Gli incontri del giovedì: 17 novembre 2016 – Di Daniela Larentis
Jacopo Gutterer, Gian Luca Dal Rì e Marco Meneghini, a Mezzolombardo parleranno di storiografia degli Eruli, canipe e ipogei in Val di Non e di necropoli di Farra
Jacopo Gutterer, Gian Luca Dal Rì e Marco Meneghini.
Il ciclo di serate predisposte dall’Associazione Castelli del Trentino, denominato «Gli incontri del giovedì», organizzato dal presidente Bruno Kaisermann e dal vicepresidente, il giornalista, storico e critico d’arte Pietro Marsilli, prosegue con l’appuntamento di giovedì prossimo, presso la Sala Civica di Mezzolombardo, Corso del Popolo 17.
Il 17 novembre alle 20.30 si parlerà infatti di storiografia degli Eruli, canipe e ipogei in Val di Non e di necropoli tardo antica altomedievale di Farra d’Udine, rispettivamente con Jacopo Gutterer, Gian Luca Dal Rì e Marco Meneghini.
Abbiamo avuto occasione di porgere ai tre neolaureati in materie storiche alcune domande sull’importante lavoro svolto e che verrà da loro presentato fra pochi giorni a Mezzolombardo.
Gutterer - British Museum - Mosaic pavement.
La tesi di laurea di Jacopo Gutterer si è sviluppata sul riscontro nelle fonti scritte dell’attività di un gruppo barbarico minore: gli Eruli.
Lei ha conseguito una laurea in studi storici e filologico letterari presso l’Università di Trento: quando si è avvicinato per la prima volta allo studio della tarda Antichità e allo studio dei gruppi germanici? Quando è nato questo interesse?
«Non è sempre chiaro per quale ragione ci si appassiona a un argomento. Il mio interesse è nato durante le lezioni sull’alto Medioevo tenute dal professore Giuseppe Albertoni, in seguito mio relatore di tesi. Si trattò di lezioni che oltre a una forte impronta storica contenevano una visione dell’argomento più legata alla sociologia e ai metodi della ricerca che aprivano nuove prospettive per lo studio del passaggio da Antichità a Medioevo.»
Ci può descrivere brevemente il processo che ha portato alla redazione finale della sua tesi di laurea?
«Una tesi di laurea inizia quasi sempre da una rassegna del materiale presente. Nel mio caso si trattò di cercare meticolosamente ogni presenza del soggetto di tesi nelle fonti latine. Questa scelta fu dovuta al fatto che gli altri contributi in materia erano pochi e poco accurati. Seguì poi l’organizzazione del materiale, la traduzione, il commento, e infine il confronto con le moderne teorie sui gruppi dell’alto Medioevo.»
La tesi, dal titolo «Gli Eruli. Profilo storiografico e confronto con le fonti storico-narrative», si sviluppa sul riscontro nelle fonti scritte dell’attività degli Eruli: chi erano? Cosa hanno fatto, e in che fonti compaiono?
«Gli Eruli sono un soggetto difficile da descrivere. Nelle fonti compaiono solitamente come gruppi armati, spesso ausiliari degli eserciti romani.
«Dal momento che non avevano contatti frequenti con l’Imperium romano, gli autori antichi non si curarono di descriverli nei dettagli, e la loro presenza ai margini del mondo antico è appena accennata.
«Sappiamo con relativa certezza che nel III secolo parte di loro venne arruolata negli eserciti imperiali, ma di questa unità militare si perdono presto le tracce.
«Le notizie degli Eruli si fanno più dense nel periodo successivo alle spedizioni di Attila contro la parte occidentale dell’Impero romano: partecipano alle imprese della confederazione degli Unni - così come quasi tutti i gruppi barbarici minori - e successivamente contribuiscono alla sua fine.
«Con il crollo della confederazione degli Unni dopo la metà del V secolo, si formarono alcuni regni barbarici sul medio corso del Danubio, a diretto contatto con la frontiera romana. Nella pianura pannonica gli Eruli si insediarono, e instaurarono rapporti più o meno pacifici con gli imperatori di Costantinopoli.»
«In questa sede, come alleati dell’impero vengono reclutati per combattere soprattutto negli eserciti misti dei generali Belisario e Narsete. Si trovano sia come alleati-mercenari per l’Impero, che come gruppo stanziato ai margini dell’Impero stesso, in competizione con altre formazioni di guerrieri estremamente agguerrite: i vicini Longobardi riusciranno infatti a espellerli dal loro territorio in Pannonia.
«Da quel momento inizia una collaborazione sempre più stretta con le amministrazioni romane, e, allo stesso tempo, un periodo di divisioni tra fazioni interne.
«Uno sfortunato tentativo di ammutinamento per liberarsi dalle ingerenze di Costantinopoli segna la loro fine come soggetto politico attivo: da quel momento gli autori si dedicano ad altri barbari e degli Eruli si perde traccia.»
