Grande Guerra. – 90 anni fa, la disfatta di Caporetto/ 4

Prima settimana di novembre 1917. Il Piave

Mentre le truppe si stanno portando ormai sulla nuova linea difensiva, a Roma devono decidere chi mettere al posto di Cadorna. Il problema non è di facile soluzione, e la scelta cade su una terna di nomi. Tra questi Pietro Badoglio, uno dei generali della disfatta.


Treviso, 8 novembre 1917. Il generale Luigi Cadorna viene sostituito dal generale Armando Diaz.


Il problema del rimpiazzo di Cadorna non era di semplice soluzione.

Innanzitutto, tecnicamente parlando, Luigi Cadorna (nella foto) era difficile trovarne uno del suo livello perché era un grande generale. Aveva fatto massacrare centinaia di migliaia di suoi soldati, ma questo era dovuto (ahimè, non è un esimente) al fatto che in quel tempo le difese erano molto più potenti degli attacchi. Non era riuscito a portare sulla scena la guerra moderna come avevano fatto i tedeschi proprio a Caporetto, ma aveva il merito di essere riuscito a tirare su un esercito di due milioni di soldati (il più grande mai avuto dal nostro Paese) praticamente dal nulla. Se si leggono i trattati di storia militare precedenti alla Grande Guerra, ci si accorgerà subito che il problema principale del Regio Esercito era quello di dotarlo di quegli elementi di base che invece gli altri Stati avevano da tempo. Riuscì a organizzare, nutrire, comandare e manovrare una moltitudine gigantesca ed eterogenea di persone (armate) secondo un progetto organico. La conquista «di impeto» era ancora nei manuali di guerra, ma era solo una questione tattica. La guerra invece andava vinta sul piano strategico. Disegni, piani, progetti, spostamenti, comunicazioni, rifornimenti, direttive, ordini… Tutto questo Cadorna era riuscito a costruirlo.

In secondo luogo, il migliore generale in forza dopo Cadorna era Capello, il quale però era ormai fuori combattimento sia perché gravemente malato, sia perché era stato al comando della Seconda Armata che adesso non esisteva più neanche sulla carta. Politicamente era finito anche lui.
Capello, con la sua uscita di scena, aveva posto il grande problema che qualsiasi altra nomina avrebbe generato un ingrato e cento invidiosi.

In effetti c'era un generale che avrebbe dovuto ricevere lo scettro del comando per scelta quasi naturale. Questo era il Duca D'Aosta Emanuele Filiberto (nella foto, da giovane), già comandante della terza Armata, quella che era schierata da Gorizia al mare, quella che aveva avuto i più alti episodi di eroismo, quella che mai aveva ceduto al nemico, quella che Cadorna aveva voluto salvare proprio perché era l'unica che avrebbe potuto costituire la difesa dell'intero Paese dopo il ripiegamento. Il Duca, cugino del re Vittorio Emanuele Terzo, era anche molto amato e rispettato dagli uomini della sua armata. Ma allora perché non venne subito scelto per rimpiazzare Cadorna? Beh, su questo gli storici sono piuttosto d'accordo. I motivi erano due. Il primo era che la Casa Reale non poteva rischiare di essere coinvolta in una peraltro plausibile sconfitta militare del nostro Paese. Il secondo era l'opposto: nel caso peraltro difficile di vittoria, Vittorio Emanuele Terzo non poteva rischiare di trovarsi in casa un Vittorioso parente così stretto.

C'era anche una questione politica. Il governo non voleva un generalissimo difficile da gestire. Cadorna aveva insegnato troppe cose. All'interno dell'Intesa, i militari non hanno mai prevaricato i loro governi, cosa che invece in Austria e Germania era accaduto fin dall'inizio della guerra. Ma il governo stavolta doveva essere certo di tenere nelle proprie mani la conduzione politica della guerra. E se il nuovo comandante in capo non fosse stato all'altezza, volevano essere in grado di silurarlo senza troppi problemi.

