Gambaro e la pubblicità: i segreti di un mercato potente...

«Gli inserzionisti premiano le reti maggiori perché raggiungono prima il loro target, anche se così penalizzano i quotidiani»



Vista con un po' di fastidio da parte degli spettatori e fonte di tormentoni e modi di dire, la pubblicità pervade la nostra vita con effetti rilevanti sui consumatori e sull'economia delle imprese.

La pubblicità è stata al centro di «Parola chiave», l'incontro nell'ambito del Festival dell'Economia di Trento che si è svolto alla sala conferenze della Facoltà di Economia.

A raccontare i segreti di un mercato che sta sotto gli occhi di tutti, ma che sfugge alla comprensione di molti, è stato Marco Gambaro, docente di Economia della comunicazione al dipartimento di Scienze Economiche Aziendali e Statistiche dell'Università Statale di Milano.

A dialogare con lui anche Edoardo Gaffeo, ricercatore di Politica economica all'Università degli Studi di Trento.
«La pubblicità è pervasiva nella nostra vita - spiega Marco Gambaro. - È importante che il mercato della pubblicità funzioni bene, perché questo influenza non soltanto i mass media ma anche il mercato dei beni, aumentando ad esempio i prezzi dei prodotti.
«Pubblicità e mass media sono infatti parte dello stesso mercato. I mass media producono e offrono qualcosa da vendere, i contatti pubblicitari (ascolti e lettori, attenzione in una parola), interessanti per le aziende "utenti" che le vogliono comprare. I media dunque sono il lato dell'offerta, mentre le aziende quello della domanda.
«In Italia gli investimenti pubblicitari ammontano a 7.924 milioni di euro con una quota preponderante delle televisioni (56,4% della raccolta totale) e dei quotidiani (16,4%). In gran parte dei Paesi europei la pubblicità nella tv di Stato è fortemente limitata.
«Questo non avviene nel nostro Paese. In presenza di un mercato con pochi operatori e bassa concorrenza, il prezzo della pubblicità aumenta e consente agli italiani di pagare un canone più basso per la fruizione della tv e avere più risorse per offrire programmi televisivi più ricchi.»

Quello della pubblicità è dunque un mercato istituzionalmente complesso in cui agiscono molti attori.
Oltre ai media e alle aziende esistono altri soggetti: le società concessionarie, che si occupano della raccolta e le società di comunicazione che invece elaborano le strategie pubblicitarie, acquistare e pianificare gli spazi.

«La domanda di pubblicità - commenta Gambaro - dipende dall'andamento del mercato. È una scelta "derivata" dalla concorrenza e dalla situazione economica globale. Il mercato della pubblicità si basa su delle convenzioni: quando acquisto uno spazio pubblicitario in anticipo di qualche mese, faccio una scommessa su quanto ascolto/lettori avrà quel media.
«Difficile è però stimare, ad esempio, il grado di attenzione dei lettori dei giornali o l'ascolto televisivo. Una volta appurato che i media producono e vendono attenzione, va capito se questi contatti sono tra di loro indifferenziati, oppure alcuni valgono di più e altri di meno. In linea di massima, i contatti relativi a chi ha più disponibilità economica tendono a valere di più. È quindi importante capire chi sono questi contatti».

«Per misurarne l'intensità si può prendere a riferimento i consumi interni di un Paese. In Italia la pubblicità pesa sui consumi interni pesa circa per l'1% (0,88% nel 2009). E su questo c'è stata negli ultimi anni una certa convergenza nei Paesi europei.
«Nel nostro Paese, rispetto agli altri Paesi, la pubblicità con maggiore intensità è quella riferita ai settori dei soft drinks, degli alcolici (perché da noi ci sono meno vincoli), dell'automotive (soprattutto per via degli incentivi) e dell'abbigliamento (le marche da noi sono di più e hanno più peso), mentre ve ne è meno nel campo dell'editoria (e in generale i prodotti culturali), delle banche, della distribuzione e delle assicurazioni. In questi ultimi settori, più "protetti" la pubblicità cala perché vi è meno concorrenza. Nell'editoria, la minore intensità è dovuta al minore mercato di questi prodotti.»

In base agli ultimi dati disponibili la domanda di pubblicità in Italia si indirizza soprattutto verso il mezzo televisivo con pochi grandi investitori e verso i quotidiani e periodici, dove invece gli investitori sono più piccoli e investono meno, ma sono molti di più.

«Ecco perché la televisione è più a rischio nel caso in cui un suo investitore decida di smettere di investire in pubblicità - spiega Gambaro. - In più, storicamente, un'ora di attenzione del fruitore pesa di più sui quotidiani che sugli altri media. In televisione i contatti (i punti di share) non pesano allo stesso modo. Le reti Mediaset vendono la pubblicità a un costo maggiore (nel 2008 la quota era del 55'%) rispetto alla Rai (28,1%).
«La Rai in questo è penalizzata dal limite imposto alla raccolta pubblicitaria e ad un target composto da un pubblico più anziano e meno ricco. Anche le reti più piccole soffrono di questo meccanismo. Nonostante il pubblico selezionato e commercialmente interessante di Sky, ad esempio, la frammentazione della pubblicità su quelle reti non paga.
«Il prezzo degli spazi pubblicitari varia molto (da cliente e cliente, da un mezzo all'altro) e per questo non costituisce una misura attendibile dell'andamento del mercato. Il costo della pubblicità dipende infatti dalla qualità del contatto. Se, ad esempio, voglio raggiungere i giovani dai 14 ai 24 anni facendo pubblicità sulla RAI pagherò il doppio rispetto a quanto potrei spendere facendola su Mediaset e almeno dieci volte di più rispetto al farla sulla radio».

Gli inserzionisti dunque preferiscono investire sui programmi più seguiti e raggiungere così più in fretta il loro target.
Le televisioni maggiori (Rai e Mediaset) sono anche agevolate dai bassi costi di vendita della pubblicità (la rete dei venditori), che invece pesano molto su radio, periodici, e tv minori.

Questo spiega perché sia tanto difficile far entrare nuovi grandi soggetti nel mercato televisivo. Ma la situazione non va molto bene neanche nel mercato pubblicitario dei quotidiani italiani, che soffrono rispetto alle testate degli altri paesi.
Innanzitutto perché vendono meno copie e perché trascurano la pubblicità locale che invece all'estero raccoglie molto bene. E questo può generare pericolosi meccanismi di commistione nascosta con la pubblicità per tentare di aumentare gli introiti.

«Ed è proprio quando la pubblicità influenza l'informazione che arrivano i rischi per i cittadini. Questo avviene ad esempio anche su internet, dove la libertà di espressione trasforma i confini tra comunicazione commerciale e informativa e favorisce una confusione, a volte pericolosa, tra messaggio pubblicitario e notizia.
«È il caso dei blog dove dietro ad alcuni utenti si nascondono le aziende che veicolano in modo indiretto ma molto efficace la loro pubblicità. Per internet una regolamentazione è difficile, ma sui media tradizionali qualcosa si può fare.
«Per tentare di regolamentare il settore si può intervenire ad esempio sulla domanda (ad esempio mettendo limitazioni nei contenuti) oppure sull'offerta (come le limitazioni alla raccolta commerciale in tv)».