British Museum, gioielli ostrogoti; lo stile di oreficeria tra i gruppi barbarici è simile.
Chi sono i barbari? Cosa pensavano dei barbari gli autori romani?
«Per gli autori dell’Antichità barbarico è ogni gruppo non greco e non romano. I barbari si caratterizzano per essere diversi, irrazionali e animaleschi, esclusi dalla storia scritta: popolazioni solitamente pericolose e agguerrite, al limite di un ordine costituito imperiale (o cristiano) da tutelare.
«Tuttavia, questa definizione è più legata a un’impostazione concettuale comune a chi scriveva per conto degli imperatori: nel mondo antico ricchezza, genere, e provenienza sociale erano fattori più importanti dell’origine etnica.»
Come si distinguono i gruppi barbarici tra loro?
«I gruppi compaiono descritti in cataloghi pittoreschi in cui gli autori associano loro una o più caratteristiche distintive. Questi marcatori etnici forniscono utili informazioni ma spesso sono poco significativi per cogliere le complessità dell’identità etnica.
«Secondo Walter Pohl, si possono distinguere sulla base di un criterio assertivo: i Longobardi (ad esempio) sono tali quando si dicono Longobardi, sono riconosciuti dagli autori come Longobardi, e agiscono in coerenza con questa rappresentazione.»
Cosa intendevano gli autori romani con «gentes»?
«Purtroppo i romani non conoscevano la sociologia o l’etnologia moderna, e di conseguenza qualsiasi gruppo di individui dotato di una propria coerenza e particolarità veniva definito gens.
«Gens per i romani è sia un clan di guerrieri, sia l’insieme degli abitanti di una regione, sia un esercito multietnico in marcia, ad esempio nel caso degli Unni.»
Cos’è un gruppo etnico?
«Un gruppo etnico - almeno nell’Alto medioevo - è un insieme di individui che si sentono uniti dal legame verso una comunità. Questa comunità è spesso ideale, e viene proiettata nel passato, creando l’impressione di continuità e coerenza nelle azioni del gruppo.
«Il fatto che l’appartenenza a un gruppo rimanga un’astrazione, non ne diminuisce l’importanza: le motivazioni che muovono i membri di una gens sono estremamente concrete, e determinano azioni e conseguenze di lunga durata.»
Come si forma un’identità etnica nell’Alto Medioevo? Quali strategie della distinzione sono state utilizzate dai gruppi per restare coesi e definiti?
«Secondo le teorie più accreditate, le identità etniche si formarono intorno a un'élite nobiliare ristretta, con proprie credenze, consuetudini, e rituali: un nucleo di tradizione. Da questo nucleo, le tradizioni vennero adottate da un numero sempre più ampio di famiglie, e in seguito vennero percepite come tipicamente identitarie di un gruppo.
«Per quanto questa teoria sia stata rivista e ampliata nel tempo mantiene chiaramente l’idea che le identità etniche rimangono definite fintanto che vengono percepite come importanti e significative da parte dei membri del gruppo. Questo è tanto più evidente quando élite e guerrieri trovano nell’affermazione della propria diversità la chiave del successo.
«Un buon esempio di questo fenomeno è quello del regno di Teodorico, dove sembra che la distinzione (anche giuridica) tra barbari e romani servisse come tutela dei privilegi da conquistatori per i primi e da garanzia della proprietà per i secondi.
«Per i gruppi germanici esprimere la propria particolarità etnica acquisisce significato rispetto a un gruppo confinante, nei confronti del quale mostrarsi diversi è talvolta necessario per non perdere coesione interna.
«Gli autori romani non sempre capivano fino in fondo le ragioni di alcune usanze, o l’importanza data a certi oggetti, talvolta perché restavano ignari del valore che queste pratiche acquisivano per differenziarsi tra i diversi gruppi barbarici.»
Un’ultima domanda: lei ha iniziato da poco un bachelor in International Business all’università di Norimberga: progetti futuri?
«Il mio obiettivo è attualmente quello di completare questo studio per trovare una carriera di buon profilo in campo economico. Sono sinceramente felice di aver potuto studiare studi storici e filologico-letterari, dal momento che è un campo che fornisce una grande varietà di strumenti concettuali per interpretare passato e presente.
«Tuttavia, se studiare storia è stimolante, ma non è altrettanto attraente per l’orizzonte lavorativo. Approfondisco alcuni temi storici nel tempo libero, ma credo che attualmente lo studio delle lingue e dell’economia sia più importante e produttivo.»
Come sottolinea Gian Luca Dal Rì, in svariate occasioni in Trentino si sono analizzati gli aspetti economici, culturali, qualitativi e sociali del vino e della viticoltura tra il Medioevo e il Rinascimento, fino all’epoca moderna.