Per questo motivo fu deciso di scegliere un generale per così dire di profilo «minore», coadiuvato da altri due esperti generali in grado di sostenere tecnicamente la conduzione dell'esercito. Era il trionfo del vecchio principio politico del dividi et impera.
Fra tutti venne scelto Armando Diaz, che fino a quel momento pochi avevano sentito nominare. A coadiuvarlo vennero chiamati, e qui sta la solita ironia della storia, il generale Gaetano Giardino e il generale Pietro Badoglio.
Diaz era un Napoletano di 57 anni. Colonnello nel 1911, ferito in Libia, generale di brigata all'entrata in guerra dell'Italia, generale di divisione nel 1916, generale di corpo d'armata nel 1917 al comando del XXIII corpo sul Carso (Terza Armata). Conosciuto come gentiluomo, probabilmente venne scelto proprio perché aveva un'alta considerazione della vita umana, cosa di cui sia l'esercito che la popolazione avevano bisogno in quel momento. Lo stesso Mussolini, quando Diaz morì nel 1928, lo commemorò in senato parlando di lui come «il primo generale per il quale i soldati non erano solo delle piastrine di riconoscimento».
Il generale Giardino invece era ministro della guerra uscente dall'appena caduto governo Boselli. Aveva chiesto fin dall'inizio di poter comandare anche lui una grande unità, ma Cadorna glielo aveva impedito perché… era troppo grasso. «Non passerebbe neanche attraverso i nostri camminamenti», aveva detto. Ovviamente Giardino se l'era legata al dito e adesso aveva finalmente ottenuto il comando, sia pure subordinato.
Il mistero in tutto questo fu invece la scelta di Pietro Badoglio che, come abbiamo visto, al momento della battaglia di Caporetto non era neanche riuscito a entrare in contatto con il proprio comando al XXVI Corpo d'Armata. Erano lui e Cavaciocchi i due generali che non avevano saputo opporre una certa resistenza organica all'attacco nemico, ma mentre il primo era stato subito silurato da Cadorna, il secondo ce lo andiamo a ritrovare poco dopo nientemeno che ai vertici del nuovo Comando Supremo. Questo perché al momento della nomina, come vedremo nel prossimo capitolo, il Governo non sapeva ancora nulla di quanto fosse successo realmente a Caporetto. E quanto lo seppe era troppo tardi per silurare uno dei massimi vertici appena nominati.


(Nelle foto, i «Tre Condottieri»: Diaz, Giardino e badoglio)

Comunque sia, il giorno 8 novembre il Ministero della Guerra inviava il colonnello Rota a Treviso a consegnare a Luigi Cadorna la lettera con la quale veniva destituito. Cadorna sbraitò, chiese di sapere chi fosse il suo successore, ma Rota finse di non saperlo. Poco dopo, però, si recava al comando del XXII Corpo d'Armata e consegnava ad Armando Diaz la lettera di nomina. Lo stesso nominato rimase stupito, non se lo aspettava proprio. Rota informava Diaz che dovrà essere lui stesso a dirlo a Cadorna, piccola incombenza in cambio dell'altissima nomina…
Come si può comprendere, Luigi Cadorna non gradì di essere destituito direttamente dal suo sostituto, cosa che sarebbe spettata al re o almeno al Presidente del Consiglio. E così, al nuovo comandante in capo Diaz che gli mostrava la lettera del Re controfirmata da Orlando e dal ministro della difesa Alfieri, sbatté la porta in faccia e se ne andò esclamando «Così si licenzia un furiere!»

Diaz, Giardino e Badoglio, si trovarono a comandare un esercito il cui dispositivo strategico di difesa era stato disposto e messo in atto da Cadorna. Non lo misero in discussione.
Il generale austriaco Conrad scrisse alla moglie che il più grande vantaggio ottenuto con la travolgente vittoria di Caporetto fu la destituzione di Cadorna.
In realtà, fu un grosso passo avanti anche per il nostro esercito. Diaz sarebbe stato molto più comprensivo del suo predecessore, anche se meno dotato tecnicamente. Prudente fino al punto di essere considerato titubante, non aveva del tutto la consapevolezza delle dimensioni del ruolo che gli era stato affidato. Quando gli Stati Uniti gli chiesero di quanti soldati americano avesse bisogno, rispose qualcosa come 50 divisioni. Ricevette un solo battaglione… Comunque si sarebbe trovato a comandare dei soldati che erano fortemente determinati a non cedere più di neanche un solo passo, e un Paese improvvisamente sceso in piazza a sostenere l'esercito.


La Commissione d'inchiesta su Cadorna e il mistero del «carteggio Badoglio».

Il 13 dicembre di quel maledetto 1917 (cioè dopo il successo della prima battaglia d'arresto sul Piave e con la seconda tuttora in corso), i deputati del parlamento italiano vennero convocati in una sessione a «porte chiuse», cioè segreta. All'ordine del giorno c'era la valutazione del comportamento assunto dai comandi poco prima, durante e poco dopo Caporetto. I punti in discussione erano questi.
1. Lo schieramento troppo avanzato delle artiglierie;
2. Il dissenso tra Cadorna e Capello nell'affrontare l'attacco;
3. Il mancato intervento delle riserve;
4. L'assenza di controllo delle operazioni;
5. L'esagerata sostituzione dei quadri (i famosi siluramenti di Cadorna);
6. La responsabilità della propaganda pacifista (che, guarda caso, aveva fatto presa solo sulla Seconda Armata).

