Storie di donne, letteratura di genere/ 16 – Di Luciana Grillo
Antonia Arslan, «Il Calendario dell’Avvento» – Una bimba di fronte a una porta finestra, oltre la quale c’è un firmamento di stelle e nebulose
Titolo: Il calendario dell'Avvento
Autrice: Arslan Antonia
Editore: Piemme 2013 (collana Piemme voci)
Pagine: 149, rilegato
Prezzo di copertina: € 15
Disponibile anche usato: € 7,50 su Libraccio.it
Antonia Arslan, professoressa di Letteratura Italiana e grande scrittrice, non ha prodotto soltanto romanzi e racconti, ma anche interessanti interventi su giornali e riviste.
Io, che sono una conservatrice di pagine scritte, ho ritrovato alcune interviste che mi sembrano illuminanti per capire la sua personalità.
In un’intervista rilasciata al quotidiano Avvenire in occasione del Salone del Libro di Torino nel 2012, sembra che parli di una malattia:
È la libromania: se le mani non stringono un libro, la persona che ne è affetta è infelice.
Mai uscire di casa senza qualche cosa da leggere: può capitarti di dover aspettare e, se hai un libro, il tempo non è mai perduto.
Leggere dà gioia, malinconia, orrore, esaltazione…
Queste sono vere e proprie dichiarazioni d’amore alla lettura.
È dunque importantissimo per lei scrivere, leggere, ricordare, dare nuova vita a fatti lontani perché insegnino qualcosa a chi verrà dopo di noi.
Conoscere, anche a memoria, Dante e tanti altri autori; ricordare i libri sacri, quelli che per gli Armeni sono auspicio di buona fortuna.
Un libro sacro, quello di Mush, è stato salvato dalle donne armene, donne forti, donne istruite, donne che sapevano assumersi la responsabilità della casa, dei bambini e degli anziani, donne che sapevano di essere custodi dell’alfabeto, della lingua, delle tradizioni, dei ricordi, insomma di una sapienza antica che non c’è più.
E di donne ne incontriamo tante, anche nel suo ultimo lavoro, Il calendario dell’Avvento: c’è la spavalda mamma Vittoria, con lo chignon d’oro ben acconciato, bella e forte, che, quando era di buonumore, intonava «Je suis Carmen/ fille de bohémien…»; c’è la nonna Virginia, alta e solenne; ci sono le zie che sferruzzano senza fermarsi mai; c’è zia Agnese, dai capelli innaturalmente fiammeggianti e dall’andatura maestosa; c’è l’amatissima zia Henriette, che soffriva di mal di testa e amava il ricamo.
Poi incontriamo Rosa, la siciliana approdata in Armenia; le maestre Bampa 1 e Bampa 2; la signora Wanda che sapeva offrire una indimenticabile crema al cioccolato; la maestra di ballo Katerina, affascinante e vitalissima; la segretaria Febea, signorina molto alta e molto magra che Antonia da bambina, insieme ai suoi fratelli, paragonava alla matrigna delle favole; Suor Amabile, l’ ortolana che guardava con soggezione le suore-maestre.
Insieme alle donne, troviamo gli uomini di casa, i nonni, il papà, il dentista e un gran numero di parenti ed amici, in un’armoniosa intesa che fa sentire meno lontana la Patria.
La scrittrice, per metà armena e per metà italiana, figlia di una italiana nata a Lendinara – cittadina che i parenti armeni definivano scherzosamente «l’Atene del Polesine» – non dimentica le origini e le tradizioni, ma ama Venezia con trasporto commovente, e la descrive come dipingendo, «uno scrigno di misteri orientali».
E ricorda i giorni di festa in cui tutti i parenti si ritrovavano e la bella Vittoria li accoglieva come «una benevola regina italiana».
E sembra strano che, in un libro intitolato Il calendario dell’Avvento, siano presenti più Pasque che Natali, forse perché in primavera era più facile riunire l’intera famiglia, accogliere i parenti armeni che arrivavano da luoghi lontani.
Ma il Natale al quale si arriva partendo dal Calendario è un Natale speciale, un mosaico vivace, ora malinconico, ora birichino, fatto di 25 preziosi frammenti che, come tessere, raccontano storie di bambini o tragedie come l’incendio di Smirne.
Il primo Calendario l’autrice lo compra ad Amburgo, è un piccolo e povero calendario di cartone, con venticinque finestrelle.
Indica l’attesa che qualcosa si compia…
In questo vivace mosaico di temi e di affetti, Antonia Arslan inserisce i viaggi, reali o metaforici, e dunque parte da Amburgo, va a Mykonos, parla dell’ Anatolia, descrive la bella Smirne in fiamme, trascorre tre giorni nell’aristocratico collegio inglese di Eton e ci esprime la sua sorpresa nel trovarsi in un ambiente da «maghetto», scrive di New York, città alla quale dedica parecchie pagine perché vi si reca spesso, per visitare comunità armene.
Ma il tema dominante, come sempre per la Arslan, è la Famiglia, in seno alla quale nascono gioie e amarezze, piccole invidie, gelosie, tenerezze.
In un delicato racconto, ad esempio, l’io narrante non sa nascondere un po’ di gelosia nei confronti della sorellina che, ammalata, catalizza tutte le attenzioni della mamma.
Antonia Arslan confessa candidamente che seguiva la mamma con lo sguardo in ogni momento, che si arrabbiava perché non la accarezzava, così ci racconta che – da bambina birichina – architettò una vendetta, facendo marcire i limoni che mamma Vittoria coltivava con passione in una piccola serra.
E con la stessa determinazione, con un atteggiamento penetrante come un chiodo, cominciò a insistere per andare al cinema, finché – nonostante le preoccupazioni della zia Henriette che temeva cattivi incontri nel buio della sala – l’intera famiglia, zii, cugini e ospiti armeni, nel pomeriggio di una domenica, andò compatta al cinema, divertendosi tutti, ciascuno a suo modo, e trasformando le immagini sullo schermo in una scuola di vita.
Dei pranzi famigliari e festosi si è già detto, ma, per meglio comprendere lo spirito di questa straordinaria famiglia italo-armena, non si possono ignorare i versi scritti da un lontano parente «digiuno di versificazione e di buon italiano, ma con tanta passione e buona volontà», in occasione del matrimonio di sua figlia Ottavia.
Questo epitalamio veniva intonato da decenni, alla conclusione del pranzo, in ciascuna grande occasione che vedesse unita la famiglia: tutti i commensali, che ormai lo conoscevano a memoria, ne recitavano un paio di versi, – «fra scroscianti risate e singulti», aggiungendo un ultimo dissacrante distico: «Unite dunque le vostre vite / fando un’unica congiuntivite!»
Luciana Grillo