Pierangelo Dacrema, «Squallore» – Di Daniela Larentis
L’autore del saggio, professore ordinario di Economia, riflette sull'epoca attuale, caratterizzata dal dominio degli oggetti e dal materialismo – L’intervista
L'economista Pierangelo Dacrema con il poeta Guido Oldani.
In questi giorni è in corso la diciannovesima edizione del Festival dell’Economia di Trento, dall’emblematico titolo «QUO VADIS? I DILEMMI DEL NOSTRO TEMPO», un’occasione per una profonda riflessione su ciò che sta accadendo nella contemporaneità e sull’idea di futuro che immaginiamo.
A riflettere sui dilemmi del nostro tempo è anche Pierangelo Dacrema, professore ordinario di Economia, autore del saggio «Squallore - Un libro per spiriti audaci», edito da Mursia (Collana Argani, 2024), con prefazione di Guido Oldani, una delle voci poetiche internazionali più riconoscibili, fondatore del Realismo terminale.
Il professore osserva che nelle parti del mondo dove ha prevalso il modello economico occidentale si è sviluppata una «società del benessere».
Tuttavia, sottolinea l'importanza di porsi la domanda cruciale sul costo di questo benessere in termini di malessere, evidenziando la necessità di valutare attentamente gli svantaggi derivanti dal progresso economico.
Viviamo nell'era del consumismo esasperato, immersi nello squallore di una società dove l'essere umano è un consumatore bulimico, preda della frenesia dell'accumulo.
Questa visione rinvia al Realismo terminale, un movimento letterario e artistico internazionale che mette in luce le trasformazioni antropologiche in atto nel mondo globale dominato dalla tecnologia e dagli oggetti.
Fondato nel 2010 da Guido Oldani, ha dato vita a un modo radicalmente diverso di interpretare la realtà e di rappresentarla, anche artisticamente, a partire dalla poesia (il lancio del Manifesto breve, con la presentazione ufficiale del movimento al Salone del libro di Torino, è avvenuta nel maggio del 2014).
Scrive Dacrema: «Come vasta e articolata dimensione della vita, l’economia può diventare responsabile dei momenti più ignobili della nostra esistenza, degli episodi che la rendono più opprimente, sgradevole e pesante ai limiti della sopportabilità.
«Non ho mai creduto all’esistenza di un’economia della felicità, che è stato d’animo sporadico, quasi inspiegabile, poco riconducibile a rapporti di causa ed effetto, fondamentalmente indipendente dal fatto economico.
«Ma resto convinto che all’economia, una buona economia, sia attribuibile la capacità, per così dire, di farci soffrire in pace, consentirci di trascorrere il tempo più liberi da affanni di ordine materiale, favorire una benefica sensazione di giustizia, ridurre al minimo l’occasione di scontri sociali e l’esperienza di uno scoramento indotto dalle circostanze, provocato dalla miserevolezza del contesto.
«Nonostante le apparenze - alcune clamorose, talmente sfacciate da evocare l’esatto opposto di ciò che vorrebbero mostrare - la nostra economia è pervasa da uno squallore offensivo, persistente […].»
Alcune brevi note biografiche prima di passare all’intervista.
Pierangelo Dacrema, nato a Castelsangiovanni (Piacenza) nel 1957, è professore ordinario di Economia dal 1993. Tra le sue pubblicazioni non accademiche: «La morte del denaro» (2003), «Trattato di economia in breve» (2005), «La dittatura del PIL» (2007), «Lettera aperta a uno studente universitario» (2013), «C’era una volta una scienza triste» (2015), «Economia del malessere» (2020).
Abbiamo avuto il piacere di porgergli alcune domande.
Partiamo dal titolo del saggio: da che tipo di squallore è pervasa la società contemporanea?
«Può esserci squallore nella ricchezza nella povertà, nell’opulenza o nella morigeratezza, nel progresso e nell’arretratezza.
«Difficile da definire con precisione, e spesso anche da riconoscere e percepire, lo squallore ha una sua propria, peculiare, caratteristica: è umano, molto umano, nel senso che è un diretto derivato dell’umanità, del suo operato.
«Ed è la prova di uno dei nostri fallimenti, forse il più grave, senz’altro il più gravido di conseguenze.
«Ho cercato di spiegare come lo squallore attuale abbia radici soprattutto, per quanto non esclusivamente, economiche.
«È un pericolo che incombe su tutta la nostra società. È l’aria impura che respiriamo, una nebbia tossica che ci avvolge e impedisce di vedere. È qualcosa di subdolo e serpeggiante che ci nega persino di capire tutto il male di cui è responsabile.»
Il volume rinvia al pensiero realista terminale di Guido Oldani, può condividere un pensiero a tale riguardo?
«Il realismo terminale di Guido Oldani corrisponde a una visione molto lucida della società contemporanea. È come se agli occhi del poeta si offrisse uno spettacolo sconcertante, e preoccupante.
«Ne risulta una poesia tanto più vera, vibrante e pura quanto più partecipe e compassionevole è l’atteggiamento che la ispira, quanto più precisa e spietata è la diagnosi che ne è il presupposto, profonda la consapevolezza dei profili di tristezza, disperazione e squallore che l’uomo di oggi è disgraziatamente riuscito a dare al contesto in cui vive.»
La libertà odierna risulta illusoria per via del suo asservimento ai modelli e ai consumi del mercato. Sembra che l'unica libertà rimasta sia quella di consumare, non solo beni materiali ma anche relazioni umane, spinte dal consumismo usa e getta. È anche questa cultura di consumo disumanizzante il motivo di questo grande squallore in cui ci troviamo?