Per cinque giorni a Montecitorio pacifisti e interventisti si azzuffarono e neanche solo a parole. Come sbocco naturale per arrivare ad una necessaria pacificazione delle parti politiche, non restava che scaricarsi su Cadorna, il quale nel frattempo era stato incaricato a rappresentare l'Italia nel comitato militare di guerra dell'Intesa a Parigi. C'era chi lo voleva rinviare a giudizio, chi lo voleva mettere a riposo, nessuno lo voleva difendere. Perfino il governo, che lo aveva destituito, si trovò costretto a prendere le sue parti, e Cadorna se la cavò per il momento con la perdita degli incarichi a Parigi che gli avevano dato come contentino al momento della destituzione. Il 17 (ma qua i numeri per coloro che credono nella sfortuna, si accumulano) si concluse il dibattito con la decisione di avviare un'inchiesta parlamentare. Tale commissione d'inchiesta emise l'annuncio ufficiale dei propri lavori solo il 12 gennaio (evitarono a tutti i costi il 13…). Cadorna venne richiamato da Parigi, ma verrà ricevuto dalla Commissione solo il 14 marzo (avevano voluto lasciar passare il 13…), e le sue audizioni proseguiranno fino agli inizi di giugno.
Ciò che emerse furono forti «indizi di responsabilità» per Cadorna, Porro, Capello, Cavaciocchi, Bongiovanni e Badoglio.

Mentre la Commissione stava per emettere le proprie conclusioni, si svolgeva la più importante battaglia sul Piave, quella del «Solstizio», quella che aveva opposto al nemico una difesa talmente attiva da mettere in seria difficoltà l'esercito attaccante. Se in quell'occasione il Regio Esercito avesse avuto alla guida un generale come Cadorna, o quantomeno un solo comandante in capo, avrebbe colto l'occasione per contrattaccarlo fino a giungere alla vittoria con sei mesi di anticipo. Ma di questo ne parleremo l'anno prossimo, in occasione del 90° anniversario di quella battaglia.
Fatto sta che in quel frangente scoppiò nel Paese una ventata di patriottismo tale che si riflesse profondamente anche alla camera. Si unirono al sostegno dei nostri ragazzi sul Piave anche i pacifisti e i socialisti, tra i quali lo stesso Turati.
Cadorna sarebbe stato semplicemente messo a riposo il 3 settembre 1918, per «raggiunti limiti di età».

Il mistero invece avvolse il carteggio Badoglio. Come abbiamo detto, nella rosa dei generali sui quali erano confluiti tanti indizi di colpevolezza, c'era anche Badoglio. Sulla sua figura, la Commissione Parlamentare d'inchiesta aveva scritto qualcosa come 13 (tredici) pagine. Ma in quel frangente, dove l'intero Paese stava sostenendo il sacrificio del proprio esercito che si stava eroicamente dissanguando per salvare la Patria, nessuno se la sentì di coinvolgere uno dei tre generali che lo guidavano. Badoglio era nato con la camicia. Il Presidente del Consiglio ordinò che quelle tredici pagine venissero non «stralciate», ma «stracciate». Non sarebbero mai state trovate.
Nell'agosto del 1960 l'onorevole Paratore, che all'epoca di Caporetto era collaboratore di Orlando, pubblicò un articolo nel quale riferiva che Orlando in persona aveva ordinato all'onorevole Raimondo, relatore della Commissione, di togliere quelle pagine.


Gli schieramenti in campo al momento della prima battaglia d'arresto.

Nella giornata del 9 novembre, tutte le forze superstiti italiane avevano raggiunto la sponda destra del Piave. Il comando austriaco aveva deciso di proseguire ulteriormente l'offensiva, fino alla totale distruzione delle forze italiane. La battaglia d'arresto si sviluppo in due fasi, dal 10 al 26 novembre e poi dal 4 al 30 dicembre 1917.



Le forze austro-ungariche erano così schierate*.

Gruppo del maresciallo Conrad.
10ª Armata, dallo Stelvio all'Astico: 3 divisioni, di cui 1 di riserva.
11ª Armata, dall'Astico alla Val del Brenta: 14 divisioni, di cui 9 di riserva.

Gruppo del maresciallo von Below
14ª Armata, dalla Val del Brenta a Ponte della Priula, 17 divisioni, di cui 2 di riserva.

