Storie di donne, letteratura di genere/ 425 – Di Luciana Grillo

Ivanna Rosi, «Aida e Umberto» – L’Autrice ripercorre con attenzione amorevole le vicende delle famiglie dei suoi genitori

Titolo: Aida e Umberto
Autrice: Ivanna Ros
 
Editore: Le Lettere, 2021
Collana: Pannarrativa
 
Pagine: 250, Brossura
Prezzo di copertina: € 16
 
Ivanna Rosi, dopo aver pubblicato ricerche e saggi legati alla professione di docente universitaria, ha cominciato a raccontare la sua storia, pubblicando prima «La versione di Candida» – esperienze, vittorie e sconfitte nella vita di coppia, di famiglia e di lavoro – recensita in questa rubrica (vedi), ora «Aida e Umberto», che ripercorre con attenzione amorevole le vicende delle famiglie dei suoi genitori durante gli anni che vanno dal 1920 alla seconda metà del secolo scorso.
 
Di solito, le mie recensioni partono dalle pagine iniziali del testo, questa volta, invece, mi sembra opportuno riportare un passo che si trova a trenta pagine dalla fine: «Questo libro è nato in parte da un bisogno di riparazione nei confronti di un padre e di una madre che ho relegato per molti anni alla periferia dei miei sentimenti, che ho visto come figure sbiadite e mediocri perché annebbiata dal severo giudizio di Vincenzo.
«Ho sentito il bisogno di ricercare il grande tesoro del loro amore. Ho ritrovato la bellezza di mia madre nelle pagine di mio padre e nei miei ricordi d’infanzia.»
 
Poche righe per spiegare rapporti difficili, abbandoni e ritorni, gelosie e prepotenze, delusioni e illusioni… e poi tanto lavoro per conquistare il benessere e per dare ai figli una solidità economica che era sembrata un miraggio.
L’autrice non fa sconti, parla della misoginia del padre Umberto, inquieto e ribelle, «perseguitato da una fatalità» ma anche capace di rassegnazione e accettazione, «diviso in un dualismo irrisolvibile, tra il desiderio di una relazione amorosa piena, serena, stabile e calda, in una intimità familiare e casalinga, e il sospetto e il dubbio misogino che intervengono immancabilmente a distruggere l’illusione».
 
Uno strumento di salvezza in un quadro chiaramente nevrotico è la scrittura, che diventa per lui una sorta di cura, «ogni lettera si trasforma in confessione, e non è sicuro che queste lettere siano poi state spedite».
Naturalmente, le vicende di Umberto, che frequenta Aida, si incrociano con l’affermarsi del fascismo e con lo scoppio della guerra: «In paese si respirava aria di guerra… nelle famiglie la sera, si parlava già di mobilitazione generale, di fughe alla macchia, di provviste per i disertori e la paura afferrava tutti i cuori…», ma non si diventa più buoni, comprensivi, tolleranti: la gravidanza imprevista è per Aida causa di vergogna e di umiliazione, anche quando segue Umberto a Trequanda «a qualunque condizione», prima che lui decida di sposarla, e poi a Radicondoli.
 
I problemi lavorativi di Umberto creano in lui una devastante frustrazione, subisce una condanna per falso in atto pubblico e scrive petizioni e lettere, persino a Pio XII e al Presidente della Repubblica Einaudi, parla di «morte civile», consapevole di essere vittima di un’ingiustizia, proprio lui che si è sempre impegnato nella difesa dei più deboli e che ha collaborato con i comandi partigiani.
I frequenti trasferimenti della famigliola e la condizione economica precaria spingono i genitori ad affidare la figlia ai cognati, perché possa studiare tranquillamente ad Arezzo.
 
Le conseguenze di questo «strappo» saranno significative, la bambina è accudita dalla zia Silvia, più matura di Aida che ha solo ventitré anni e un altro bimbo a cui badare, ma per Lallina il ricordo della mamma sembra sbiadire, dopo la nostalgia dolente dei primi tempi. Immaginiamo il dolore di Aida e la sua impossibilità di reagire, mentre Lallina ricorda che «l’incubo della scomparsa delle persone più care mi ha perseguitato tutta la vita».
Aida e Umberto si ritirano a Siena, dove anche Lallina con il marito Vincenzo e il figlio Fabrizio va a vivere, ma in questo periodo si acuiscono i dissapori e le critiche di Vincenzo, sicuramente condizionato dal ricordo di sua madre, nei confronti del suocero, «il ragioniere».
 
L’autrice compie un’analisi estremamente chiara e obiettiva, ricorda il padre e il marito «chiusi e incapaci di qualunque dialogo… imprigionati l’uno, Umberto, nella sua diffidenza e nel suo pessimismo, e Vincenzo nella sua alterigia rivoluzionaria».
E ricorda che Vincenzo odiò sua madre perché vide «in lei un’altra fatina dai capelli turchini che nella sua lettura ideologica del romanzo di Collodi mutila la vitale anarchia di Pinocchio, riducendolo al bambino per bene e disciplinato del finale».
 
La storia si avvia verso la conclusione: Lallina vede finalmente sua madre e la zia Silvia diventare amiche oltre che cognate, «sedute al tavolo, e ricamavano, aggiustavano, lavoravano a maglia, completavano come se gli anni non fossero passati il mio corredo, cucivano per Fabrizio i piccoli indumenti che a casa dovevo nascondere per non suscitare i sospetti di Vincenzo… Si consultavano e aiutavano. Talvolta bisticciavano, ormai su un piano di assoluta parità».
 
Poi, la morte degli uomini, la malattia delle due donne, la casa di riposo per zia Silvia: Lallina assiste tutti con amorevole senso del dovere, accompagna la mamma e la zia verso l’ultima meta, a tutti pensa di aver dato quanto doveva, soprattutto dopo averne scritto la storia con rigore esemplare.

Luciana Grillo - [email protected]
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