Alla Facoltà di Economia un tema discusso e sentito soprattutto tra i giovani
Checchi: «Gli Usa, uno dei paesi più immeritocratici del mondo» Si parla tanto di meritocrazia, ma chi sarebbe disposto a lasciare il proprio posto a qualcuno più bravo?
Tante questioni in ballo poche
certezze. Daniele Checchi, professore di economia del lavoro
all'Università Statale di Milano avverte subito la platea giunta
questa mattina ad ascoltarlo: «Il tema del merito è scivoloso e
ideologico. Dal punto di vista teorico esso è visto come principio
allocativo; sotto l'ottica empirica la messa in atto del merito è
davvero complicato. Il motivo? Il perché non è ancora del tutto
chiaro, e forse non lo sarà mai, che cosa si deve andare a misurare
quando si parla di merito.»
Economicamente parlando il principio meritocratico si esplica in
tre concetti fondamentali: il successo deve dipendere in massima
parte dal merito ed in minima parte dalla fortuna e/o dalle
condizioni familiari; ciascuno può aspirare al successo e competere
sulle proprie possibilità; ogni individuo è responsabile del
proprio eventuale insuccesso in altre parole, come sostiene il 60%
degli americani, il povero è povero perché non ha voglia di
lavorare.
Una domanda sorge spontanea: alla luce della sua complessità è
possibile misurare il merito?
«Ci hanno provato e ci provano in tanti - afferma Checchi - tra cui
Michael Young che in "The rise of meritocracy" vede il merito come
una combinazione di talento ed impegno. Una formula che si rivelerà
però inefficiente.»
Isolare una componente «generica» da una «ambientale» è difatti
impossibile perché il talento e l'impegno tendono a muoversi
insieme. E ancora, il talento non può essere mono-dimensionale.
Altra questione: si può perlomeno misurare il talento naturale?
Negli anni '60 si pose grande fiducia negli IQ-test [i test per
misurare il quoziente di intelligenza - NdR]. Fiducia scemata
vent'anni più tardi quando ci si accorse che le misurazioni erano
influenzate dal contesto in cui si svolgevano. Ci ha poi provato la
medicina con le analisi sui gemelli monozigoti e di zigoti. Un
metodo che consente sì di isolare l'impatto del talento naturale
sulle scelte formative, ma non di misurarlo. Attualmente la
tendenza è quello di monitorare l'impatto delle abilità cognitive e
di quelle non cognitive nelle determinanti delle retribuzioni.
«Saper eseguire gli ordini in tali casi - commenta Checchi -
consente di ottenere dal mercato una remunerazione maggiore di
quella che spetterebbe per l'effettivo patrimonio cognitivo
posseduto.»
Molto più facile misurare l'impegno. Esso si può determinare
difatti dal tempo investito nello studio e/o dal livello di studio
conseguito; dall'orario di lavoro effettivo e/o disponibilità ad un
suo ampliamento; risultati in termini di output.
Oggetto dell'intervento del professor Checchi anche la meritocrazia
vista come allocazione efficiente.
Abbiamo visto che determinare il talento con esattezza è assai
complicato, così come di conseguenza fornire ordinamenti sociali in
termini di meritocrazia. Ma anche potendo osservare misure
indirette del talento, tanto per dirla alla Pareto - si è chiesto
Checchi - come accade il passaggio dal talento (distribuito
plausibilmente in modo normale nella popolazione) al reddito
(distribuito evidentemente in modo asimmetrico nella popolazione)?
E poi: è giusto premiare una persona per il proprio talento? Per
qualità cioè innate, di cui non può vantare nessun merito?
«Ad occuparsi del problema di allocazione efficiente del talento
alle occupazioni lo studioso Roy. "Immaginando che gli individui
scelgano il mestiere dove ottengono il reddito più elevato -
scrisse - avremo autoselezione gerarchica ed efficiente dei talenti
sulla base dei redditi attesi". Questo però richiederebbe che tutti
conoscano il talento di tutti e che il mercato del lavoro remuneri
il talento. In alcuni casi tuttavia il mercato è in grado di
individuare e valorizzare il talento perché esso è facilmente
osservabile. Inoltre la remunerazione del talento può essere molto
elevata se ci sono economie di scala legate alla tecnologie. Un
esempio su tutti il caso degli sportivi e degli attori che
guadagnano relativamente molto più oggi di ieri solo perché la
tecnologia mediatica ha abbassato il costo della fornitura dello
spettacolo per unità di spettatore.
A cercare di dare risposta, invece, all'argomento del merito e
della meritocrazia come allocazione giusta è scesa in campo anche
la filosofia. Crescente la letteratura che studia l'esistenza o
meno di uguaglianza delle opportunità come valutazione del grado di
giustizia sociale.
«Se è possibile - fa notare Checchi - che il risultato è dato dalle
circostanze e dall'impegno allora a parità di circostanze il
risultato rivela l'impegno. Quindi, come sostenne Roemer, la
disuguaglianza può essere decomposta in una componente accettabile
ed in una componente iniqua.»
Anche in questo caso l'approccio, che è il più vicino alla
misurazione della meritocrazia che abbiamo a tutt'oggi, presenta
diversi limiti poiché: l'impegno raccoglie al suo interno anche il
talento e la buona sorte; l'impegno e le circostanze tendono a
muoversi insieme.
«Se misurare l'uguaglianza delle opportunità per data distribuzione
- prosegue Checchi - può essere problematico, più consolidato è
misurare la persistenza intergenerazionale dello status. Le
statistiche indicano che se un genitore aveva un reddito pari al
doppio della media, il figlio avrà in media un reddito superiore al
40% a quello della media.»
Difficile però fare confronti internazionali su queste misure.
Altra componente che va ad influire pesantemente sul merito è
l'istruzione. In molti Paese c'è un legame di casualità molto forte
tra questa componente e il merito. Non in Italia però. Le cause?
Sistemi secondari stratificati che sfornano studenti
indipendentemente dalle capacità ed il fatto che le università
siano accessibili a tutti.
«Ognuno può andare dove vuole - dichiara Checchi -
indipendentemente dalle proprie abilità. Il Paese più meritocratico
rimangono quindi gli Stati Uniti? Niente affatto - dichiara Checchi
- se misuriamo la meritocrazia sulla base della correlazione tra i
redditi di una generazione e di quella successiva i numeri ci
dicono che c'è forte persistenza ossia negli USA conta tanto la
famiglia da cui vieni. E questo confligge con il principio
meritocratico al di là che ci sia il mito che ognuno possa
divenirne il presidente.»