Una vela trentina nel mar dei Caraibi – Diario di uno skipper/ 1

Dopo Antartide e Afghanistan, una nuova frontiera per i nostri lettori Erio Volpi, dal suo sloop di 13 metri, ci invia le sue corrispondenze

Dopo aver dato voce alla affascinante missione scientifica dei «Trentini in Antartide» (che è stata seguita da 10.000 lettori) e dopo aver pubblicato una trentina di accalorati servizi sulla missione di pace dei «Trentini in Afghanistan» (che è stata seguita da oltre 50.000 lettori, non solo trentini), abbiamo deciso di dare spazio a qualcosa di più leggero forse, ma certamente molto impegnativo e di grande interesse per il pubblico, che intitoliamo «Trentini ai Caraibi».

Si parla dell'avventura di un nostro amico che ha fatto quello che molti sognano. Ha preso la barca a vela e è salpato per Gibilterra e, da lì, ha percorso la rotta di Cristoforo Colombo.
Spinto dagli alisei, in due settimane è arrivato ai Caraibi.
La nostra storia partirà da Gibilterra, perché è da lì che il nostro amico ha cominciato ad affrontare l'ignoto. Certamente è partito assolutamente preparato scientificamente e tecnicamente attrezzato, ma attraversare l'Atlantico con una barca a vela da 13 metri non è mai un'avventura da prendere con leggerezza.



I Caraibi sono formati dalle Grandi e dalle Piccole Antille, due archi di isole che proteggono l'America Centrale dall'oceano Atlantico, formando il mar dei Caraibi.
Punto d'incontro delle due dorsali è l'isola di Ispaniola, politicamente divisa nella repubblica Dominicana a est e la repubblica di Haiti a ovest. Quest'ultima si allarga in due penisole che puntano a Cuba (Ovest-NordOvest) e alla Giamaica (Ovest).
A Est di Ispaniola si trova Porto Rico, ultima delle Grandi Antille. Da lì in poi una miriade di piccole isole prosegue formando un arco che si dirige verso est-sudest, sudest, sud, sud-sudovest.
Le grandi isole sono politicamente importanti e turisticamente più che frequentate.
Le piccole isole sono quelle che tutti sognano di raggiungere con una propria imbarcazione e trascorrere lì il resto della loro vita.
Qui finisce la premessa della nostra redazione. D'ora in poi, la tastiera passa a Erio Volpi.

Ho lasciato le piccole Antille (l'arco di isole che dalla British Virgin Island vanno fino a Grenada delimitando a est il Mar dei Caraibi), dove ho trascorso la fine del 2007 e il 2008.
Sono diverse decine di isole e isolette dell'ex Commonwealth britannico, ora indipendenti. Solo la Francia si è tenuta stretta le sue (poche) ex colonie, oggi «territori d'oltremare», Martinica e Guadalupa.

Le piccole Antille sono i Caraibi tradizionali, quelli proposti dalle Agenzie di viaggio con immagini da cartolina di spiagge bianchissime, palme, acque cristalline.
È proprio così. Queste isole vulcaniche, bagnate quasi ogni giorno da brevi piogge torrenziali, sono verdi e rigogliosissime, immerse in una perenne estate con acque, pesci e barriere coralline spettacolari.
Ma il flusso turistico imponente, che ha lasciato quasi intatto il corpo, le ha completamente distrutte nell'anima. Il grande flusso di denaro si riversa male e su pochi.
La maggior parte dei locali vive miseramente aggrappandosi alle briciole del turismo e cercando nella marijuana il paradiso che non riescono a raggiungere.
Non cercate qui nulla di Caraibico, di autentico, di originale. Né cucina, né artigianato, né persone. Il tutto è fatto su misura per il turista, perché abbia servizi a cinque stelle in cambio di denaro.
C'è, ben si intende, qualche rara eccezione da scovare zaino in spalla o vele al vento in qualche posticino fuori dalle rotte consuete ma, giust'appunto, eccezioni.



Certo la barca a vela, sogno nel cassetto di molti, è indubbiamente il mezzo migliore per viaggiare nel Mar dei Caraibi. L'immaginario collettivo vede la barca con le vele bianche spiegate spinta da una brezza verso un isoletta di palme su un mare azzurro e liscio come l'olio.
La realtà non è proprio così. Nel mar dei Caraibi soffia l'aliseo, vento da est-nordest per quasi tutto l'anno.
È il vento, ben conosciuto anche da Cristoforo Colombo (che non a caso scelse rotta e stagione perfette per la traversata dell'oceano) che spinge qui tutte le barche dall'Europa. Ma l'aliseo non è una brezza, è un vento che spesso rinforza fin quasi a burrasca e sempre porta con sé la lunga e maestosa onda atlantica.

