L’importanza di essere una donna, anche se si indossa la divisa
Lo diciamo per rispondere ai commenti (pochi in verità) di donne che hanno criticato le donne militari proprio l’8 marzo – L’esempio di Ilaria Grosso
Il nostro articolo dedicato all’8 marzo dando visibilità alle donne soldato dell’Esercito Italiano operative in Afghanistan (vedi) è stato come sempre lodato e criticato, soprattutto su Facebook dove appare evidente che i lettori si sentano maggiormente a proprio agio nell’esprimere la propria opinione.
Ci hanno però meravigliato le critiche di alcune donne rivolte a quelle ragazze perché indossavano la divisa.
Naturalmente ognuno ha diritto di esprimere la propria opinione, che noi rispettiamo in quanto tale. Però alcune parole desideriamo scriverle lo stesso per precisare alcuni aspetti.
Uno di questi riguarda la divisa di per sé. Anzitutto ciascuno ha diritto di fare il lavoro che preferisce o, come accade per i nostri ragazzi del Sud, il lavoro che riescono a trovare.
Ma fare il soldato non significa voler combattere e men che meno uccidere. Significa voler servire lo Stato come una qualsiasi altra branca della pubblica amministrazione, con la particolarità che la dotazione delle armi impone precise procedure da seguire e una maggiore disciplina nell'seguirle.
Immaginiamo che i contrari alle divise militari non abbiano nulla contro le divise delle Forze dell’ordine, dato che sono una colonna portante del vivere civile di ogni società. Senza Polizia, Carabinieri e Guardia di Finanza, il paese sarebbe in mano ai criminali.
La stessa cosa vale per i soldati. Lasciare che degli Stati canaglia possano perpetrare indisturbati crimini contro l’umanità, o genocidi come quelli che hanno devastato il Novecento, sarebbe da irresponsabili, E lasciare che siano altri stati a fare questo lavoro sarebbe da egoisti.
L’aspetto principale sta però nel fatto che le missioni di guerra o di pace non vengono mai decise dai militari, ma dal Paese civile in cui viviamo.
Possiamo non condividere le decisioni dello Stato Italiano, ma è il nostro Paese i cui governanti sono stati democraticamente eletti da noi.
Questo concetto va chiarito anche nei confronti del nostro giornale, dato che spesso ci rechiamo in teatri di guerra a documentare il lavoro dei nostri soldati e il livello di gradimento che riescono a nutrire presso la popolazione civile.
Non siamo stati in Afghanistan perché ci piace la guerra, ma perché volevamo sapere come si vive quando si sa che c’è qualcuno che farebbe il possibile per ucciderti.
E poi volevamo vedere come ci comportiamo quando portiamo una divisa all’estero.
Per fortuna i nostri soldati sono amati nel mondo perché insieme alle armi sbarchiamo sempre la cultura della pace. Insomma possiamo andarne fieri perché le nostre divise sono amate in qualsiasi posto in cui le mandiamo.
E ora veniamo alle nostre donne soldato.
La loro presenza nelle nostre Forze Armate è preziosa anzitutto per i nostri soldati. Il solo fatto che nelle unità operative ci siano delle donne, ha cambiato lo stesso modo di pensare, di vivere e di comportarsi dei colleghi uomini.
Le nostre donne in divisa per essere utili non dovrebbero fare altro che esserci, mescolarsi con i maschi, condividere le stesse problematiche, fare il proprio lavoro. La loro presenza fa mantenere presso i soldati il senso reale e la natura originale delle proprie missioni.
Molti episodi deprecabili commessi in passato da soldati sono accaduti perché tra loro non c’era la figura femminile. Ma non perché le donne lo avrebbero fisicamente impedito, ma per la semplice ragione che «quando c’è una donna, certe cose non si fanno, punto e basta».
Insomma, l’ambiente militare non può essere solo maschile.
In Afghanistan, poi, le donne hanno un ruolo fondamentale nei contatti con la popolazione locale.
I soldati uomini non sono ben visti nei villaggi, dove – ragione o torto – i giovani temono che siano interessati alle loro donne. Quindi il medico deve essere maschio per gli uomini, femmina per le donne.
Ma questo vale anche per le altre opportunità di crescita. La donna in Afghanistan vale meno, e il vedere donne italiane inserite in una medesima struttura militare dà il senso delle possibilità di integrazione.
È ben vero che hanno diritto di vivere come credono meglio, ma non si può assistere indifferenti al degrado femminile che nel nostro Paese non esisteva neanche mille anni fa.
Quanto agli atti di eroismo, le donne non sono seconde a nessuno. Anzi, se facciamo le proporzioni in termini percentuali, sicuramente le donne soldato battono gli uomini.
Per eroismo, nelle missioni di pace non si intendono azioni di combattimento. Anche quelle, ovviamente, ma quando si rischia la vita per la semplice ragione che si sta facendo il proprio dovere, si merita quantomeno il trattamento di merito che spetta ai lavoratori civili della Pubblica amministrazione.
Vogliamo ricordare un episodio eroico di una donna che abbiamo conosciuto personalmente. Abbiamo già parlato di lei (vedi servizio), ma forse è bene segnalarla in questa sede.
Il maggiore medico Ilaria Grosso si trovava nell’avamposto ICE (Gulistan), quando questo venne attaccato con colpi di mortaio. Dei ragazzi rimasero feriti gravemente e la dottoressa corse in loro aiuto mentre cadevano le bombe.
Inutilmente chiamarono la dottoressa per farla rientrare nei bunker di riparo.
«Questo è il mio lavoro! – Rispose. – E io resterò con i feriti finché ne avranno bisogno.»
Uno di quei ragazzi purtroppo morì, ma gli altri furono salvati.
Ilaria Grosso la vediamo nella foto sotto il titolo, in caserma e senza divisa: la indossa solo quando è di servizio.
Sì, certamente si sarebbe comportato così anche un medico uomo: la divisa ti fa fare questo e altro. Ma resta il fatto che questo lo ha fatto una donna.
E non è una cosa da poco; si provi a pensare che quando si è feriti e si sente la vita che sfugge, si invoca istintivamente la mamma.
«Una figura femminile è già una mamma… Con o senza divisa.»
Guido de Mozzi