«Nato senza camicia» – Una triste storia vera
Il racconto della gioventù tutt’altro che spensierata scritto da M. V. e raccolto dal nostro giornalista Maurizio Panizza – Prima parte
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Le origini
Giugno del 1968, anno importante nel mondo, ma altrettanto importante nel mio piccolo universo. Io all'epoca avevo 10 anni ed ero il secondo di quattro fratelli o, per essere sinceri, fratellastri, infatti si era tutti figli della stessa madre, ma il padre di ognuno di noi era diverso e sconosciuto.
Il primo ancor oggi è Dario, 5 anni più vecchio di me, poi per l'appunto io, il terzo è Franco di 2 anni minore ed infine Mauro, nato settimino con forma di ittero grave e con lesioni celebrali, scomparso a circa 22 anni d'età dopo aver vissuto tutta la sua breve esistenza in istituti destinati a persone sfortunate come lui.
Posso quindi senza dubbio affermare di essere nato senza la camicia e pure senza la canottiera, se vogliamo utilizzare una battuta per sdrammatizzare ciò che in realtà era veramente drammatico.
Le origini sociali di noi fratelli si possono definire di sottoproletariato, per non parlare di povertà assoluta.
Nostra madre, donna priva di cultura e senza requisiti scolastici, all'epoca viveva subaffittuaria a Trento dove svolgeva l'attività di lavapiatti in un ristorante della zona, pertanto era a malapena in grado di provvedere al proprio mantenimento, figurarsi quindi se fosse in grado di sostenere la crescita dei propri figli.
Di conseguenza, ragion logica volle che tutti noi fratelli si finisse in istituti caritatevoli, i famosi collegi di gestione religiosa, luogo di naturale approdo per i più sfortunati.
Tornando al mitico ’68, anno di grandi sconvolgimenti culturali, cambiamenti che personalmente non fui in grado di percepire vista la mia giovane età e la limitata visione del mondo, ma nel mio ristretto universo vi fu un cambiamento che definire devastante è del tutto diminutivo.
In quel periodo vivevo appunto nel collegio «La Croce Rossa» sito in quel di Levico Terme, gradevole località turistica del Trentino est, quasi confinante con il Veneto nella zona della Valsugana.
Nello stesso collegio si trovava anche mio fratello Franco, il quale era due classi scolastiche dietro alla mia, mentre il maggiore, Dario, aveva da tempo intrapreso strade per altri luoghi simili, ma destinati a ragazzi aventi un maggior numero di anni.
Ma qui stava appunto il problema. Infatti il nostro collegio ospitava solo i bimbi che arrivavano fino alla quinta elementare, da me appena conclusa.
Si annunciava cosi un cambiamento ancor più doloroso di quanto già non lo era stata la situazione fin lì vissuta.
Un cambiamento per un povero bimbo di nemmeno otto anni che non aveva nessun sentore di dove fosse il suo futuro, ma con una sola certezza: il distacco imminente dal fratello maggiore e la convinzione di rimanere ancorato in quel luogo per almeno altri due anni.
Da parte mia, lo sgomento che provai in quei giorni e l'incertezza di dove sarei andato erano proporzionali alla paura di non rivedere più Franco, dopo aver perso ogni contatto con Dario da ben sette anni.
Se perdevo anche lui sarei rimasto completamente solo, così come sarebbe stato lo stesso anche per il mio fratellino.
E ripensai alle molte cose accadute in quei sette anni vissuti all'interno di quei muri, agli spazi interni che erano molti ed ampi, sebbene sempre chiusi da recinzioni e cancelli.
I primi anni in istituto
Del mio inserimento vero e proprio, a tre anni d’età, ho dei ricordi molto labili, come dei conseguenti due anni di asilo, ad eccezione di alcuni flash dove ricordo cerotti sulla bocca e mano sinistra legata dietro la schiena per costringermi ad usare la destra, perché la zanca (la sinistra) a quei tempi era considerata «la mano del diavolo» e quindi bisognava scrivere, disegnare, e mangiare assolutamente con la mano destra.
Degli anni successivi ricordo ad esempio la divisa che ci venne fornita.
Consisteva in pantaloncini corti sopra al ginocchio per il periodo estivo, abbinato ad una giacchettina a maniche lunghe provvista di quattro bottoni di stoffa e di colore grigio scuro, come grigio era il colore dei pantaloncini.
Per l'inverno, invece, i calzoncini erano leggermente più lunghi fin sotto al ginocchio e di panno, come di panno era la giacchetta invariabilmente di colore grigio.
