Intervista a Guido Bonsaver, il Predazzano che insegna a Oxford
Non chiamatelo cervello in fuga, non lo è. Ma dubita di trovare in Italia le condizioni che gli ha offerto Oxford. Coordina il gruppo di Italian Studies, recentemente visitato dal presidente Mapolitano
Guido Bonsaver, lasciata la natia
Predazzo, vive e lavora in Gran Bretagna da 24 anni, dove ha fatto
una rapida carriera accademica, tanto che a soli 48 anni è
coordinatore del dipartimento di italianistica di Oxford,
una delle università più prestigiose al mondo.
Ha contribuito a fondare, e ne è coordinatore, il gruppo di Italian
Studies at Oxford che recentemente ha ricevuto anche la visita del
presidente della Repubblica Giorgio Napolitano.
Insegna ogni anno a decine di ragazzi inglesi la cultura e la
tradizione italiana attraverso lo studio del cinema e della
letteratura.
Difficilmente lo si vedrebbe a insegnare in una facoltà italiana.
Ma nonostante tutto ciò, ribadisce che il problema dell'Italia non
sono i ricercatori e gli accademici che emigrano.
Il suo curriculum fa pensare immediatamente a un
cervello fuggito dall'Italia, come tanti
altri.
Non ho mai pensato alla mia carriera come a
una fuga. È normale che scienziati, tecnici, professori o
ricercatori viaggino e vadano a lavorare in altri Paesi. L'Italia
sta perdendo cervelli come li stanno perdendo altre nazioni.
Il vero problema è che l'Italia non ha la capacità di assorbirne di
nuovi da altri Stati. Un esempio: al dipartimento di italianistica
di Oxford siamo 5 italiani su 7 docenti. Non credo che in Italia
esista un dipartimento di anglistica con 5 professori stranieri.
Purtroppo il sistema universitario italiano è chiuso e provinciale
e questo lo rende miope, concentrato sul mantenimento del proprio
potere.
«Credo che sia un grande privilegio per me lavorare in una
struttura che mi permette di fare bene il mio lavoro. E non parlo
di salario, ma di un sistema più aperto, meno rigido e soprattutto
più meritocratico, anche se pure in Italia ci sono grandi docenti e
grandi dipartimenti. Ma in Gran Bretagna non esiste il concetto
della raccomandazione: basti pensare che il 40 per cento dei
docenti di Oxford è straniero.
E questo perché si segue un unico criterio nella selezione:
prendere il migliore.
Ha parlato dei docenti. È questa l'unica differenza tra
università italiana e britannica?
Un'altra grande
differenza è sicuramente legata al rapporto tra professori e
studenti. A Oxford, a italianistica ogni anno prendiamo 35 o 40
studenti. Ad ogni docente ne vengono affidati 5 o 6. Ciò ci
permette di conoscerli a fondo, di capire i loro pregi e le loro
difficoltà.
Ogni due settimane devono preparare un tema scritto che poi
discutono con il professore. Ciò permette loro di imparare subito a
fare ricerca e di essere critici, mentre il sistema italiano ha
un'impostazione più nozionistica.
È per questo che gli studenti di Oxford e Cambridge, usciti
dall'università, riescono a lavorare negli ambiti più diversi: il
valore della loro laurea non è legato soltanto alle nozioni che
hanno imparato, ma soprattutto alla capacità di essere autonomi,
critici e originali.
Il sistema «perfetto», quindi?
Assolutamente no. Il rischio in Gran Bretagna è quello
dell'elitarismo nella scuola dell'obbligo. La struttura scolastica
è fortemente divisa tra pubblico e privato e le scuole statali sono
sottofinanziate. Così chi arriva alla selezione per l'università
provenendo dagli istituti pubblici è meno preparato. Per i geni,
una scuola vale l'altra, ma nella normalità il tipo di scuola fa la
differenza.
Per me è stato molto difficile scegliere in quale scuola iscrivere
i miei due figli, e questo già quando avevano quattro anni. Perché
si tratta di una decisione che condiziona tutta la famiglia: a
seconda di dove li iscrivi, tutto il nucleo entrerà a far parte
della medio-alta borghesia o di tutto quello che ci sta sotto.
Per chi, come noi italiani, viene da paesi in cui la scuola
pubblica è di buon livello, si tratta di una situazione un poco
surreale. Alla fine, per principio, ho iscritto i miei figli in una
scuola statale, ma a casa cerchiamo di compensare le mancanze del
sistema rimboccandoci le mani.
