Autonomie di Trento e Bolzano, una storia da rileggere oggi / 3

«Uno Statuto, due visioni» – Di Mauro Marcantoni

Agli inizi del 1956 le tensioni tra SVP e DC si acuirono ulteriormente. Gli esponenti della Volkspartei accusarono la classe politica trentina di amministrare la Regione senza tener conto dei bisogni e delle istanze della minoranza sudtirolese.
Al centro della diatriba stavano sempre l’interpretazione e l’applicazione dell’articolo 14 dello Statuto, il cui testo recitava: «La Regione esercita normalmente le funzioni amministrative delegandole alle Province, ai Comuni e ad altri enti locali».
Nell’interpretazione della SVP, la norma stabiliva che normalmente la Regione doveva delegare alle due Province le proprie competenze amministrative, assicurando così a esse una maggiore e specifica autonomia.
 
La SVP dava di fatto una lettura storico-politica della norma, che sarebbe stata una sorta di «compensazione» per la mancata realizzazione di un’autonomia esclusivamente provinciale – la regione del Tirolo del Sud, – nello spirito dell’Accordo Degasperi-Gruber.
Secondo quest’ottica, il mancato rispetto della norma doveva essere considerato come una violazione a tutti gli effetti dello Statuto di autonomia ed era pertanto impugnabile al pari di qualsiasi altra violazione.
La classe politica trentina rifiutava una simile interpretazione, opponendo una lettura essenzialmente giuridica della norma.
Il Presidente della Giunta Regionale Tullio Odorizzi, in particolare, insisteva sul fatto che le competenze e le funzioni amministrative dovevano rimanere alla Regione che poteva sì delegarle ma solo entro limiti ben definiti.
Nel tentativo di risolvere la controversia, venne istituita una apposita commissione consiliare presieduta dal democristiano Remo Albertini, la quale però, nel giugno del 1956, chiuse i propri lavori senza aver raggiunto alcun risultato condiviso.
 
A quel punto, l’unica sede in grado di dirimere la questione restava la Corte costituzionale.
Allo scopo di interpellarla, DC e SVP individuarono di comune intesa una sorta di escamotage. La Volkspartei avrebbe presentato una proposta di legge in materia di agricoltura analoga a quella per la quale l’anno prima si era dimesso l’assessore Dietl.
La DC, astenendosi, ne avrebbe consentito l’approvazione, confidando però nel fatto che il Governo Segni l’avrebbe successivamente impugnata dinanzi alla Corte costituzionale.
Così, in effetti, avvenne. Il disegno di legge «Delega alla Province di Trento e di Bolzano di funzioni amministrative nelle materie agricoltura e foreste» venne approvato dal Consiglio regionale.
Il Governo, come previsto, lo respinse e lo rinviò al Consiglio regionale, il quale lo approvò nuovamente. A quel punto il Governo fece ricorso alla Corte costituzionale.
 
Nel frattempo, sul piano internazionale, i rapporti tra Italia e Austria si erano fatti tesissimi.
Nel luglio 1956 il Cancelliere austriaco Raab, in occasione della presentazione del nuovo Governo al Parlamento, affermò che «non tutte le disposizioni del trattato di Parigi erano state attuate» e invitò il Governo italiano a rispettare nella forma e nella sostanza l’Accordo Degasperi-Gruber, al fine di assicurare la sopravvivenza del gruppo etnico sudtirolese.
Si trattava di una presa di posizione che in seguito sarebbe stata più volte ribadita, con toni di crescente radicalizzazione.
Significativamente, come Sottosegretario agli Esteri di quel Governo – con l’incarico speciale di trattare gli affari tirolesi, – venne nominato il professor Franz Gschnitzer, uno dei fondatori dell’associazione irredentista tirolese Bergisel-Bund, il cui obiettivo dichiarato era la riannessione all’Austria del Sudtirolo.
L’Austria riaprì così la questione altoatesina, inviando nell’ottobre del 1956 un Memorandum al Governo italiano, dove ribadiva in modo circostanziato le proprie accuse e chiedeva l’istituzione di una commissione mista italo-austriaca per l’esame di tutte le pendenze ancora irrisolte.
 
In questo clima di esasperata conflittualità si verificarono alcuni episodi di violenza che destarono grande preoccupazione.
Nella notte tra il 20 e il 21 settembre 1956, a Settequerce, vicino a Bolzano, furono fatti saltare con la dinamite alcuni piloni della ferrovia Bolzano-Merano, mentre a Bolzano, presso la caserma Huber, fu fatto scoppiare un potente ordigno.
Solo per una fortunata combinazione di circostanze non vi furono vittime.
Due settimane più tardi, la notte del 6 ottobre, una bomba scoppiò, sempre a Bolzano, davanti alla porta dell’oratorio Don Bosco, dove il giorno seguente si sarebbe dovuto svolgere il XII Congresso provinciale della Democrazia Cristiana.
Nei mesi successivi, gli attentati si moltiplicarono in tutto l’Alto Adige. In particolare, il 27 ottobre e il 2 novembre vennero scoperte delle bombe sul treno Monaco-Merano.
L’eco sulla stampa nazionale ed estera fu enorme, creando imbarazzo non solo nella classe politica trentina, ma anche nel Governo centrale.
 
Mauro Marcantoni
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