Il dramma della solitudine – Di Nadia Clementi
Ne parliamo con il dott. Fabio Cembrani, direttore dell’unità operativa di medicina legale dell’Azienda provinciale per i servizi sanitari di Trento
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Nel mondo post-globalizzato, dove la comunicazione è sempre più virtuale, la solitudine sta diventando una vera e propria epidemia sociale e, secondo gli esperti, fa altrettanto male quanto qualsiasi altra condizione patologica come l'obesità, il fumo e tante altre malattie.
Sulla base di autorevoli statistiche stiamo diventando, anche in Italia, «leader» per il problema della solitudine, con degli indici peggiorativi rispetto alla media europea.
Ma che cosa sta cambiando rispetto al passato? È forse il rapporto con il lavoro ad essere diventato più invasivo nelle nostre vite e a sottrarre tempo alla cura delle persone sempre più esposte al rischio solitudine, in particolare adolescenti e anziani? Oppure ci sono altre cause?
Gli esperti riconoscono che questa solitudine in aumento non è solo legata al tempo in sottrazione, ma ne è concausa e alibi.
Oggi le persone attive sono sempre più sommerse da proposte, dai progetti, dall’uso eccessivo della rete, dagli strumenti tecnologici e da tante altre attività inutili.
Tutte queste attività, che sembrano prioritarie, sono spesso sconnesse dalla realtà con i veri problemi e fanno solamente chiudere le persone in un mondo di apparente successo.
In Inghilterra a tal proposito è stato istituito nel 2018 il Ministero della Solitudine, un’iniziativa che non ha precedenti.
È un’ammissione, da parte di quel paese, che siamo di fronte alla presenza di un problema serio, potenzialmente responsabile di danni alla persona e alla società.
Infatti, nei paesi nordici la solitudine ha un’incidenza maggiore che nei paesi del Sud Europa per una serie di fattori: legami familiari più deboli, clima e luce sfavorevoli per lunghi periodi dell’anno che non favoriscono la socialità e maggiore attitudine all’introversione.
Ma anche in Italia, secondo i dati Eurostat, iniziano a manifestarsi segnali preoccupanti di un’inversione di tendenza, dalla socialità alla solitudine:
- il 12% di chi vive in Italia non ha persone con le quali parlare dei propri problemi (rispetto alla media europea del 6%);
- Il 13 % di italiani sopra i 16 anni, non ha una persona a cui rivolgersi per chiedere aiuto;
- una persona su 8 si sente sola, una quota doppia rispetto alla media europea.
Inoltre sono state riportate numerosissime evidenze cliniche su riviste scientifiche e divulgative relative ai danni legati alla solitudine.
Da una parte la salute fisica: aumentato rischio di malattie cardiache, artrite, diabete di tipo 2 e dall’altra la salute mentale: morbo di Alzheimer, depressione e problemi del sonno.
Dunque, il problema che riguarda la salute fisica e mentale collettiva si potrebbe risolvere promuovendo una maggiore sensibilità pubblica, investendo su una forma di welfare moderno a favore delle persone più deboli o fragili per ridurre l’emarginazione e per ricostruire il tessuto sociale lacerato al fine di combattere seriamente la povertà poiché più il paese è fragile, più è fragile la democrazia.
Come affrontare questa sfida lo abbiamo chiesto al dott. Fabio Cembrani, medico-legale, esperto in bioetica, autore di diverse pubblicazioni.
Da ottobre 2019 è incaricato della riorganizzazione dell’attività operativa di medicina legale di Trento.
Quali sono le cause della sempre maggiore diffusione della solitudine?
«Gli studi internazionali convergono su tre ordini di fattori.
«Il primo è di natura antropologica ed è sicuramente legato all’espansione della cultura individualista, egoica e narcisista della postmodernità che ha ibernato le relazioni sociali ed il sentire comunitario e rimosso tutti i nostri punti di riferimento affettivi, simbolici, tradizionali, politici e, non da ultimo, anche spirituali.
«Il secondo è da mettere in relazione alla fragilità della attuale struttura familiare dovuta a tutta una serie di modificazioni sociali intervenute bruscamente: tra esse la crisi occupazionale, la flessibilità lavorativa, la mancanza di adeguate misure di protezione sociale, l’instabilità coniugale, l’insofferenza verso varie forme di autorità e di controllo istituzionale e l’aumento dell’importanza attribuita alla realizzazione personale.
«I nuclei monoparentali hanno così superato nel nostro Paese i 2 milioni di unità ed oggi, anche nelle famiglie tradizionali, sono mediamente tre le persone che si occupano della persona anziana non autosufficiente anche se, nel 2041, si prevede che ci sarà solo 1,5 familiare a prendersene cura (CENSIS, 2018). E sono 15 milioni le persone italiane (soprattutto donne) tra i 45 e i 55 anni, nel pieno dell’attività lavorativa, alle prese con figli minori e genitori anziani e bisognosi di cure: una vera e propria sandwich generation di cui ci si preoccupa davvero poco.