Oltre al lavoro in università, lei si occupa
dell'Italia anche collaborando a riviste e alla BBC. Qual è
l'immagine dell'Italia all'estero in questo
momento?
In questi anni ho vissuto il passaggio
tra due luoghi comuni. Negli anni '80 si pensava ancora
all'italiano come all'emigrato di bassa statura e di poca cultura.
Negli ultimi vent'anni, invece, è prevalsa l'immagine dell'italiano
come di chi sa godersi la vita.
L'Italia è vista come una nazione dove si vive bene, con ottima
cucina, moda di qualità ma non eccentrica come quella francese.
Insomma, come un Paese raffinato dove di mangia e ci si veste bene
e con dei luoghi bellissimi dal punto di vista storico e
paesaggistico.
È vista un po' come un modello edonistico, dove però basta scavare
un po' ed emergono i difetti.
È diffuso, infatti, il cliché dell'Italia corrotta. Per non parlare
della situazione politica: semplicemente facciamo ridere. Penso che
negli ambienti diplomatici l'Italia non abbia mai raggiunto un
livello così basso.
Siamo diventati lo zimbello di tutta Europa. Anche se con le dovute
eccezioni, certo, e il presidente Napolitano è una di queste.
E quando torna in Trentino si riconosce in questi
luoghi comuni?
Mah, a me sembra che la cultura
trentina sia italiana solo fino a un certo punto. I valori etici
sono forse più vicini a quelli dell'Europa protestante che a quelli
dell'Italia cattolica. E questo ci permette di renderci conto dei
limiti di una società basata sull'edonismo.
Ad esempio, quando sono in Italia faccio fatica a guardare la
televisione. Il culto della bellezza ha portato perversamente a un
appiattimento della figura della donna che visto dall'estero è
davvero imbarazzante. Ogni volta mi chiedo come si faccia ad
accettare una visione così biecamente maschilista.
Lei è tra i fondatori e ora coordinatore di «Italian
Studies at Oxford», un'associazione che si occupa di diffondere la
cultura italiana.
Qualche anno fa ci siamo accorti
che ad Oxford ci sono una settantina di docenti che studiano
l'Italia in diversi ambiti e discipline. Abbiamo quindi creato
questo gruppo per promuovere la collaborazione tra diversi
programmi di ricerca e per sfruttare il prestigio di Oxford per
parlare dell'Italia.
In questi anni abbiamo ospitato numerose personalità: da D'Alema a
Prodi, da Beppe Grillo a Severgnini, da Roberto Saviano a, proprio
recentemente, Giorgio Napolitano, che ha ricevuto la laurea ad
honorem.
Lei insegna agli studenti inglesi come il cinema e la
letteratura siano riusciti a rappresentare la società italiana.
Cosa pensa del cinema d'oggi? Riesce ancora a essere uno specchio
della realtà?
Ormai è un vizio diffuso quello di
parlare di crisi del cinema italiano. Ma la mia è una visione
ottimistica.
Il bello del cinema italiano credo sia la sua imprevedibilità: a
volte registi da cui ti aspetteresti il capolavoro ti deludono e
altri che sottovaluti regalano opere di grande pregio.
Può farci qualche nome?
Paolo
Sorrentino penso sia il più dotato della sua generazione sia per la
tecnica cinematografica sia per originalità. Poi c'è Matteo
Garrone, un altro bravo regista, e tra gli esordienti trovo «Pranzo
di Ferragosto» di Gianni Di Gregorio bellissimo, così il suo
«Gianni e le donne», uscito pochi mesi fa, caratterizzato da una
comicità trattenuta e dignitosa che richiama al sentimento del
contrario di Pirandello.
Vi sono poi registi di lungo corso, come Nanni Moretti o Marco
Tullio Giordana, dai quali ci si può sempre aspettare un
capolavoro.
Quindi, direi che in questo momento non c'è da preoccuparsi: ci
sono buoni registi e tanti bravi attori.
Per concludere, si vedrebbe ad insegnare in
Italia?
Dubito di trovarvi le condizioni che ho ad
Oxford. Inoltre, penso che vedere l'Italia da una certa distanza mi
aiuti ad essere più obiettivo nelle mie ricerche.
La lontananza libera da certi meccanismi mentali permettendo di
vedere le cose in prospettiva, con le giuste proporzioni.
Monica Gabrielli