeva con sé, legato con uno spago ala vita, perché anche tra le deportate si rubava… ma ci si aiutava anche, nei limiti del possibile; chi lavorava in sartoria portava fili e aghi, chi era addetta ai magazzini, rubava vestiti sottratti alle deportate all’arrivo nel campo, chi poteva, rubava cibo.
 
I racconti della mamma sono particolareggiati, parla delle donne che venivano rasate, di quelle che trasportavano calderoni pieni di brodaglia di block in block, di quelle che lavoravano in una fabbrica di biscotti o alla Siemens, delle altre che ricevevano pacchi o lettere, sempre scritte in tedesco e censurate preventivamente dalle S.S. Lì si intrecciavano tante lingue diverse.
 
Un giorno fu possibile ad Aat accedere in legatoria, quindi liberarsi dei lavori pesanti e imparare a rilegare libri, a disegnare biglietti augurali e anche a sottrarre un po’ di carta e matite.
Poi, seduta sulla branda più in alto, per non essere vista, disegnava volti e scene di morte e desolazione, fogli che in una cartellina ingiallita sua figlia avrebbe recuperato più tardi.
«Sapevo dell’esistenza dei disegni che mia madre aveva fatto nel campo di concentramento dal giorno in cui ci arrivò una grande pila di bellissimi dischi per grammofono: il ringraziamento del museo di Ravensbruck per alcuni disegni».
 
Quando Aat ritorna dal campo, non parla, non racconta. Deve passare del tempo…e riuscirà anche a ritrovare le sue compagne, come Haidi.
Scrive Dunya: «Potevano non vedersi per anni, ma se succedeva qualcosa a mia madre, Haidi era presente. E viceversa…una telefonata, un messaggio spedito in Francia e trovavamo una lettera sullo zerbino, veniva recapitata una composizione floreale, il telefono squillava o il campanello suonava, ed era lei».
Dunya va a Ravensbruck, depone fiori, si guarda attorno e «fu come ricevere una botta in testa all’improvviso… La consapevolezza che in quel posto era successo di tutto».
 
In quel posto erano state ammassate donne provenienti da 23 Paesi, identificati dal colore, da una lettera e da un numero su un triangolo cucito sulla manica sinistra: tedesche, polacche, inglesi, belghe, jugoslave, norvegesi, olandesi, zingare. Con le italiane Aat non aveva avuto nessun contatto.
Quando finalmente arrivarono i liberatori, il 29 aprile 1945, - «Sono arrivati, gli americani! Li ho visti! Sì, sì, stavolta è vero! Oh, che gioia!» - «le tremila donne del nostro campo erano completamente fuori di sé e volavano al collo dei liberatori sommergendoli di fiori»… in realtà era l’esercito russo.
La vita ricominciava, ma «perché c’è la guerra, perché c’erano e ci sono i campi di concentramento, perché una persona ne uccide un’altra? Per paura».
 
Questo è un libro importante, arricchito dai disegni di Aat Breur-Hibma, di cui sono proprietari i figli di Dunya: volti di bimbi, di donne coperte di stracci, di carri dei morti, di cadaveri ammassati sul pavimento, di una piccola bara, di donne strette l’una all’altra, in segno di amicizia e protezione reciproca.
«Riaffiorano le nostre vite – Aat Breur-Hibma a Ravensbruck, racconti e disegni» è un libro-monumento che ricostruisce la memoria personale e collettiva di una storia che non deve essere dimenticata.

Luciana Grillo - [email protected]
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