La navigazione non può essere affrontata da inesperti. Risulta spesso impegnativa e solo il ridosso offerto da un'isola vicina può trarre d'impaccio chi non è pratico di navigazioni nell'oceano.
Di certo non aiutano i cosiddetti «groppi» violenti acquazzoni (di breve durata per fortuna) che portano rinforzi di vento e visibilità quasi a zero.
Ma una volta abituati a questo, si apprezza l'impareggiabile emozione di spostarsi avendo come guida la propria voglia di avventura e la carta nautica.



Chi naviga nel mar dei Caraibi deve tener presente un altro, diciamo, inconveniente: la stagione degli uragani.
Ufficialmente dal 1° giugno al 30 novembre, ma in realtà con forte concentrazione nei mesi di agosto e settembre, devastanti uragani spazzano le isole dei Caraibi, distruggendo tutto quello che trovano sul loro percorso.
Ogni anno sono attesi, per chi ama le statistiche, circa nove uragani, compresi fra una latitudine di 11° e oltre i 20° nord. Per capirci, dalla parte meridionale del nord America fin quasi a Grenada, ultima isola caraibica.
Sono prevedibili di massima, perché si formano nel golfo di Guinea e si caricano di energia lungo l strada che percorrono anche loro sospinti dagli alisei. Le cartine degli uragani in arrivo (con tanto di nome di battesimo) sono disponibili presso tutti i supermercati e vi si leggono perfino le loro traiettorie probabili.
Va precisato tuttavia che le forze della natura sono imperscrutabili e potrebbero scrivere le tavole dei numeri a caso.



C'è comunque una prevalenza di traiettorie di uragani che vanno verso il nord (Florida, Repubblica Dominicana, Haiti e Cuba) e vi sono rare traiettorie verso l'estremo sud (Grenada e Grenadine).
A Grenada non passavano uragani da più di trent'anni e centinaia di barche venivano lasciate per l'estate dagli skipper, che ignoravano la legge delle probabilità, nei porti dell'isola.
Ci pensò l'uragano Ivan nel 2004 a ricordare che alla natura non si comanda. Prese le barche dai porti di St. George, la capitale, le sollevò e come un mazzo di Shangai le sparpagliò in giro. Da quel giorno l'assicurazione della barca contro gli uragani è soggetta a regole ferree.

Ogni isola dei Caraibi a media latitudine attende un uragano circa ogni dieci anni.
Però l'uragano, i cui fortissimi venti hanno un'estensione spaziale limitata, può passare per zone non poco abitate, con danni limitati, oppure può arrivare dritto sulla città (caso di St. George) e distruggerla.
Che fa il velista durante la stagione degli uragani? Le soluzioni sono due: o si sposta al di sotto della latitudini a rischio e quindi va nel Sudamerica caraibico, o tiene sempre l'occhio sulle previsioni di formazioni di uragani.
Questi, ad onta della velocità dei loro venti, non sono velocissimi negli spostamenti e le loro traiettorie vengono per lo più azzeccate dai meteorologi. Quindi la barca a vela riesce a scappare dall'uragano e andare in zone sicure.



Per questo motivo Trinidad è diventato il più grande porto estivo del mar dei caraibi.
Situata a 10° di latitudine (quindi al di sotto della cintura teorica degli uragani), appartiene alla piattaforma continentale sud americana. Salvo qualche raro spot nei parchi naturali e lungo la costa, è interessante ma non bella.
Nel sottosuolo è stato trovato il petrolio (sarà lo stesso del Venezuela da cui dista poche miglia?) e si vive meglio che nelle consorelle caraibiche.
Si è industrializzata senza troppi riguardi per gli impatti ambientali e senza gli stessi riguardi ha infrastrutturato strade, porti e aeroporti.
Di popolazione indiana e nera (discendente degli schiavi che lavoravano nelle piantagioni di cotone), di caraibico ha solo il gran carnevale, secondo (a quanto dicono) solo a quello di Rio.
Per il resto la popolazione ha abitudini decisamente britanniche, conservate nei quasi 40 anni di indipendenza: tutto chiuso alle 5 del pomeriggio, sabato e domenica neanche parlarne.
Nell'isola di Trinidad, a Chaguaramas bay (ex base militare americana della seconda guerra mondiale) si è sviluppata una incredibile e ben organizzata capacità di rimessaggio di barche.
È una vera e propria cittadella con qualche migliaio di barche, prevalentemente tirate in secco, con tutti i servizi possibili e immaginabili per la nautica.
È il punto di ritrovo della maggior parte dei naviganti dei Caraibi dell'est, di quelli che non si avventurano verso le più inesplorate rotte del sud e del centro america.

Erio Volpi

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