Gruppo del maresciallo Boroevich.
5ª Armata, da Ponte della Priula al Mare: 19 divisioni, di cui 4 di riserva.

Complessivamente si trattava di 53 divisioni, di cui 33 destinate all'attacco dall'Astico al mare, e 4.000 bocche da fuoco di vari calibri.

Le forze italiane a disposizione di Diaz, Giardino e Badoglio, erano state così schierate da Cadorna*.

Le forze italiane a disposizione di Diaz, Giardino e Badoglio, erano state così schierate da Cadorna.

7ª Armata, dallo Stelvio al Garda: 2 divisioni.
1ª Armata, dal Garda alla Val del Brenta: 12 divisioni.
4ª Armata, dalla Valle del Brenta a Ponterobba: 7 divisioni.
3ª Armata, da Palazzon al mare: 8 divisioni.
3 Divisioni britanniche e 2 francesi di riserva.

Complessivamente si trattava di 34 divisioni, delle quali solo le 29 italiane destinate alla prima linea di difesa, con meno di 3.000 pezzi d'artiglieria di vario calibro. Come si vede, la Seconda Armata era stata sciolta e la Quinta mai più ricostituita. La 6ª Armata era in fase di costituzione, messa insieme con i resti della 2ª Armata.

Il guaio sostanziale per l'Italia era che il suo comando supremo in quel momento non aveva rimpiazzi. Le 5 divisioni britanniche e francesi erano lontane a costituire un'eventuale nuova linea di difesa.
Erano stati chiamati alle armi i «ragazzi del '99», ma non sarebbero stati disponibili per la battaglia d'arresto. Tradotto in termini pratici, o il fronte teneva, o la guerra era persa.
Noi parleremo adesso delle due sponde del Piave, ma in realtà la linea andava dallo Stelvio al mare Adriatico.

(* I dati possono essere imprecisi perché estrapolati da informazioni di varia natura.)


Sponda sinistra del Piave, 9 novembre 1917.

L'avanzata degli Austro Tedeschi dal Tagliamento fino al Piave non diede luogo a combattimenti di particolare importanza. Ogni fiume fu utile per opporre un po' di resistenza da parte degli italiani, come ad esempio la Livenza, ma tutto proseguì senza problemi. Lo sfondamento era avvenuto il 24 ottobre, e il 9 erano arrivati al Piave, qualcosa come 100 chilometri in linea d'aria, compiuti miracolosamente tra mille difficoltà in mezzo al fango e alla pioggia, senza mezzi di trasporto e con poco o niente da mangiare, senza riposo e senza igiene, sorretti solo dall'esaltazione che il sapore della vittoria riesce a dare.

Quando la 14ª Armata di von Below e le due Armate di Boroevich giunsero al Piave, Conrad era pronto per attaccare dagli altopiani di Asiago. I tre si raccolsero per coordinare l'assalto finale, la cui vittoria sembrava certa, che si sarebbe svolto in tre punti principali: gli Altipiani, il Massiccio del Grappa e il basso Piave fino al mare.
Quando i comandi ordinarono alle truppe di fermarsi, queste non ne compresero la ragione perché, se per gli Italiani il cedimento del fronte aveva significato la sconfitta, per gli Austro tedeschi lo sfondamento del fronte aveva significato la vittoria. Ma questa non si vedeva ancora e volevano avanzare prima di perdere lo slancio.
Per gli esperti di arte militare, al contrario, l'attacco «finale» era stato un po' troppo precipitoso. Fatto è che per i Tedeschi, come abbiamo visto, l'«avventura» in Italia era solo una seconda via per arrivare in Francia dalla Liguria. Ma, giunti al Piave, si trovarono costretti a segnare il passo, dissolvendo così i vantaggi della più grande vittoria della Grande Guerra in una farragine di piccoli scontri.

Quando giunsero al Piave, nessuno aveva iniziato a costruirvi una linea trincerata, perché doveva essere solo una posizione di partenza per l'attacco successivo. Avevano costruito solo una piccola linea difensiva provvisoria con reticolari e con sacchi di sabbia, che la piena del Piave (la prima di una lunga serie) portò via senza problemi.
Scrive Fritz Weber, nel suo famoso «Tappe della disfatta, che una sera le loro batterie spararono colpi di cannone sugli Italiani al di là del fiume solo perché quei bastardi «cantavano». Un coro vero e proprio formato da centinaia di persone aveva intonato canzoni di guerra. Quelli erano bel lontani dall'idea di aver perso la guerra, pensavano. Invece, noi sappiamo che quella notte cantavano solo per coprire il rumore dei lavori fatti per rinforzare le difese.
«Ogni metro di filo spinato - aveva annotato Weber, una volta capito il trucco - equivale a un morto per noi.»