«Certo! Lo squallore odierno ha molto a che vedere con questa nostra cultura del mercato, con modelli di consumo disumanizzanti che hanno sconvolto qualunque scala dei valori.
«È più difficile vendere che produrre, è più importante consumare che lavorare. Il lavoro equivale alla fatica, alla pena, e il consumo al godimento, alla gioia. Nessuno che pensi al lavoro come a un passatempo obbligato, spesso gratificante.
«Quale e quanta noia avrebbe assalito l’umanità se non avesse trovato una valvola di sfogo nell’operosità, nell’industriosità, nel lavoro e nella soddisfazione implicita nell’osservazione dei suoi straordinari risultati?
«La tecnica - prezioso serbatoio dell’esperienza e degli esperimenti degli uomini - dovrebbe suggerirci produzioni e consumi sempre più intelligenti, sempre più consoni alla nostra dignità, sempre più orientati a dare un senso alla nostra esistenza. Sembra invece sempre più pronta ad assecondare i nostri capricci, a farci dimenticare i nostri reali problemi, a farci giocare senza procurarci alcun vero divertimento. Tanti desideri alimentati, abilmente e artificiosamente stimolati, nessun vero appagamento.»
Nel contesto delle teorie di Tocqueville sull'«interesse ben inteso», che sottolinea il tentativo degli individui di armonizzare l'interesse privato con quello della collettività, come valuta l'applicabilità di questo concetto nel contesto dell'economia contemporanea?
«Nel contesto delle teorie di Tocqueville - e, aggiungerei, dopo la lezione di John Maynard Keynes e anche quella di Marx - è impossibile immaginare una società che aspiri a vivere sotto l’egida di un principio di giustizia senza che si ponga il problema di armonizzare l’interesse privato con quello della collettività. Impossibile pensare a una società giusta senza un giusto ruolo dello Stato.
«Difficile è trovare buoni uomini di governo animati da buone idee. Il sistema di idee oggi dominante è quello che si identifica nel cosiddetto capitalismo.
«Ma a questo proposito è il caso di ricordare ciò che ha puntualizzato Keynes. Il comunismo, ha detto, è una religione, e come tale si giustifica da sé.
«Il capitalismo, invece, per giustificarsi e salvarsi non può accontentarsi di risultati buoni: pieno di difetti com’è ha l’obbligo di produrre risultati eccellenti.
«Ed è sotto gli occhi di tutti come l’economia contemporanea sia lontana dall’ottenere risultati di questo tipo.»
Si può ipotizzare una via d’uscita o prendere le distanze dallo «squallore» resterà solo un’utopia?
«Ho l’impressione che sia davvero difficile sconfiggere lo squallore contemporaneo. Temo - anzi, sono terrorizzato solo all’idea - che una possibile, forse l’unica, via d’uscita sia rappresentata dalla guerra.
«In effetti è così: una via d’uscita pacifica assomiglia oggi a un’utopia. Conforta tuttavia constatare che a volte le utopie si realizzano, trovano faticosamente, quasi miracolosamente, uno spazio nella realtà e, così facendo, sconfessano la loro stessa definizione.»
Nel contesto attuale, pensa che la citazione di Dostoevskij contenuta nel libro «I Fratelli Karamazov» riguardo alla bellezza che salverà il mondo conservi ancora la sua validità?
«Sono convinto che etica ed estetica siano tutt’uno, che l’etica sia una questione di fatti, e che sia pertanto inutile, quando non fuorviante, parlarne.
«Che la bellezza possa salvare il mondo resta una bell’idea, buona a esprimersi nelle occasioni buone. Riesce però a malapena a far sorridere quando diventa, e troppo spesso accade, solo una formuletta consolatoria, solo un piccolo insieme di parole destinato a gratificare chi le pronuncia.
«Certo che la bellezza è importante, che l’arte è una fonte insostituibile d’ispirazione, che come parte eccellente dell’economia conserva un compito tanto delicato quanto fondamentale.
«In concreto e comunque, sarà pur sempre necessario sporcarsi le mani con la parte peggiore dell’economia nel tentativo di redimerla, migliorarla passo dopo passo, lottare per ridurne al minimo le zone oscure, diminuirne la bruttezza.
«Allora, se è stimolo a muoversi in questo senso, ben venga l’aspirazione alla bellezza.»
A cosa sta lavorando, progetti editoriali futuri?
«Sto lavorando a un saggio, piuttosto articolato, adatto a contenere una mia idea abbastanza definitiva di ciò che è, è sempre stata e per sempre è destinata a essere l’economia: la manifestazione concreta di una speranza di eternità della sopravvivenza dell’umanità, di una vera e propria immortalità del genere umano.
«Importante sarà la sottolineatura di ciò che lavora contro questa speranza, di per sé istintiva, inevitabile, irrinunciabile, di fatto innata, e tuttavia gravemente compromessa dalle attuali tendenze, dai modelli di vita prevalenti nella nostra epoca.
«Mi riferisco al problema rappresentato dalla mancanza di un interlocutore indispensabile, più precisamente alla mancata percezione della sua necessità: parlo dell’assenza di Dio nel mondo, di un senso dell’immanente che non c’è e di cui non si avverte neanche il bisogno, della latitanza di un modello sovrumano a cui ispirare i nostri gesti, non importa se alleato amorevole o temibile avversario. Parlo del fatto piuttosto preoccupante che il denaro ha sostituito Dio, nella teoria e nella prassi.»
Daniela Larentis – [email protected]