«Terza causa della solitudine: l’ampia diffusione dei social anche se i giganti del Web (Facebook, Apple e Google) continuano a rassicurarci sull’idea che i loro prodotti sono utili a creare relazioni fino a qualche anno fa impensabili e nuove comunità di individui. Il che non è vero nonostante la potenza e la pervasività della rete virtuale che ci collega sì al mondo disconnettendo però la nostra capacità di costruire relazioni umane solide e stabili.
«Lo sappiamo quanto i meccanismi sono perversi e quanto i giovani non avvertono il pericolo di chi si cela dietro all’invisibilità della rete. Al suo interno le nostre personalità, i nostri gusti ed i nostri interessi sono sempre profilati da qualcuno per fini e scopi a noi ignoti. Ed attraverso essa le nostre personalità, a nostro piacimento, possono essere dichiarate, alterate e ricostruite in quella scomposizione e ricostruzione dell’identità che diventa quell’uno, nessuno e centomila di pirandelliana memoria (Facebook conta 2 miliardi di utenti attivi di cui la metà lo usa per almeno 20 m’ al giorno: 121 ore all’anno moltiplicate per 1 miliardo di utenti in rete documentano una frazione di tempo impressionante che testimonia la potenza e la pervasività della rete stessa). Tutto viene postato e linkato in rete, anche le nostre foto, ma non ci si rivolge più la parola e non si posa più lo sguardo sull’altro con la nostra rinuncia implicita a costruire relazioni.»
Esiste un rapporto preciso tra solitudine e dolore fisico?
«Non so risponderle. Alcuni studiosi (Cacioppo, 2014) hanno proposto una teoria neurologica della solitudine che, con gli studi di neuroimaging, sembra alterare la reattività di alcune aree cerebrali (l’amigdala, l’ippocampo, la corteccia visiva e lo striato) deprimendo la loro protezione trofica esercitata sul cervello e sull’omeostasi neuronale. La conseguenza di ciò è l’abnorme attivazione dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene che, oltre a frammentare il sonno, incrementa il picco cortisolemico mattutino compromettendo, contestualmente, le capacità di controllo del nostro sistema infiammatorio.
«Altri studiosi hanno, invece, focalizzato le loro indagini sui biomarkers dell’infiammazione sistemica (l’interleuchina 6, il fibrinogeno e la proteina C-reattiva) dimostrando che la solitudine produce un’infiammazione sistemica essendo così in grado di alterare i sistemi di sorveglianza dell’organismo.
«Una disregolazione del sistema immunitario che sembra avere anche un ruolo nell’insorgenza delle demenze e nella loro rapida evoluzione verso la terminalità. Relativamente al versante cardio-vascolare altri studi hanno dimostrato le alterazioni dell’ossitocina con la perdita dei suoi effetti salutari sul sistema nervoso autonomo.
«L’idea generale è dunque quella che la solitudine provoca una disfunzione encefalica che determina risposte insoddisfacenti ed alterate da parte dei sistemi di sorveglianza del nostro organismo (Govoni, 2018) anche se alcuni studi condotti sull’animale di laboratorio hanno evidenziato (Siuda et Al, 2014) il ruolo della solitudine nel cambiare addirittura la metilazione del patrimonio genetico (DNA) modificando addirittura le caratteristiche fenotipiche del ratto.
«Nei macachi queste modificazioni riguarderebbero soprattutto l’espressione genica dei monociti che sono cellule del nostro sistema immunitario implicate nelle difese contro virus e batteri: elevati livelli di norepinefrina stimolerebbero la produzione di monociti immaturi, la scarsa espressione dei loro geni implicati nelle risposte antivirali e l’iperstimolazione di quelli infiammatori generali.
Gli studi sono promettenti ma la realtà è che non conosciamo ancora le basi biologiche della solitudine nonostante l’attenzione degli studiosi si sia focalizzata su alcuni parametri neurochimici cerebrali modificati da questo vissuto negativo anche allo scopo di trovare una qualche nuova molecola che sollecita sicuramente gli interessi dell’industria: per brevettare un nuovo e più potente Prozac per curare, questa volta, non la depressione ma la solitudine che ne può essere la causa ma che non può essere con essa confusa.»
In che modo la solitudine, come lei sostiene, è una malattia che può avere esiti letali?
«Vivek Murthy ha documentato (2017) che la solitudine e l’isolamento sociale sono associati a una riduzione della speranza di vita rappresentando un fattore di rischio simile all’aver fumato 15 sigarette al giorno per 40 anni ed un fattore di rischio addirittura maggiore rispetto all’obesità, incrementando del 26% il rischio di mortalità prematura. Se è evidente che su questi due fattori di rischio (il fumo e l’obesità) si è investito ancora troppo poco in termini preventivi, paradossale è però riconoscere che sulla solitudine poco se non nulla è stato ancora fatto se non discuterne in ambienti però elitari.