Gli austro ungarici vedevano alzare i palloni frenati italiani al di là del Piave per gli osservatori della loro artiglieria. Un lavoro terribile quello delle vedette italiane. Se arrivava una cannonata o vedevano avvicinarsi un aereo nemico, ne dovevano dare notizia col telefono per poi gettarsi con il paracadute. Il paracadute del 1917 sia ben chiaro, non di quelli che si usano oggi… (Nell'immagine qui sopra, un'incredibile foto dell'epoca)
Gli austriaci non avevano mezzi di osservazione del genere. Ma avevano ancora parecchi aerei.


Sponda destra del Piave, 9 novembre 1917.

Sugli Altipiani, gli Italiani occupavano il «saliente della Val Frenzela», che rappresentava una punta avanzata nel territorio occupato dal nemico. A rigore di logica, il comando italiano avrebbe dovuto ritirare le truppe dalle «Melette» (così si chiamavano le cime del saliente) per ridurre la linea da difendere. Ma non vollero cederlo e ne sarebbe seguita una battaglia che ritardò comunque le operazioni di Conrad di oltre un mese.

Sul Grappa, gli Italiani avevano costruito, su ordine di Cadorna, delle fortificazioni «imprendibili». Ma perché il Grappa, secondo Cadorna, non avrebbe dovuto cedere a qualsiasi costo? Le ragioni sono due. Dagli Altipiani di Asiago, l'esperienza aveva insegnato che era difficile che Conrad riuscisse a sfondare. Impensabile anche che riuscisse a sboccare in pianura dalla valle del Brenta. Ma la montagna che separa il Piave dal Brenta è appunto il Grappa. Poiché la zona a monte dei due fiumi era occupata dal nemico, la sua discesa tra Conegliano e Bassano sarebbe stata inarrestabile se il Grappa fosse caduto nelle sue mani e, a quel punto, la linea difensiva si trovava costretta a indietreggiare fino al fiume Brenta.

Sul Piave, gli Italiani stavano lavorando alacremente da una settimana per trincerare la sponda destra del fiume. Il punto critico era il Montello, la lunga collina che sta tra Asolo e Monbtebelluna. Gli Austro Tedeschi potevano attraversare il Piave nel loro territorio poco più a monte e scendere sulla sponda destra fino ad arrivare al Montello, il quale rappresentava dunque una sorta di «piccolo monte Grappa». Il Montello è una collina piacevole, come tutte quelle site nella Pedemontana veneta, dotata di boscaglia non troppo fitta, popolata da selvaggina a piuma e disseminata di funghi prelibati. Sarebbe stata conquistata e difesa al coltello, corpo a corpo.
Dal Montello al mare, il Piave poteva essere attraversato solo gettando ponti improvvisati, mentre le Grave di Papadopoli (una zona dove il Piave si disperde in molti rivi fra le dune sabbiose) erano raggiungibili all'assalto, conquistando e difendendo grava per grava.
Infine Cortellazzo. Dove il Piave sfocia al mare, si trovano da una parte Caorle (in mano italiana) e dall'altra Cortellazzo (in mano austriaca). In quella zona e in quel periodo dell'anno, le zanzare erano più pericolose del nemico, per via dei molti canali e stagni di cui è disseminata la zona. La quale andava presidiata, anche se era impensabile che qualcuno prendesse una qualsiasi iniziativa.

Alla vigilia della battaglia decisiva, sul Piave ci sono dunque due eserciti trincerati a poche centinaia di metri l'uno dall'altro. Gli oltre 300.000 soldati austriaci vengono chiaramente sentiti dalle truppe italiane, perché si sono praticamente ubriacati grazie alle migliaia di ettolitri di vino che hanno trovato nel corso dell'avanzata. Era autunno, e il vino era appena stato prodotto e messo nelle cantine. Era l'unica cosa che avevano trovato in abbondanza in territorio occupato e che i comandi avevano lasciato distribuire generosamente.
Da parte italiana, il chiasso fatto dai soldati ubriachi era il segno più evidente che l'attacco sarebbe cominciato quell'alba.
Per riassumere, i combattimenti si sarebbero svolti sull'Altipiano dei Sette Comuni in Val Frenzela, sul Monte Grappa, sul Montello, sul Piave a Ponte della Priula e a San Donà e alle Grave di Papadopoli.

Guido de Mozzi