Per quanto riguarda le scarpe, quelle erano un unico paio da usare tutto l'anno, di colore nero con la suola di cuoio liscia, la quale in inverno ci permetteva di fare delle scivolate sulla neve opportunamente battuta, lunghe anche una ventina di metri.
E poi ricordo soprattutto loro, le suore. Poche erano veramente dolci e comprensive, delle mamme mancate.
Molte, invece, quelle astiose, urlanti, cattive e manesche. Queste ultime davano il loro meglio - si fa per dire - proprio con le mani: forti, dure e precise nel colpire; sadiche, quasi scientifiche, nel trovare i punti d'impatto per raggiungere i loro obiettivi.
La mia suora si chiamava Pier Maria ed era una persona dallo sguardo truce, di poche ma ferme parole, non eccessivamente manesca, ma quando usava le mani seppur con parsimonia erano dolori.
La suora che gestiva la classe di Franco era invece un angelo caduto in terra: piccola e minuta, ma di un animo estremamente gentile, molto buona e comprensiva coi bimbi, una vera Suora (con la esse maiuscola) per vocazione, non certo l'ennesima figlia regalata al clero da famiglie povere - come accadeva molto spesso in quegli anni - cosi da dare un avvenire alla figlia e al contempo togliere alla famiglia numerosa una bocca da sfamare.
Infine c'era lei la Madre superiora, incubo e spauracchio di ogni bimbo, temuta dal personale civile per lo più giovani ragazze del luogo, temuta e rispettata come un generale anche dalle suore sue sottoposte.
Il collegio era simile in tutto agli altri collegi: al piano inferiore vi erano le aule scolastiche tutte accessibili da un lungo corridoio, il quale diramava in due direzioni, una portava alle docce e a un salone dove si passava il tempo libero, l'altra portava alla grande sala da pranzo.
Sopra, al primo e al secondo piano, c'erano le camerate dei bambini, le camerette delle suore e del personale fisso che vi soggiornava, sebbene esso fosse una esigua parte perché quasi tutte le ragazze impiegate nei lavori di cucina e pulizia, la sera tornavano a casa dalle loro famiglie.
Faceva angolo, leggermente staccata dal resto dell’edificio, la casa-madre dove vi erano situati uffici e sala ricezione.
Il tutto dava su un cortile interno che terminava nella stradina che scendeva al cancello d'ingresso.
Il suddetto collegio si trovava nella parte alta di Levico Terme, sopra il parco delle omonime terme balneari e curative.
Adiacente alla casa-madre si trovava un campetto da calcio leggermente in contropendenza, il quale impediva al pallone uno scorrimento lineare, anzi nel giocare ci costringeva a tirare il pallone in leggera salita in modo che dopo la corsa lo stesso ridiscendendo ritornava sui nostri piedi, cosa, questa, che mi fu utile in seguito perché mi costrinse a imparare il controllo della palla sia con l'interno che con l'esterno del piede.
Al mare per la prima volta
Nei primi tre anni di scuola non successe nulla di particolarmente importante, tranne le poche e sporadiche visite di nostra madre.
Nell'estate, alla conclusione della terza elementare, successe un evento per noi decisamente interessante: venimmo mandati in colonia estiva al mare, esattamente a Jesolo, un nome e un posto per noi del tutto sconosciuto in provincia di Venezia.
Per noi bimbi, quello fu un periodo di grandi emozioni. Era, infatti, la prima volta in assoluto che si usciva dai confini del collegio, mentre in precedenza il mare lo avevamo visto solamente in cartolina.
Va anche detto che in quel periodo di vacanza ci sentimmo improvvisamente consci di una libertà fino ad allora mai goduta, in quanto il personale che gestiva la colonia era per lo più composto di giovani studenti universitari in qualità di assistenti, eccezion fatta per la dirigenza che era sempre di estrazione clericale.
Pertanto, il rapporto che gli assistenti avevano con noi bambini era ben diverso da ciò cui eravamo abituati ad avere con le suore.
In altre parole c’era meno severità, maggior umanità e lungimiranza, e anche qualche accenno di simpatia da parte di alcuni di loro.
Tale libertà alla lunga si rivelò nociva per noi bambini incapaci di viverla; libertà che ci portò a «strafare» rendendo difficile la nostra gestione e costringendo addirittura la dirigenza della colonia a richiamare le suore da Levico.
Con il loro arrivo, fummo poi costretti a un rientro forzato ben prima della scadenza naturale del periodo.
