La Via Serrana da Gibilterra a Siviglia/ 4 – Di Elena Casagrande

A Siviglia termina la Via Serrana, dopo esser passati, tra oliveti e campi infiniti, da Montellano e Utrera, dove ci godiamo panorami e pietanze tipiche dell’Andalusia

Le verdi colline prima di Montellano.
Link alla puntata precedente.
 
 Le cicogne sui tetti mi ricordano un paesino lungo la Via de La Plata  
Una famiglia di jinetes (cavallerizzi), vestita di tutto punto, ci affianca sulla salita per il paesello di Coripe. I cavalli, eleganti e fieri, dettano il passo.
Al termine dell’erta trovo il bar «Ortega», pieno di mamme e nonne che stanno facendo filò al sole. I bambini corrono al parco giochi di fronte. Ci fermiamo a chiacchierare.
Per la cena le signore ci consigliano di andare al locale in piazza. Il bar Pastor è aperto ed è vicino alla Chiesa di San Pedro.
Sul campanile, col tetto in ceramica verde bosco, ci sono due cicogne. Una sta covando, l’altra
sta facendo la guardia e ci osserva dall’alto.
Quando le vedo ripenso sempre al borgo di El Real de la Jara, dove le sentii cantare per la prima volta, lungo la Via de la Plata.


Le cicogne del campanile di Coripe.
 
 Gli oliveti della zona sono controllati a vista dai droni della Guardia Civil  
La colazione, tipica dell’Andalusia rurale è a base di pane, olio d’oliva e zurrapa de higado (una salsa di fegato) - con buona pace delle brioche! - la si fa all’alba, nel caffè che apre per primo, assieme ai mattinieri del posto (perlopiù stradini e autotrasportatori).
Usciti da Coripe il cammino si snoda tra gli oliveti delle colline. Alcuni cartelli affissi nei poderi avvisano che i campi sono sorvegliati dai droni della Guardia Civil (la gendarmeria spagnola).
«Ecco cos’era quel ronzio sopra le nostre teste!» – esclama Teo.
Passati gli oliveti iniziano le colline. Sono di un verde abbagliante grazie al grano che è appena spuntato.
Ogni tanto, in questo mare color smeraldo, fa capolino un’encina (quercia) della Sierra de San Pablo.
 
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La Sierra Sur di Siviglia.
 
 In piena Andalusia incontro un cuoco che ha lavorato in Val di Fassa  
Senza fare nemmeno una pausa pestiamo fino al Castillo de Cope, un antico maniero a pianta di quadrifoglio (o a quattro absidi). Da lì ci separano da Montellano solo 4 chilometri. Lo raggiungiamo per l'ora di pranzo.
Vedo il Deli, un ristorante tappezzato d’edera.
Guarda, è segnalato dalla Michelin» – dico a Teo.
Chiediamo se c’è posto e se possiamo accomodarci. La signora ci fa entrare gentilmente, anche con gli zaini e ci fa scegliere il tavolo.
Poco dopo ci raggiunge lo chef. Spiego che stiamo facendo la Via Serrana e che siamo italiani.
«Di dove?» – ci chiede, parlando la nostra lingua.
«Veniamo da Trento.»
E lui stupito e felice: «Ma davvero? Io ho lavorato per anni a Malga Panna a Moena!».
«El mundo es un pañuelo (il mondo è un fazzoletto – è proprio piccolo)» – Rispondo in spagnolo, ridendo di gusto.
 

Le otri dell’olio d’oliva a Montellano.
 
 Starei tutto il giorno a parlare di gastronomia, ma dobbiamo ripartire  
Iniziamo con la degustazione dell’olio extravergine di Montellano, in due versioni. Proseguiamo poi con foie (paté), riso con pernice (la specialità della casa) e agnello con tagarninas (una verdura selvatica del posto, a metà tra il cardo ed il tarassaco).
Tutto fantastico. Lo chef patron tiene molto ai prodotti del territorio e ne parla con passione.
Non mi alzerei più e starei ore a chiacchierare, ma mancano ancora 12 chilometri e diventerà buio fra poco. Bisogna sbrigarsi.
Da Montellano si fa strada. Per fortuna non mancano scorci molto belli, come quello del Castello di Aguzaderas. Poi ancora campagna.
Nel tardo pomeriggio raggiungiamo El Coronil. Il gestore dell’hotel ci stava aspettando.
«Mancavate solo voi all’appello,» – dice, con un sospiro di sollievo, dal calduccio del suo piccolo ufficio, alla penombra di un paralume.
 

La segnaletica contro la violenza sulle donne a El Coronil.
 
 I paesini andalusi sembrano «addormentati» di primo mattino  
El Coronil non si è ancora svegliato quando usciamo dall’hotel, di primo mattino.
«Aspetta Teo, sembra che sia aperto l’Ayuntamiento (il Comune)» – gli dico.
Senza pensarci mi intrufolo nell’unico ufficio che vedo illuminato. Trovo un elettricista al lavoro che mi dice che è tutto chiuso e che c’è solo lui, per un’emergenza.
Gli chiedo se è possibile mettere il timbro sulla credenziale. Prima nega, poi mi dice di non sapere dove cercare.
Io insisto. Alla fine telefona alla ragazza che di solito è allo sportello e, autorizzato, ci fa il sello (timbro) sul nostro «passaporto».
Fuori dalla casa comunale vediamo un altro divieto di machismo, come quello di Jimera.
«Scatto una foto e andiamo» – mi fa Teo.
«Va bene, – gli rispondo. – Ma facciamo in fretta.»
 

