Storie di donne, letteratura di genere/ 565 – Di Luciana Grillo

Erika Fatland, «La città degli angeli» – L’autrice ricostruisce una drammatica storia del Caucaso, gettando nuova luce sull’operato di Putin

Titolo: La città degli angeli. Racconto da Beslan
Autrice: Erika Fatland
 
Traduttore: Francesco Peri
Editore: Marsilio, 2024
 
Pagine: 256, Brossura
Prezzo di copertina: € 18.00
 
Venti anni fa a Beslan, nell’Ossezia del Nord, per tre giorni un gruppo di terroristi tenne in ostaggio più di mille persone nella Scuola n.° 1.
Erano bambini, personale scolastico, genitori, radunati per un giorno di festa: 1 settembre 2004, Giornata della conoscenza.
Alle 9.15 comincia la tragedia.
 
Tre anni dopo, Erika va a Beslan, nonostante tutti le consiglino di evitare questo viaggio in un luogo poco sicuro, in «zone inadatte a una giovane donna… devi stare molto attenta… è rischioso andare in giro in un posto così… Beslan non è San Pietroburgo. Mai uscire da sola, evita le strade deserte. L’Occidente, per loro, è pieno di soldi, quindi rapiscono la gente… Non abbassare mai la guardia».
 
Erika non demorde, supera le difficoltà burocratiche e nel 2007 parte per Beslan. Ci tornerà anche nel 20010 e altre volte.
Studia documenti, intervista persone, molte delle quali hanno perduto i figli in quella carneficina, ascolta testimonianze di chi, in una palestra diventata prigione, vede che gli uomini - «dopo aver piazzato le cariche» - vengono portati via, altri sono usati come scudi umani, le borsette e i telefoni sono requisiti.
 
Erika conosce una sociologa, Aneta Dogan, docente universitaria: ha lasciato Beslan, con la sua famiglia si è trasferita a Vladikavkaz, la capitale osseta, dopo tre anni ha ripreso a insegnare ma «è stato difficile riprendere, perché lì era tutto come prima. Per gli altri non era cambiato nulla… A volte sorride, ma non con gli occhi… sono tre anni che non ride. Razionalmente capisce che la vita continua: il mondo gira…Non tornerò mai più quella di prima…nulla potrà mai essere come prima. Come puoi pensare al futuro, come puoi guardare avanti quando hai dentro un dolore così grande?»
 
Continuano le testimonianze, si ricorda l’aria irrespirabile, qualche madre viene autorizzata a uscire, ma non può portare con sé tutti i figli, solo i neonati.
Fatima non voleva lasciare i suoi due figli più grandi e uscire con la neonata, piange, implora, ma non ottiene nulla, e allora affida la piccola a chi sta uscendo e rimane con gli altri.
Ogni giorno di prigionia la situazione peggiora, «i bambini avevano più sete, più fame. Ed erano stremati, nel fisico e nel morale… Non una nuvola in cielo. L’aria era calda, rovente».
 
Il blitz dei russi sorprende tutti, «chi non ricorda le immagini dei bambini insanguinati e mezzi nudi che corrono via dalla palestra?... Izeta, la bibliotecaria, ha perso conoscenza dopo la prima esplosione. Quando riapre gli occhi vede un terrorista chino su di lei… e si rende conto…che nella palestra non c’è quasi più nessuno… in corridoio c’era molta gente…». Giorni di terrore, di sangue, di paura.
 
Tre anni dopo, garofani rossi in quel che resta della scuola, «i parenti in lutto, le guance rigate di lacrime, sfilano lentamente lungo le pareti, dove sono esposte le fotografie di tutte le vittime dell’attentato»: c’è chi grida e chi piange, «l’intera palestra freme di rabbia e dolore», l’intera città è schiacciata da un silenzio assordante. Una donna dice che «sembra di vivere in un villaggio fantasma».
E cinque anni dopo, nonostante si cercasse di vivere, in realtà si sopravviveva in un clima di guerra, tra vivi e morti.
 
Fatland continua le sue interviste, vuole andare ancora più a fondo, deve però scontrarsi con controllori e controlli esasperanti, visti da chiedere e richiedere.
Non si lascia intimidire, va anche a Nazran’, la principale città inguscia, parla con il responsabile di Memorial anche di Beslan, entra nel tessuto umano e sociale dell’Inguscezia, la più povera e la più turbolenta delle repubbliche del Caucaso; apprende che i familiari delle vittime e i sopravvissuti che vivono a Beslan ricevono degli indennizzi, e questo scatena invidie e rancori, come gli inviti che essi ricevono a recarsi in Paesi come la Francia, la Cina, la Bulgaria, l’Italia.
 
«Perché uno va in Italia e un altro solo in Slovacchia? Anche l’aiuto degli psicologi è stato di breve durata e inefficace, le menti dei bambini hanno tempi di lavoro più lunghi delle unità di crisi… Il pediatra è convinto che le ripercussioni psicologiche dell’accaduto continueranno a farli soffrire ancora per molto tempo».
Negli adulti, a sentimenti forti e dolorosi si affianca la consapevolezza che «i soli che hanno guadagnato qualcosa dalla tragedia di Beslan sono gli uomini forti del Cremlino. Già il 10 settembre Putin ha cambiato la legge elettorale: adesso i governatori li nomina direttamente lui».
 
E la constatazione successiva è ancora più dura: «La Russia è il paese più ricco di risorse al mondo, ma siamo poveri… moriamo come mosche… la gente è depressa, apatica… Da noi non c’è libertà, non ci sono voci indipendenti. Radio, giornali, televisioni, è tutto controllato dal governo. La Russia è un paese totalitario!».
Fatland commenta: «In nessun’altra zona della Russia mi sono imbattuta in un antiputinismo così viscerale».
 
E ciononostante, le madri di Beslan, i parenti delle vittime e i sopravvissuti cercano la verità…cosa cambia se ci si arriva?
Le inchieste procedono, si sa che già il 31 agosto era ritenuto imminente un attentato, ma nessuna misura era stata presa.
Chi si spinge troppo in avanti nella ricerca di documentazioni e prove, viene pesantemente minacciato, come Elena e Marina; un anno dopo viene uccisa Anna Politkovskaja, giornalista coraggiosa che aveva lavorato sui crimini in Cecenia ed era in prima linea su Beslan.
 
Fatland interroga chi ricorda, studia documenti, arriva a ricostruzioni e prove schiaccianti, ma «la giustizia russa e la catena di comando della FSB hanno fatto finta di nulla».
Feliks Calikov, scrittore e poeta, ha composto una poesia per ogni vittima, trecentotrentaquattro poesie, raccolte sotto il titolo «Eco del dolore di Beslan», e continua a scrivere, seduto alla sua scrivania, perché non si perda la memoria.
 
Erika Fatland è tornata ancora a Beslan nel 2018, ha rivisitato la Città degli Angeli, il cimitero più curato di tutta la Russia, deserto, ha parlato ancora con le madri del ricorso a Strasburgo, dell’attesa di indennizzi, della voglia di sapere tutta la verità.
Una sentenza dall’Europa è arrivata, le autorità russe sono ritenute colpevoli di non aver preso misure preventive, di aver utilizzato armi pesanti nel blitz del terzo giorno e sono condannate a versare un indennizzo supplementare, ma ormai per le mamme di Beslan nulla può tornare come prima, «il dolore non se ne va mai. Quello rimane».

Luciana Grillo - [email protected]
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