«Chi siamo. Una fotografia di oggi» – Di Maurizio Panizza
L’intervento del vice presidente dell’Ordine dei Giornalisti, nostro collaboratore, in occasione del 50esimo della fondazione dell’Ordine regionale
Commento dell'indagine svolta dall’Università di Trento in collaborazione con l’Ordine dei Giornalisti del Trentino Alto Adige/Südtirol. |
Per iniziare e per rispondere con poche parole al titolo proposto per la tavola rotonda, possiamo dire che ci troviamo a un bivio della nostra storia, che la professione sta cambiando e che le condizioni di lavoro dei giornalisti spesso sono molto più precarie oggi che nel passato.
Se nei decenni scorsi si parlava insistentemente di inutilità dell’Ordine dei Giornalisti e di conseguenza della sua soppressione, oggi le prospettive sono state del tutto capovolte.
A fronte di un dilagare sul web di «giornalisti» improvvisati; davanti a notiziari dove molto spesso chi vi lavora non sa nemmeno quali siano i canoni giornalistici di approfondimento e verifica delle fonti; di fronte a notizie del tutto inventate al solo scopo di creare sensazione e scoop in favore del marketing pubblicitario, ecco che l’Ordine dei Giornalisti ha scoperto nuova attualità e nuova vita a patto, però, che sappia declinare il suo intervento nella giusta direzione.
Ma per entrare meglio nella fotografia dell’oggi dobbiamo tornare all’indagine appena vista.
Ogni questionario di questo tipo può avere due facce: da una parte quella dei numeri e delle statistiche, dall’altra quella dei sentimenti e delle emozioni.
Di numeri abbiamo già parlato, io volevo invece tornare proprio alle emozioni appena accennate, anche per offrire uno spunto di riflessione a chi mi seguirà.
Chi mi conosce sa della mia puntigliosa denuncia nei confronti della precarietà e dell’assenza per molti collaboratori del cosiddetto equo compenso, il quale molto spesso non è affatto equo, anzi è un vero e proprio sfruttamento del lavoro.
Anche dalla nostra indagine esce purtroppo la precarietà, a volte con forza, altre volte in maniera più sfumata. Per questo volevo riprendere qualche commento di quei colleghi che l’hanno voluto lasciare in calce al questionario.
Vediamoli.
«Il reddito che se ne ricava è totalmente insufficiente per condurre una vita normale. Per questo devo pesare sui miei familiari.»
«La passione che spinge a fare bene viene sistematicamente sfruttata per pagare poco, considerare pochissimo e rispettare per nulla il lavoro dei collaboratori.»
«I troppi abusivi (io aggiungo anche parecchi giornalisti pensionati) che lavorano costantemente per poco o nulla, provocano un costante abbassamento dei compensi.»
Cosa è possibile aggiungere a questi commenti che certamente lasciano in tutti noi l’amaro in bocca?
Innanzitutto che si intuisce che chi scrive sono dei giovani colleghi, probabilmente in molti casi donne. Sono loro, infatti, i più esposti a riconoscimenti economici da fame nonostante che in molte circostanze proprio da loro dipenda l’uscita giornaliera dei notiziari locali.
Poi posso aggiungere che di equo compenso se ne parla da anni, anzi da decenni, ma che fino ad ora non si è arrivati a niente di concreto.
Più recentemente si affrontò la questione nel 2006 e poi ancora nel 2012, ma di fatto non se ne fece nulla.
Posso comunque dire che il nuovo «tavolo per l’equo compenso» istituito presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri si è riunito per una prima ricognizione il 2 dicembre 2021, ma non credo che poi ci siano stati più altri incontri.
Evidentemente le motivazioni delle parti in causa non sono tali da muovere grandi interessi e concretezza nei confronti di un tema che si ritiene marginale.
Si sa, del resto, che dal punto di vista sindacale quasi sempre si tutelano i già tutelati, o meglio i soli iscritti che godono già di un rapporto di lavoro consolidato e di un regolare contratto di lavoro.
Tornando all’equo compenso è significativa una testimonianza molto puntuale, inviatami tempo fa da un pubblicista:
«Il costo annuale dell’iscrizione ammonta a 120 euro mentre i contributi minimi all’INPGI si aggirano attorno ai 400 € annui.
«Considerando che in media un articolo viene retribuito 4 euro al netto della ritenuta d’acconto, occorrono 130 articoli all’anno solo per mettersi in pari con le tasse.
«Certo, per raggiungere e superare i 130 articoli si potrebbe ricorrere al copia-incolla anziché fare serio giornalismo, inedito e approfondito. Ma a che servirebbe?
«Quale sarebbe il servizio ai lettori? Potremmo mai dire che quello è giornalismo di qualità?»
Già, la qualità del giornalismo, un tema molto attuale oggigiorno e che credo avrebbe bisogno di una qualche tutela.
Siamo nell’epoca dei «marchi di qualità» e allora mi chiedo perché non si possa introdurre qualcosa del genere anche nel mondo dell’informazione che garantisca la qualità di quel giornale cartaceo o online, oppure di quella emittente radio o tv.
In altre parole chi sarebbe in grado di risponde a tutti i requisiti professionali e deontologici (compresi pagamenti adeguati ai propri collaboratori e contratti trasparenti), attraverso un’attestazione chiara ed evidente potrebbe avvalersi di un marchio di qualità che ne certifica il merito di fronte all’opinione pubblica.
Se poi vogliamo salvare la figura del giornalista dall’omologazione al ribasso, è necessario a mio avviso un patto di reciproca collaborazione fra Editori, Ordine dei Giornalisti e Sindacato. Perché finora, in questo campo, ognuno pare accusare l’altro.
Scrive in proposito il collega di prima: «La risposta degli editori è sempre la stessa: Se gli altri pagano poco, perché io dovrei pagare di più? Prendetevela con il vostro Ordine che non fissa le tariffe e non vi tutela.»
«L’Ordine Nazionale a sua volta risponde che la materia contrattuale, dalla tipologia dei contratti alle relazioni aziendali, spetta essenzialmente al sindacato, così come la deontologia e la disciplina spettano all’Ordine.
La risposta del sindacato, da parte sua, sta purtroppo nei fatti.
Non nego che la materia sia molto complessa e che sia necessario costruire un meccanismo da stabilire per legge, tuttavia mi sembrano eccessivi 16 anni da quando si iniziò a parlarne, senza avere ancora qualcosa di concreto da riconoscere ai collaboratori.
Per nostra fortuna siamo in una Regione con due Provincie autonome: possibile che non possiamo trovare qui da noi uno strumento legislativo adeguato al nostro scopo?
«Sarà possibile – si chiede alla fine il giovane collega – intervenire per fissare dei minimi ragionevoli e far riguadagnare ai pubblicisti un minimo di dignità professionale, oppure ci si dovrà rassegnare a cambiare definitivamente mestiere?»
È la domanda che metto anch’io sul tavolo e che lascio alla discussione.
Maurizio Panizza