Vivere e competere nella società del quaternario

«Basta piangersi addosso: La precarietà migliora la vita. Il problema è meramente di natura psicologica. Ognuno di noi, grazie alla precarietà, può divenire imprenditore di se stesso»

Il mondo del lavoro tradizionale non c'è più, mentre avanza l'economia del «quaternario».
Siamo entrati nella società della piena disoccupazione dominata da servizi innovativi e ad alto valore aggiunto, nella quale tramonta la cultura del lavoro salariato. Anche se il fenomeno spaventa e scalda gli animi, tra sinistra antagonista e destra sociale, con i nuovi meccanismi di produzione del quaternario il lavoro resterà necessariamente flessibile e volatile. Per la politica la sfida è complessa e ineludibile. Solo le comunità capaci di adattarsi ai cambiamenti, anche rivoluzionando l'organizzazione dello stato sociale riusciranno ad ottenere benefici dall'avvento della società dei servizi personalizzati. Per quei Paesi che si riveleranno incapaci di governare il mutamento, il declino è ormai dietro l'angolo.

Questa in sintesi la tesi di fondo di «Piena disoccupazione», saggio edito da Einaudi Editore e scritto da Massimo Gaggi, inviato del Corriere della Sera con base a New York ed Edoardo Narduzzi, docente di Economia dei mercati e degli intermediari finanziari all'Università Bocconi.
«Il concetto da capire - dichiara Gaggi - è questo: la cultura del rischio porta a nuove opportunità. Nell'economia del quaternario, ossia quella dei servizi che in America interessa l'80% delle persone, il modo di lavorare cambia, tutto diventa più frammentario, la creatività assume un ruolo fondamentale. Diventa quindi difficile ingabbiare questi aspetti in un contratto ma questo non vuol dire che sia un male.»
«Sconfiggere la precarietà non è un obiettivo realistico - incalza il moderatore del dibattito Roberto Ippolito, direttore relazioni esterne dell'Università LUISS - questo dato di fatto quanta paura sta generando?»

A rispondere è Antonio Schizzerotto professore di sociologia all'Università degli Studi di Trento.
«Stabilirlo è difficile anche perché si stanno sviluppando meccanismi di adattamento. Il problema vero che emerge è fino a che punto nell'economia sia mutato il processo di individualizzazione del corso della vita, di rottura dei legami. Bisognerebbe misurare con un po' più di accuratezza la questione, cosa stia succedendo. La Germania - controbatte Schizzerotto agli autori del libro - è un modello industriale ed in questo momento è l'elemento trainante dell'economia europea. Il mondo manifatturiero non deve quindi considerarsi finito.»

Chiamato ad esaminare il cambiamento delle regole del lavoro, preso in esame da «Piena disoccupazione», Michel Martone, docente di diritto del lavoro all'università LUISS.
«Il libro di Gaggi e Narduzzi mi fa paura - afferma - perché ci porta al mondo del quaternario in un momento in cui lo Stato si trova a parlare ancora dell'articolo 18. Che significa questo? Che l'economia industriale è ferma, che il sistema di regole è vecchio, che il sindacato ha un peso eccessivo ma soprattutto che lo Stato non è in grado di tenere il passo con l'evoluzione del mercato". L'obiettivo del futuro, secondo Gaggi, sta nel costruire nuovi strumenti di tutela affinché ognuno di noi possa divenire imprenditore di se stesso.

La discussione è andata poi a toccare i temi del capitale e del lavoro.
«Il capitale - sostiene Narduzzi - è il grande vincitore perché ha saputo adattarsi al progresso tecnico, è divenuto un capitale che può facilmente allocarsi, muoversi. Il capitale insomma ha eliminato alle persone il rischio di rimanere vincolato ad un tipo di occupazione per decenni.»
Non così bene, a quanto dice il professore, è andato al lavoro. Quest'ultimo, che deriva dalla cultura della manifattura, dai contratti, ha avuto più difficoltà e oggi ne subisce gli effetti sulla precarietà. L'interrogativo cruciale diventa quindi come aumentare la produttività della conoscenza. Ma questo necessità di cambiamenti continui.

A tenere banco ancora i giovani.
«I ventenni hanno aspettative di vita minori rispetto a quelle dei loro genitori. Una disillusione - afferma Schizzerotto - portata dalle peculiari riforme sul mercato del lavoro. Indagini sistematiche su larga scala circa gli effetti della globalizzazione indicano che a pagarne il conto sono i giovani.» Controbattendo alla tesi dei due autori il docente di sociologia si domanda se i giovani siano i più istruiti perché la conoscenza non riesce a sconfiggere la precarietà.
«Secondo me - risponde - l'economia della conoscenza non è tutta conoscenza. Le parti più importanti dell'economia dei servizi a mio avviso non necessitano di conoscenze specialistiche e questo punto deve far pensare.»

Ma in sostanza, chiede Ippolito, i figli stanno meglio o peggio dei loro genitori?
«I figli si ritrovano sulle spalle il terzo debito pubblico del mondo - spiega Martone - e devono fare i conti con uno dei sistemi economici più complicati in assoluto. In più a complicare il tutto ci si mettono problematiche nuove che richiedono soluzioni nuove. Qualche esempio? Più fantasia è più capacità di rischiare in un mercato sempre più globale. Il vero dramma - prosegue Martone - è che l'Italia ha sempre subito il cambiamento invece che cavalcarlo. E' arrivato il tempo di attivare un mutamento culturale. Solo in questo modo il nostro Paese ritornerà a crescere, solo così si potrà sviluppare positivamente il mercato del quaternario.»

Un'altra soluzione suggerita da Gaggi potrebbe riguardare il welfare.
«La tutela del mercato del lavoro - commenta - che non riguarda più la certezza del posto di lavoro, dovrà essere di tipo assicurativo. La vera sfida del futuro riguarderà però la redistribuzione del reddito tra tutti. La precarietà altro non è che un sistema che non produce ricchezza, che non è in grado di dare tutele ai giovani.»

«A mio modo di vedere, - conclude Schizzerotto, - la formula da applicare dovrebbe essere la seguente: "Situazioni di mercati di lavoro ampliamente flessibili con la necessità di dare garanzia di sicurezza sociale".»