Silenzio. Il recupero dello sguardo – G. Maiolo, psicoanalista
Ricordate quando bastava l’occhiata silenziosa di un genitore per essere approvati o disapprovati? Quello è il silenzio che serve, ahimè perduto
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«Chi tace spaventa» diceva lapidaria Alda Merini, una voce che ha rotto il silenzio sulla sofferenza mentale, a lungo taciuta o meglio inascoltata.
Intendeva il silenzio come parola potente, capace di sconvolgere e imporre emozioni che la logorrea collettiva soffoca.
Stiamo attraversando un tempo assordante, stracolmo di parole incatenate le une alle altre che non lasciano pause al pensiero e men che meno spazio all’ascolto.
Ci siamo abituati a credere che il silenzio sia assenso oppure assenza che misura la distanza affettiva.
Ma non è solo così, il silenzio è trama e ordito che può dare consistenza alla comunicazione, mostrare lontananza o solo la sospensione momentanea dell’agire.
Di certo è indicatore preciso di vuoto nella relazione oppure dimensione del raccoglimento, intimità, imbarazzo e disagio, inazione e passività. Ha mille facce che spesso non conosciamo e di molte ci sfuggono i significati da quando il linguaggio verbale è prevalso su quello non-verbale.
La ricerca in materia di comunicazione umana però ci dice che il silenzio urla più di mille parole e trasmette ciò che col verbale non riusciamo a dire.
Maria Montessori che sostiene l’importanza a scuola di educare al silenzio, racconta la felicità dei bambini che giocando al silenzio scoprirono il rumore della pioggia, mai raccolto.
Per questo avvicina il silenzio al gesto educativo in quanto fa emergere ciò che esiste dentro e nascosto e fa crescere nel bambino la capacità di ascolto del mondo e dell’altro che sta accanto.
Insegnare il silenzio a scuola, diceva, non stare in silenzio o, peggio, darlo come punizione ai bambini quando disturbano, vuol dire promuoverlo come valore.
È quello di arricchire una società sorda e travolta dal caos delle parole, quello che permette di cogliere le emozioni che ci attraversano e spalanca la porta alla comunicazione facendoci tornare alla lentezza e alla precisione dello sguardo che sono l’altro codice inascoltato e dimenticato del condividere.
Sorprenderà sempre il silenzio perché, pensava Gesualdo Bufalino, magico scrittore dell’anima, «la parola è una chiave ma il silenzio un grimaldello» (G. Bufalino, Bluff di parole, Bompiani).
Svela quello che non appartiene alla coscienza, sprigiona energie, scardina risorse.
È il silenzio che scopri proprio a scuola, dove per ottenere l’ascolto degli allievi non serve urlare «Fate silenzio!».
Funziona di più il tacere, sospendere per un momento la parola e attendere che prenda spazio il vuoto verbale ed emerga l’attenzione che ridà in sintonia all’ascolto.
Ma il silenzio non si impara da soli, va tirato fuori da dentro, fatto emergere, provato e educato. È recupero di un codice che supera ogni altro strumento per quantità di cose che comunica e arriva dove le parole non lasciano traccia.
È gesto e movimento del corpo, fatto di sguardi che si sono persi.
Perché, lo ricordiamo, un tempo bastava l’occhiata silenziosa di un genitore per essere approvati o disapprovati e non servivano le parole per sapere cosa dovevi fare.
Quello è il silenzio che serve, ahimè perduto.
Giuseppe Maiolo - Psicoanalista
Università di Trento - Docente di psicologia delle età della vita
www.iovivobene.it