Al Festival: «Seconda età delle macchine, alleate nel lavoro»

L’economista David Autor a Palazzo Geremia per il Festival dell’Economia sul futuro dell’intelligenza artificiale

Come insegnare alle macchine le cose che abbiamo appreso spontaneamente, come camminare, riconoscere un viso o parlare le lingue?
Per l’economista David Autor: «Il paradosso di Polany si può aggirare rendendo l’ambiente più compatibile con le macchine, oppure insegnare al computer a imparare autonomamente».
I progressi dell’intelligenza artificiale e della robotica a confronto con la paura della tecnologia.
«Alcuni lavori sono già stati sostituiti dall’automazione, per altri può essere complementare, ma quelli che richiedono adattamento all’ambiente o ai rapporti interpersonali la sostituzione è al momento impossibile»

Le macchine ci ruberanno il lavoro? Probabilmente no ma ci porteranno a cambiarlo radicalmente, basti pensare che, secondo un recente studio, circa il 47% dei mestieri saranno automatizzati nei prossimi anni.
Si parla di una «seconda età delle macchine», in cui i robot saranno in grado di svolgere compiti sempre più intellettuali.
David Autor, professore e direttore associato del Dipartimento di Economia del MIT, ospite al Festival dell’Economia di Trento nell’incontro tenutosi a Palazzo Geremia, ha proposto un viaggio a ritroso alla scoperta del rapporto tra l’uomo e le macchine nel lavoro, partendo dalla paura delle persone nei confronti dell’avvento della tecnologia.
«Una questione aperta da molto tempo – ha spiegato Autor – che ha a che fare con l’aumento delle disuguaglianze, della disoccupazione e con il crollo dei salari.
«Ma già all’epoca della rivoluzione industriale l’introduzione dei macchinari per sostituire il lavoro umano era fonte di preoccupazione. Nel 1964 il presidente degli Stati Uniti Johnson istituì un’apposita commissione per monitorare la questione e nel 1974 il Dipartimento degli Interni lo definiva “uno tra i problemi più preoccupanti per il futuro.»
«Molti ritengono che il fatto che la tecnologia non abbia creato particolare disoccupazione nel passato non significa che non la genererà in futuro.
«Questa convinzione sta alla base delle paure contemporanee. Da allora a oggi il mondo occidentale ha attraversato tre grandi rivoluzioni: quella agricola e poi quella industriale, in cui progressivamente l’automazione ha garantito più produttività ma ha allontanato le persone dal lavoro e ha contribuito all’aumento dell’istruzione rendendo possibile un notevole investimento in capitale umano. La terza rivoluzione è iniziata con l’introduzione e la diffusione del computer.
«Le attività che attualmente sono svolte dai computer sono tutte quelle ripetitive e procedurali. Quelle invece ancora non automatizzate riguardano le abilità astratte, di problem solving, la flessibilità mentale, la creatività.
«Per queste si prevede una forte complementarietà con i computer. Le attività manuali, che richiedono capacità di adattarsi all’ambiente e ai rapporti interpersonali non sono invece sostituibili dalle macchine».
 
Perché la tecnologia non ha ancora spazzato via il lavoro?
«Qui entra in gioco il paradosso di Michael Polany, filosofo ed economista ungherese, secondo cui ognuno di noi conosce tacitamente le cose che cerchiamo di apprendere. Questo avviene, ad esempio, per le attività ripetitive, che possiamo insegnare alle macchine perché siamo stati noi ad codificarle.
«L’intuito, la capacità di parlare le lingue e di adattarsi all’ambiente, sono invece competenze difficili da insegnare perché le abbiamo apprese spontaneamente. Possiamo insegnare l’algebra a una macchina, ma non a camminare. Perché lo abbiamo appreso spontaneamente.
«Questa è la grande sfida dell’automazione. Che ha due grandi implicazioni: non possiamo automatizzare ciò che non capiamo chiaramente, che è spontaneo (come, ad esempio, le competenze nella la cura delle persone o le funzioni manageriali).
«Ci sono invece delle azioni che possono essere integrate con migliori risultati in termini di performance con l’ausilio della macchina (ad esempio le valutazioni mediche sulla base di test diagnostici svolti dalle macchine).»
   
Ma quando si ha complementarietà e quando sostituzione? «Dipende dal settore e dall’elasticità di domanda e offerta. Ma anche dalla rapidità con cui alcune mansioni possono essere automatizzate. Il costante avanzamento dell’intelligenza artificiale ci lascia pensare che potremmo presto insegnare alle macchine ad imparare.
«Per farlo, dobbiamo rendere la mente più semplice possibile. Ad esempio, le automobili di oggi sono affidabili e sicure, ma sono incompatibili con superfici diverse dalle strade. Se riuscissimo a rendere l’ambiente più compatibile con le macchine, allora molte altre funzioni sarebbero possibili e si potrebbe rompere così il paradosso di Polany.
«Le macchine non sono in grado di gestire situazioni complesse. La maggior parte dei compiti quindi sono automatizzati e il fattore umano interviene solo nell’ultima fase.
«Questo è uno schema di relazione macchina-uomo che funziona. Esiste però un altro modo per aggirare il paradosso, quello del ragionamento indotto: dare delle etichette alle cose e lasciare che il computer faccia l’associazione statistica.
«Questo avviene già, ad esempio, con i sistemi di riconoscimento vocale, quando parliamo e la macchina completa automaticamente la nostra frase.»
   
Ma quali saranno i posti di lavoro disponibili da qui a 50 anni?
«Difficile dirlo. Le macchine hanno sostituito la gente. Ma nessuno pensa quanto hanno integrato il lavoro delle persone.
«Di sicuro nessuno avrebbe immaginato il futuro dei mancati agricoltori cento anni fa nell’informatica o nel management.
«La risposta a queste paure deve essere nell’istruzione. Questa è la leva e la sfida che garantirà un futuro al lavoro delle persone.
«Se, al contrario, le macchine prenderanno il posto delle persone nel lavoro, allora il problema sarà invece diverso e riguarderà la redistribuzione della ricchezza.»