«Altri studi, effettuati su più larga scala, hanno dimostrato che la solitudine provoca un maggior utilizzo di farmaci e di accesso ai servizi sanitari, con aggravi dei costi legati all’assistenza pubblica che si potrebbero risparmiare attraverso idonei interventi di sanità pubblica (Banks et al., 2016): un aggravio che negli Stati Uniti è stato recentemente stimato per il sistema sanitario di 1.600 dollari/anno per ogni anziano solo.
«Ancora: un numero significativo di evidenze scientifiche ha confermato che l’integrazione in relazioni di alta qualità e il sentirsi socialmente connessi alle persone nella propria vita sono associati a un ridotto rischio di morbilità e mortalità per tutte le cause (Lunstad et al., 2017). Altri studi dimostrano, ancora, che gli anziani con i più alti livelli di solitudine sono più esposti alla probabilità di morire prematuramente di quelli con i livelli più bassi di solitudine (Cacioppo, 2014) e, ancora, che la solitudine peggiora nettamente la qualità di vita e l’autonomia funzionale degli esseri umani (Perissinotto et al. - 2012).
«Metanalisi più recenti confermano che l’effetto della solitudine, dell’isolamento sociale e del vivere soli è la causa di un aumento della mortalità del 29%. Altre ricerche confermano che la solitudine indebolisce il nostro sistema immunitario rappresentando così un fattore di rischio per lo sviluppo di numerose malattie (come le demenze) e per la loro veloce evoluzione verso gli stadi terminali. Altri studi documentano, infine, che i malati infartuati con una buona rete di affetti parentali e amicali hanno più possibilità di sopravvivere all’insulto lesivo rispetto agli infartuati soli. Ulteriori analisi confermano che la solitudine è un fattore che può contribuire allo sviluppo nell’encefalo delle placche amiloidi che sono state a lungo considerate essere il substrato biologico delle malattie dementigene.
«Tutti gli studi convergono su un’univoca conclusione. La solitudine è la causa, anche nell’uomo (gli effetti sull’animale sono stati ripetutamente studiati e confermati), di molte malattie e della morte precoce della persona umana: un killer silenzioso che produce i suoi deleteri effetti patogeni verso il quale non si concentra ancora l’interesse della prevenzione sociale.»
Come si può curare la solitudine?
«La risposta non è semplice anche se il centro di ogni intervento deve essere la promozione di una sensibilità pubblica non più ageistica ma capace di formare, in una forma di welfare moderno di carattere generativo, una rete di supporto capace di contrastare e correggere questa drammatica epidemia. Lo possiamo fare rinforzando i nostri legami familiari, amicali e spendendoci nella comunità in cui viviamo abbandonando definitivamente quel torpore anestetico che ci ha a lungo immobilizzati: perché la sofferenza ci chiama ad un sussulto di sana umanità, ponendoci al servizio degli altri, specie delle persone più deboli e più fragili.
«Ma non basta perché al nostro personale impegno deve associarsi l’impegno delle istituzioni e delle amministrazioni pubbliche che deve coinvolgere la rete dei servizi, il privato-sociale ed il volontariato come confermano le straordinarie esperienze fatte in alcuni territori come avvenuto nella città di Macerata, divenuta la prima città nemica della solitudine, o come a Treviso dove è attivo un telefono amico al quale le persone sole si possono sempre rivolgere. E occorre, soprattutto, non dimenticare che questo problema rappresenta una vera e propria emergenza non solo sanitaria ma di etica pubblica a fronte del quale ciascuno di noi deve offrire qualcosa di più mettendo in campo un maggior impegno, sul piano umano, personale ed anche professionale.
«Occorre, cioè, agire perché, come ha detto il Presidente della Repubblica rispondendo all’idea davvero bizzarra espressa da Beppe Grillo volta ad eliminare il diritto di voto agli over65enni, si rinnovino quei patti di alleanza inter-generazionale sempre più sbiaditi, perché nessuna comunità può progredire e guardare avanti se si spezza la catena della fiducia, della solidarietà e della speranza di progettare e realizzare assieme un futuro migliore.
«Guardando alle persone più deboli con rispetto e sana umanità anche per prenderle sulle nostre spalle ove occorra farlo come ci insegna la parabola del Buon samaritano: una persona qualunque di una setta scismatica odiata dagli ebrei che, trovato un uomo mezzo morto derubato dai briganti e lasciato nudo sulla strada che porta a Gerico, si ferma come non aveva fatto né il sacerdote né il levita dedicato al tempio, facendosi carico gratuitamente dell’altro senza passività e rassegnazione.»
Come funziona l’assistenza nel nostro territorio nei confronti dei cittadini che richiedono aiuto?
«Interventi sono sicuramente fatti, soprattutto a livello del mondo del volontariato ma ciò che manca è il loro coordinamento e la loro integrazione in una strategia complessiva. Ciò che si fa ancora fatica a capire è che la solitudine è un problema di salute pubblica che può riguardare tutti ed al quale bisogna dare una risposta chiara e precisa ai diversi livelli istituzionali, con la trasversalità necessaria ad affrontare la sua complessità.»
Nadia Clementi - [email protected]
Dott. Fabio Cembrani - [email protected]