Fu così che molto ingenuamente ci giocammo la carta estiva e tornammo in collegio dove naturalmente ci attendeva una solenne lavata di capo, seguita da una altrettanto solenne razione di botte e castighi vari.
L’anno seguente passò coi ritmi e le consuetudini oramai note fino all'estate successiva, dove ci fu concessa un'altra possibilità di tornare in colonia.
Questa volta, messa a frutto l’esperienza negativa dell’estate prima, fu possibile sfruttare al meglio l’occasione che ci permise di passare un mese intero al mare, godendo di quella libertà solo assaporata l'anno precedente con in aggiunta una gradevole novità.
Il bagnino responsabile della colonia ci prese in simpatia e dietro sua richiesta il pomeriggio, invece che sostare nelle camerate per il solito riposino quotidiano in uso dopo il pranzo, io venni assegnato assieme ad altri due compagni alle mansioni di aiutante di campo dello stesso.
Il nostro compito consisteva nell'aiutarlo a stendere la recinzione dell'area di balneazione adibita ai giochi in mare dei bimbi ospiti della colonia.
Un’area che andava delimitata giornalmente con degli alti pali di legno infissi nella sabbia sotto l'acqua, i quali venivano collegati tra di loro da delle reti protettive con la funzione di creare una barriera per chi avesse voluto uscire da tali confini.
La messa in opera e il conseguente smantellamento impiegavano circa 3 ore, il che ci permetteva di allungare notevolmente il tempo dedicato al bagno in mare.
Ovviamente noi lo vedevamo come un divertimento prolungato, non certamente come un lavoro, pertanto anche per quel motivo potemmo trascorrere un mese veramente tranquillo e piacevole.
Alla fine del turno, a malincuore si rientrò in collegio a Levico. Abituati a quella sbornia di libertà, ritornare alla solita routine imposta con autorità dalle nostre guardie (le suore) fu molto deprimente, ma dato che non esistevano alternative dovemmo far buon viso a cattiva sorte: lì si era e lì si doveva rimanere.
L’ultimo anno a Levico
Nel frattempo giunse l’autunno con il ritorno in classe e con la consapevolezza che quello sarebbe stato l'ultimo anno scolastico che si passava in quel luogo.
A quel pensiero un po’ di angoscia e di tristezza si insinuava nei nostri cuori: quale sarà in nostro futuro?
Per fortuna la maestra che ci seguiva nell'insegnamento era una bravissima signora che veniva dall'esterno e che in tutti gli anni passati con noi si era sempre contraddistinta per la sua dolcezza e immensa pazienza.
Eravamo sì dei bimbi reclusi e svantaggiati rispetto a molti nostri coetanei, ma sempre vispi e vivaci, con in più quel pizzico di rabbia e di rivalsa, inevitabile in chi viveva situazioni simili alla nostra.
All'inizio della seguente primavera prese servizio una nuova inserviente di nome Teresa, una gran bella ragazza coi capelli lunghi e ramati raccolti nell'inevitabile coda obbligatoria nel contesto e nella forma dell'Istituto, con due occhi verde/azzurro capaci di incantare chiunque.
Infatti incantarono pure me che presi una infatuazione, molto infantile data la mia tenera età, ma tremenda e devastante da mandarmi completamente in confusione.
Raramente il personale esterno aveva contatti coi bambini e i pochi momenti erano puramente di carattere pratico, quali la somministrazione dei pasti e il ritiro della biancheria.
Tuttavia in quel poco tempo passato insieme questa giovane inserviente era molto diversa.
Lei, infatti, era capace di parole e gesti affettuosi e comprensivi nei nostri confronti, nei momenti liberi parlava con noi e si informava della nostra situazione.
Mi prese in simpatia parlandomi e trattandomi con estrema dolcezza, la qual cosa mi mandò in uno stato emotivo tale che i miei giorni erano tutti incentrati sul suo arrivo quotidiano e sulle sue per me tristissime uscite serali al termine del turno lavorativo.
La mattina attendevo con ansia il suo arrivo e solo dopo averla vista varcare il cancello trovavo un po’ di pace interiore, e non appena le circostanze lo permettevano correvo col cuore in gola a salutarla, bramando una carezza, un sorriso, che lei non lesinava di dare.
Una gran bella cotta, molto innocente, che non passò inosservata alle mie aguzzine, le quali impedirono alla dolce Teresa di avere contatti diretti con me, pena il licenziamento (questo lo venni a sapere alcuni anni dopo dalla stessa, rincontrata casualmente), situazione che scatenò in me un senso di ribellione che sfociò in un puerile quanto ingenuo tentativo di fuga dall'Istituto.
