Inclusione – Di Giuseppe Maiolo, psicoanalista

La scuola del «noi che ci serve» ha cancellato da tempo la scuola che separava i buoni dai cattivi

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Settembre. Andiamo è tempo di… insegnare!
Tempo di tornare in classe ma più ancora riprendere la scuola e l’insegnamento che pensa al plurale, alla partecipazione di tutti. Una scuola inclusiva, finalmente più cooperativa che competitiva.
Dovrebbe essere, insomma, la revisione radicale della scuola «manichea» di una volta, dove si separavano i buoni dai cattivi, per puntare alla scuola del NOI che promuove l’apprendimento cooperativo e solidale.
Un progetto che urge portare avanti e di cui aveva già dato testimonianza quel don Milani trasgressivo e provocatorio che con la sua Scuola di Barbiana ha mostrato quanto possa essere funzionale allo sviluppo e all’apprendimento la dinamica di una classe dove i ragazzi imparano gli uni dagli altri e non solo dall’insegnante.
 
È l’obiettivo della scuola inclusiva che fa crescere tutti, forma e educa dando a ciascuno quello che gli serve. Non azzoppa chi ha gambe buone per correre, ma fa camminare chi ha difficoltà e sa aspettare chi ha un passo rallentato.
È la scuola dallo sguardo largo, che non teme le differenze ma le sa valorizzare.
Sostiene i diversamene abili occupandosi dei loro bisogni specifici (o speciali) e al contempo tiene conto delle loro risorse che comunicano perseveranza, fiducia, determinazione, coraggio e sentimenti di uguaglianza.
Gli stessi in fondo che animano le Paralimpiadi e di cui a scuola si farebbe bene a parlare di più.
Una scuola difficile da fare, faticosa per chi insegna, dove l’impegno formativo-educativo è alto, altissimo e richiede molte energie agli insegnanti. Ma è una scuola possibile.
 
Così sbalordisce non poco scoprire che c’è ancora chi pensa alle classi «speciali» come soluzione delle difficoltà di apprendimento linguistico, e le immagina composte di soli migranti.
Anacronistico! Perché chi lo pensa ignora le ricerche che hanno evidenziato non le valenze positive delle classi «differenziali» quanto le negatività a livello cognitivo e sociale.
Li ricordo bene anch’io gli effetti di quella ghettizzazione, perché nei miei primi anni di lavoro a scuola ho insegnato in una classe differenziale dove gli allievi sostenevano di non poter fare le cose che fanno gli altri, dicendo: «Noi siamo gli scemi!»
Quanta tristezza ho in mente e quali frustrazioni mi hanno accompagnato, novello insegnante che entrava in campo dopo tanti studi di psicologia e di pedagogia.
 
Per fortuna ho visto anche abolire quelle classi devastanti. Ma è stato possibile quando si è cominciato a parlare di didattica inclusiva e soprattutto grazie al lavoro di un grande studioso come Andrea Canevaro scomparso da un paio di anni e che ricordo con affetto, il quale ha dedicato l’intera esistenza a questo tema (A. Canevaro e D. Ianes, Un’altra didattica è possibile, Ed. Erickson).
Grazie a lui e ai ricercatori impegnati con lui nella didattica speciale si è capito che l’insegnamento che serve è quello che «lascia segni», (come dice l’etimo) e si fonda più sull’inclusione e la cooperazione che sulla competizione.
La scuola inclusiva è scuola che guarda lontano e non solo fino alla prima fila di banchi.
È generativa perché capace di accendere relazioni significative tra gli allievi.
 
Educa, non solo forma, e i docenti sanno che non è possibile insegnare senza educare, perché non si «mette dentro» nulla ma, come dice il latino «educere», si fa lo sforzo continuo di «tirare fuori».
Lavoro molto simile alla maieutica di Socrate che era ed è ancora l’arte di far emergere da dentro la conoscenza che stimola il pensiero personale degli allievi e la loro riflessione.

Giuseppe Maiolo – Psicoanalista
Docente all’Università di Trento