Franco D’Andrea, un mito del Jazz – Di Sandra Matuella
«Nel jazz ogni musicista è libero di scegliere quello che più lo rappresenta... Con tutto il rispetto per la musica scritta che invece è sostanzialmente definitiva»
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L’atteso Franco D’Andrea Sextet suona oggi alle 21, nel rinnovato Teatro Zandonai di Rovereto, per la Rassegna Jazz 2014-2015, allestita dal Centro Servizi Culturali Santa Chiara.
Nato dalla fusione dello storico quartetto di D’Andrea con Andrea Ayassot, Aldo Mella e Zeno De Rossi e dal recente trio, con Daniele D’Agaro e Mauro Ottolini, il sestetto è l’attuale formazione con cui suona stabilmente il grande pianista altoatesino.
Nell’estate del 2011 il raffinato Lagarina Jazz Festival diretto da Giuseppe Segala, ebbe l’onore di tenere a battesimo questo nuovo progetto musicale di Franco D’Andrea, emblematico del suo straordinario percorso artistico.
Fu una serata particolarmente intensa ed ispirata sia per i musicisti che per il pubblico, formato da tanti appassionati di jazz accorsi da tutta la regione e oltre per quell’inedito evento, pubblicato interamente nel cd «Traditions and Clusters» del 2012, nel quale si trovano pure alcuni estratti delle esibizioni di Trento, agli Itinerari Jazz.
Originario di Merano e cittadino del mondo in qualità di musicista cosmopolita, nel 2011 Franco D’Andrea festeggiò i suoi primi settant’anni con il prestigioso riconoscimento di miglior musicista in Europa, attribuitogli dalla severa ed iperselettiva Accademie du Jazz de France.
Nel 2008, un’istituzione altrettanto balsonata come la Biennale Musica di Venezia diretta da Luca Francesconi è dedicata al tema «Radici-Futuro» della musica del Novecento: tra queste radici che guardano avanti c’era anche la musica jazz, rappresentata proprio da Franco D’Andrea, in trio con il percussionista indiano Trilok Gurtu e Fabrizio Bosso alla tromba.
E per D’Andrea fu l’ennesimo successo di pubblico e di critica.
Così, a L’Adigetto.it, Franco D’Andrea, pianista culto della scena internazionale, parla della sua incondizionata passione per il jazz, sempre aperta però alle più diverse esperienze musicali che hanno via via arricchito il suo linguaggio musicale.
«Nel jazz non esiste un suono ideale e ogni musicista è libero di scegliere quello che più lo rappresenta: per un jazzista il suono è qualcosa di personale e quando ti dicono che hai un suono inconfondibile, è il massimo complimento che ti possono fare.
«Tutto questo mi sembra molto naturale rispetto, ad esempio, alla musica scritta che, invece, è sostanzialmente definitiva.
«E poi il jazz è una musica sociale, basata sull’ascolto collettivo e sull’improvvisazione individuale in cui ci si può esprimere pienamente. Il jazz è una filosofia di vita prima ancora che di musica.»
Il jazz è la musica dei suoi sogni?
«Sì, il mio cuore è stato rapito dal jazz, me ne sono innamorato e gli sono sempre stato fedele anche nei periodi in cui mi stava un po’ stretto e uscivo dal seminato.»
D’altra parte è stato invitato ad un festival di avanguardia come la Biennale anche per la sensibilità contemporanea votata alla sperimentazione che connota il suo jazz.
«Il jazz è la mia casa, dove vivo e dove ho sempre riportato le esperienze musicali più diverse: negli anni Sessanta, ad esempio, ascoltavo i compositori appartenenti alla scuola di Darmstadt come Stockhausen e Pierre Boulez, partendo da Schőnberg e la sua rivoluzione armonica con la dodecafonia: era roba durissima e non ho digerito tutta la loro musica, ma gli ho studiati cercando delle risposte adatte alla mia musica.
«La stessa cosa avvenne negli anni Ottanta, quando ebbi una folgorazione per la musica africana: era certo una cosa ovvia, visto che sta alla base del jazz, però il fatto di aver suonato con dei musicisti africani ed essere entrato nel vivo delle poliritmie, cambiò profondamente il mio modo di suonare.»
Sandra Matuella – [email protected]