Il castello di Los Morales.
 
 Le ultime tappe di questo cammino regalano paesaggi simili a quelli del Medioriente  
Tira un forte vento fastidioso, anche se brilla il sole. Indosso il berretto e i guanti. Sullo sterrato sabbioso zampettano le pernici (come quelle del risotto di ieri), lasciando le loro tipiche impronte.
Sembra di essere in Medio Oriente, in particolare quando arriviamo al Cortijo (casale) de Los Pardales, con la sua fila solitaria di palme. Dopo 8 chilometri di campi beige e marroni, ci ritroviamo dal nulla nel paesino di Los Morales.
In centro spicca il castello. I vasi dell’arredo urbano traboccano di stelle di Natale. Prendiamo una stradina secondaria, peraltro molto trafficata ed arriviamo presto ad Utrera.
Stasera è Noche Vieja (Capodanno). Gli spagnoli festeggiano con cene di gala e non in piazza (ad eccezioni della capitale e delle grandi città).
Meglio arrivare quanto prima. I locali sono tutti prenotati da mesi e, fra poco, saranno off limits (vietati) ai clienti dell’ultim’ora.
 

Le palme del Cortijo de los Pardales.
 
 Ad Utrera, patria del flamenco e dei tori da combattimento, si festeggia il Capodanno  
Ci sediamo al primo tavolino libero che troviamo e ordiniamo quello che c’è. In cammino si coglie sempre la prima occasione e non si aspetta mai l’alternativa, perché potrebbe non esserci.
Ci portano salmorejo e flamenquines cordobeses (zuppa di pomodoro ed involtini di carne panati alla moda di Cordoba).
Poi andiamo di corsa al nostro hotel. Ha un bellissimo terrazzo pieno di piante grasse e, da lassù, si vede tutta la città di Utrera, patria del flamenco e dei tori da corrida.
Tra le case bianche risalta la Chiesa di Santiago.
Scendiamo a visitarla, ma è chiusa.
«Peccato! Niente saluto a San Giacomo» – esclamo.
Ci rechiamo allora dalle suore di clausura de la Purísima Concepción per timbrare la credenziale.
Aspettiamo fuori, davanti alla ruota. Le sentiamo discutere animatamente.
Dopo un quarto d’ora si apre lo sportello. Ringraziamo e facciamo gli auguri.
«Guarda che roba! – Dice Teo. – Hanno fatto un pasticcio.»
 

La chiesa di Santiago di Utrera.
 
 Tra fichi d’India malati ed una periferia caotica e sporca arriviamo a Siviglia  
Nonostante i fuochi d’artificio abbiamo riposato bene. Il sentiero in uscita dalla città è contornato da chumberas (fichi d’India) che stanno seccando. Ad un signore che viene verso di noi chiedo il motivo di quella moria.
È un professore in pensione e mi risponde volentieri: «Sa signora, non sono autoctoni. Li importò Cristoforo Colombo. Se si ammalano o infettano, la Giunta ha deciso di non curarli».
«Ma come? – Gli dico. – Sono così belli. Mia madre, a Siviglia, mi ha pure comperato le miniature dei fichi d’India per il presepe! Poi sono qui da 500 anni!»
«È così» - ribatte.
Scuoto la testa. A Dos Hermanas lo scenario agreste lascia il posto alla periferia. Vicino alla Via Serrana c’è un campo nomadi con molti rifiuti sparsi.
«Forse è il caso di prendere la C-1 (ferrovia suburbana) per il centro» – dice Teo.
In fondo siamo arrivati. Ci saliamo più avanti, giusto per evitare il traffico dell’entrata in città.
A Plaza d’Espana finisce il nostro cammino. Da Siviglia inizia la Via de la Plata che porta a Santiago de Compostela.
 

La terrazza del nostro hotel ad Utrera.
 
 La Via Serrana 2019/2020 è stata il nostro ultimo cammino covid free  
Stamattina possiamo far colazione senza fretta. Decidiamo di andare vicino alla chiesa di Santa Maria La Blanca (una ex sinagoga).
Al bar ristorante «El 3 de Oro», nei pressi dell’antica Porta della Carne (abbattuta a metà ‘800 e chiamata così perché vicina ad un mattatoio), ci strafoghiamo di pane abbrustolito con prosciutto iberico e spremute d’arancia.
Attorno a noi c’è mezzo mondo. Un tedesco vicino al nostro tavolo comincia a tossire. Non riesce a smettere.
Si alza dalla sedia e si piega su sé stesso mentre, dalle mani, gli cadono fazzolettini di carta appallottolati. Tutti lo guardiamo straniti.
«Deve avere la tubercolosi, – sussurro a Teo. – Ho paura, andiamocene.» – Insisto.
È il 2 gennaio 2020. Col senno di poi dico che non era tisi, ma covid. Nessuno sapeva che, di lì a poco, le nostre vite sarebbero state stravolte.
 
Elena Casagrande - [email protected]
(Fine)

A Plaza de España a Siviglia.