Riflessioni sul dolore – Di Daniela Larentis
È il titolo della trascrizione di una lectio magistralis di Umberto Eco in cui il celebre semiologo affronta il tema della sofferenza
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Umberto Eco non ha certo bisogno di presentazioni, è stato Professore Ordinario di Semiotica all’Università di Bologna, laureato in filosofia ha insegnato come «visiting professor» presso le più prestigiose università del mondo.
Ha collezionato un numero spropositato di lauree ad honorem, è stato membro di diverse accademie culturali, fra cui l’Accademia dei Lincei e l’Accademia delle Scienze di Bologna.
Le sue pubblicazioni in campo letterario sono moltissime, ha pubblicato oltre 50 saggi tradotti in svariate lingue.
In un’occasione pubblica, la Cerimonia di consegna dei diplomi ASMEPA – MAST, svoltasi a Bologna un paio di anni fa, tenne una lectio magistralis sul dolore, da cui è nato il libro della collana «Incontri» edito da Asmepa, dal titolo «Umberto Eco – Riflessioni sul dolore».
Umberto Eco ritiene, come lui stesso afferma, «che possa essere incoraggiata un’educazione culturale al dolore».
«La conoscenza, vorrei dire la cultura, – leggiamo a pag. 47 – alza la soglia della sofferenza. […] Così come il filosofo impara a essere per la morte, tutti noi dovremmo imparare a essere per il dolore.»
La conoscenza come cura pare essere la ricetta proposta; Eco nel suo discorso, parlando del significato del dolore, parte dagli antichi filosofi Aristotele, Democrito, accenna agli stoici ricordando poi la concezione cristiana della sofferenza, il dolore salvifico strumento di redenzione.
Giunge così al concetto di sofferenza per i romantici, parla di Schopenhauer, di Nietsche, di Dostoevskij, di Proust.
Interessante ciò che leggiamo a pag. 38, dopo aver citato un passaggio ne Il tempo ritrovato di Proust: «[…] Ma non sempre la conoscenza attraverso il dolore è stata ragione di accrescimento spirituale, se non nel senso che, attraverso l’esperienza del dolore, l’uomo apprende che la vita stessa è dolore.
«Se si salva, si salva nella celebrazione poetica di questa ineliminabile tonalità tragica dell’esistenza.»
Basti ricordare Leopardi e, per esempio, «Il Canto notturno di un pastore errante dell’Asia: «Nasce l’uomo a fatica|ed è rischio di morte il nascimento|prova pena e tormento|per prima cosa […]».
Nel suo excursus arriva al Montale e al suo «male di vivere», fa cenno a Cesare Pavese e a tanti altri per affrontare infine il dolore della società di oggi, sottolineando la volontà dell’uomo contemporaneo di eliminarlo il più possibile. Introduce così il pensiero di educazione alla sofferenza, condividendo un ricordo personale.
Accenna alla Schadenfreude [gioia malvagia – NdR], la rappresentazione quasi compiaciuta della sofferenza, il godere delle disgrazie altrui, già presente nell’età barocca, tipico di una certa televisione di oggi.
Leggiamo a pag. 42 un pensiero che invita davvero a una profonda riflessione: «[…] Schiller pare definire il gusto del romanzo gotico, popolato di castelli e monasteri in decadenza, sotterranei tenebrosi, fantasmi, corpi decomposti, sanguinosi delitti, apparizioni diaboliche, ma potrebbe anche essere riletto come teorico della Schadenfruede contemporanea.
«E non parlo tanto dei film alla Quentin Tarantino, nei quali trionfano torture senza nome e cervelli che schizzano sulla parete, ma dei più miti telegiornali dove, se a una donna viene ucciso il figlio, telecronisti solerti suonano al citofono di casa per domandare alla madre disperata: Signora, che cosa ha provato a sapere che suo figlio è stato dissolto nell’acido?. In questi casi il piacere per il dolore altrui viene istituzionalizzato e celebrato nelle trasmissioni di prima serata, a soddisfazione della famiglia riunita intorno al desco».
Conclude esortando «se non a conoscere attraverso il dolore, almeno a conoscere il dolore e accettarlo nella funzione biologica».
Daniela Larentis – [email protected]