Italia partner privilegiato anche dopo la «Primavera araba»
Distribuiti in 620 aziende, vi lavorano 40mila connazionali: 30% in Tunisia, 18% Algeria, 16% Egitto, 15% Marocco
Gli investimenti italiani nella sponda Sud del Mediterraneo sono
solidi e, nonostante l'instabilità dovuta alla cosiddetta
«primavera araba», è probabile che la situazione economica
nell'area sarà soggetta ad una crescita continua ed elevata.
I problemi, invece, sono principalmente causati dalla
frammentazione dell'Unione europea, che non è stata in grado di
affrontare le rivolte - appoggiando un forte incentivo alle riforme
- prediligendo spesso una politica internazionale incentrata sui
rapporti bilaterali tra gli Stati piuttosto che sulla
partecipazione estesa.
Questi, in breve, i concetti più significativi che sono emersi nel
corso dell'incontro patrocinato dal Gruppo economisti d'impresa
(Gei) in collaborazione con l'Istituto per gli studi di politica
internazionale presso la Sala di Palazzo Calepini.
Un convegno, moderato dal giornalista del "Sole 24 ore" Ugo
Tramballi, intitolato La sponda Sud del Mediterraneo e l'economia
italiana: quale futuro?».
A introdurre l'argomento di grande attualità, Gianpaolo Vitali,
docente di economia applicata dell'Università di Torino. Sono poi
intervenuti anche Giorgia Giovannetti, professoressa di economia
presso l'Università di Firenze e all'European University Institute,
Gregorio De Felice, presidente dell'Associazione italiana degli
analisti finanziari (Aiaf), e Paolo Magri, direttore dell'Istituto
per gli studi di politica internazionale di Milano (Ispi).
Ad oggi, sebbene la crescente instabilità nei Paesi arabi abbia
inciso anche sul mercato internazionale, la situazione sembra
essere economicamente propizia e, a detta di Vitali, «risulta
essere vantaggiosa in modo particolare per l'Italia, che beneficia
della sua posizione strategica e di una politica di scambio
consolidata da tempo».
Secondo i dati riportati, infatti, a fine 2008 erano circa 620 le
imprese nazionali con investimenti diretti negli Stati della zona
«Mena - Middle East and North Africa» (un acronimo diffuso a
livello accademico per indicare le zone mediorientali e quelle
nordafricane).
Uno scenario che, complessivamente, vede impegnati circa 40mila
connazionali - con interessi localizzati soprattutto in Tunisia
(30% del totale), in Algeria (18%), in Egitto (16%) e in Marocco
(15%) - nei settori del tessile e dell'abbigliamento (per un terzo
del totale), nelle costruzioni di opere pubbliche, nell'elettronica
e in ambito estrattivo.
«In genere - ha precisato Vitali - siamo presenti nei settori
complementari alla produzione, oppure di rilievo per l'economia
locale.»
«I Paesi Arabi - ha chiarito Giovanetti, - si trovano in territorio
dove è possibile reperire diverse materie prime necessarie
all'Italia (in particolar modo, petrolio e gas naturale), mentre la
richiesta di prodotti lavorati risulta molto alta.»
Per tale ragione, e in considerazione che la crescita media
dell'area «Mena» è pari al 4% annuo, i commerci sono stabili: dal
nostro Paese arrivano prodotti meccanici e chimici, oltre ad
alimentari e mobili, mentre in cambio riceviamo impiego di
manodopera nelle costruzioni e idrocarburi.
«Il settore con più investimenti - ha aggiunto Giovannetti - è
quello della meccanica, che si aggira introno ai 40miliardi di
euro. In generale, anche in relazione alla popolazione giovane ed
in continua crescita, si può dire che i benefici per il mercato
sono maggiori dei rischi.»
Ma se il futuro economico appare roseo, la situazione politica
sembrerebbe critica.
«L'Unione europea - ha illustrato De Felice - procede in modo
disunito, spesso si ricorre ad accordi bilaterali e L'Unione per il
Mediterraneo voluta dal presidente francese Nicolas Sarkozy ha
ottenuto pochi risultati. Servirebbe un'alleanza costruttiva tra
Italia, Francia e Spagna per contrastare gli interessi cinesi e
statunitensi nell'area.»
Difficile, infine, anche la condizione sociale, come ha rilevato
Magri.
«Ci siamo sempre approcciati in modo ipocrita nei confronti dei
Paesi arabi - ha detto - chiudendo gli occhi sui governi
autocratici e approfittando delle opportunità offerte dai loro
mercati. Ora, nel momento in cui la Libia viene bombardata, si
parla di aiuti: i fondi però provengono da alcune banche che
solitamente investono in infrastrutture, mentre sarebbero necessari
interventi per far fronte all'enorme disoccupazione giovanile e in
favore della formazione di figure professionali.»