Mi ingegnai di reclutare due compagni di fuga, uno dei quali aveva dei contatti di parentela abbastanza vicini essendo i suoi familiari originari di Pergine Valsugana, paese non distante da Levico.
Decidemmo quindi di fuggire convinti nell'aiuto (presunto) e nell’ospitalità degli stessi.
Scavalcate furtivamente le recinzioni ci incamminammo alla volta di Pergine nascondendoci ogni qualvolta si intravvedeva qualche pericolo, consistente in particolare nell'incrociare persone che potevano riconoscerci.
Giunti a Calceranica, località turistica a pochi chilometri da Levico affacciata sul lago di Caldonazzo, la prudenza smise di preoccuparci e il nostro passo divenne meno circospetto e più baldanzoso.
Cominciammo così a camminare imprudenti sulla strada che costeggiava il lago perdendoci in giochi come il lancio di sassi piatti sulla superficie dello stesso e contando chi riusciva a far rimbalzare più volte il sasso sul pelo dell'acqua.
Per nostra grande sfortuna, poco dopo transitò da lì una pattuglia dei Carabinieri alla quale non passammo inosservati.
Ci videro, si fermarono, fecero retro marcia e fummo immediatamente fermati. Ci misero poco a farci confessare la fuga dall'Istituto e seppur comprensivi, ligi al loro dovere ci riconsegnarono alle suore, le quali ovviamente ci diedero un'adeguata cura punitiva che nulla invidiava ai metodi inquisitori del passato.
Tale cura consistette in un trattamento doloroso per il corpo e umiliante per lo spirito.
Ci rinchiusero nel locale docce e dopo averci fatto spogliare e rimasti con le sole mutande, le due suore adibite al ruolo di carnefici presero degli asciugamani grandi li arrotolarono uno a uno.
Poi a un capo fecero un solido nodo ben stretto. Terminata tale operazione che ci sembrò non finire mai, ci spinsero sotto il getto d’acqua della doccia e dopo aver bagnato per bene gli asciugamani con gli stessi cominciarono a colpirci senza pietà con il nodo reso pesante dall'acqua, con forza sulle cosce, sulle natiche e sulla schiena, sistema che si rivelò molto doloroso per i nostri esili corpi, ma che permise di non lasciare evidenti segni contusivi sulla pelle.
Ci diedero una tale razione di botte che ci lasciò pesti e doloranti per alcuni giorni, da non essere in grado neppure di giocare coi nostri compagni, i quali consapevoli ci schivarono per tutto il periodo.
Tale trattamento generò in me una tale furia vendicativa che ebbi modo di mettere in pratica in seguito, quando un mese dopo venne in visita l'Assessore Provinciale, in quel caso Assessore donna.
Era infatti usanza che durante la visita di personalità politiche o clericali, tutti noi venissimo inquadrati in file ben ordinate per classe e per altezza nel cortile dell'istituto, in modo che l’illustre ospite potesse passarci tutti in rassegna, e alla bisogna porre delle domande al malcapitato di turno, il quale ovviamente terrorizzato a malapena sapeva solo dire il proprio nome e la classe di appartenenza.
Io non essendo tra i più alti della classe ero schierato in prima fila avendo quella suora proprio davanti a noi.
Lei, come un sergente, continuava avanti e indietro per verificare che nessuno si sognasse di rompere l'allineamento.
Quando l'Assessore giunse alla nostra posizione e si pose proprio davanti alla nostra fila, la suora ci girò le spalle per porgere i suoi saluti allo stesso assessore.
In quel momento io misi in pratica la mia vendetta senza pensare alle conseguenze. La mia carnefice si trovava in quel momento proprio davanti a me. In un sol colpo afferrai il suo velo nero che terminava sotto la cuffia che ricopriva il capo, e tirai con tutta la forza che avevo nelle braccia.
La suora restò senza parole e improvvisamente senza copricapo, mostrando una testa coperta da capelli cortissimi simili a quelli di un militare.
Dopo aver lanciato un urlo impressionante, prima si coprì il capo con le mani, poi si chinò a rimettersi la cuffia lanciandomi nel frattempo uno sguardo rabbioso che prometteva ritorsioni violente, che terminata la visita istituzionale, non tardarono a manifestarsi.
Anche allora, come in precedenza, presi una solenne razione di botte con conseguenti punizioni psichiche che evito volutamente di ricordare.
(La seconda parte viene pubblicata domani)