Il suo lavoro esamina, invece, «il tema della conservazione del vino, tramite il censimento delle architetture del vino, o meglio delle evidenze architettoniche, lungo il bacino del fiume Noce tra Medioevo e Rinascimento»
Lei è dottore in conservazione e gestione dei beni culturali. Quando è nato questo interesse?
«Dopo le scuole medie, ho scelto di proseguire il percorso scolastico con il Liceo Classico Prati di Trento. È stato proprio durante gli anni del Liceo che la passione per l’arte, la storia dell’arte e dei beni culturali si è sviluppata, anche se – ad onor del vero – i beni culturali nel senso più ampio del termine mi hanno sempre affascinato fin da piccolo.
«Ecco che la scelta universitaria si è dunque presentata piuttosto semplice, dopo la maturità: la facoltà di Lettere e Beni Culturali di Trento, una scelta dettata principalmente proprio dalla passione e dagli interessi personali.»
Ci può descrivere brevemente il processo che ha portato alla redazione finale della sua tesi di laurea magistrale, conseguita presso l’Università degli Studi di Trento?
«La redazione della tesi di laurea si presenta spesso come un momento particolarmente difficile per noi studenti; per la tesi magistrale volevo lavorare su un argomento che già dal titolo si presentasse accattivante, nella speranza di poter scrivere un testo che si prestasse non solo ai doveri accademici, ma anche alla lettura da parte di qualche curioso.
«Non solo, era mia intenzione poter valorizzare al massimo anche il territorio in cui vivo con una proposta di stretta integrazione tra i suoi aspetti prettamente culturali e quelli, invece, di tipicità produttiva (nell’ottica di una valorizzazione di quelli che sono beni culturali nel senso lato del termine).»
La tesi, dal titolo «Ove d’ogni buon vino ha ’l sito suo l’amenissima cella - Canipe e ipogei castellane lungo il Noce», quale argomento affronta? Come è avvenuta la scelta del tema?
«La tesi di laurea riassume nel titolo l’argomento trattato, citando un verso tratto dal Magno Palazzo del Cardinale di Trento del celebre naturalista Pietro Andrea Mattioli, un verso dedicato proprio alle cantine clesiane del castello del Buonconsiglio: e titolo di una tesi dedicata, appunto, ai locali per la conservazione del vino (uno dei prodotti principali dell’agricoltura medievale trentina) situati all’interno di strutture castellane lungo il bacino del Noce, ossia attraverso la Valle di Sole, la Valle di Non e la Piana Rotaliana».
Quali sono stati gli elementi principali del lavoro svolto?
«In più occasioni, nella nostra regione si sono analizzati gli aspetti economici, culturali, qualitativi e sociali del vino e della viticoltura tra il Medioevo e il Rinascimento, fino alla modernità. Questo lavoro vuole invece approfondire, per un limitato settore territoriale dell’odierno Trentino, il tema della conservazione del vino, tramite il censimento delle architetture del vino, o meglio delle evidenze architettoniche, lungo il bacino del fiume Noce tra Medioevo e Rinascimento.
«Per quanto sia nota la rilevanza della produzione e del consumo del vino, tutt’oggi una fonte importante di ricchezza per il territorio e per l’economia locale, si tratta di un tema relativamente nuovo per l’area trentina.
«Come ricordato da importanti riferimenti bibliografici, anche dal punto di visto non localistico si tratta di un tema spesso trascurato dalle fonti scritte e, di conseguenza, anche dagli storici che, se da una parte hanno dedicato molte energie allo studio della coltivazione della vite e alla produzione del vino, hanno dall’altra tralasciato gli aspetti materiali riguardanti le strutture relative al luogo o agli ambienti della conservazione vinicola: aspetti che, magari poco citati nelle fonti scritte, sono invece molto spesso ben leggibili nell’analisi architettonica del costruito.
«Lavori di simile impostazione, risultano portati avanti e già pubblicati per diverse regioni del nord Italia: per il Piemonte , la Lombardia , l’Emilia-Romagna sono facilmente individuabili interi volumi dedicati alle cantine da vino.
«Anche per il Veneto, in bibliografia si cita un piccolo volumetto dedicato proprio a Càneve e Spelònce.»
Qual è stato il settore geografico di ricerca e la fascia temporale presa in esame?
«Come ben riassunto nel titolo, il settore geografico oggetto di studio è stato il bacino del Noce, ossia i territori individuabili con la Valle di Sole, la Valle di Non e la Piana Rotaliana: a partire dal Castello di Caldes fino alle cantine del Monastero di San Michele all’Adige, del Castello della Torre, del Castello di Monreale e di Castel Firmian, passando per alcuni castelli sia pubblici che di proprietà privata in Valle di Non (Castel Cles, Castel Valer, Castel Vasio, Castel Nanno, Castel Belasi, Castel Thun e Malosco). La fascia temporale presa in esame è quella che, indicativamente, va dal XII al XV secolo.»
Progetti futuri?
«La speranza è, ovviamente, quella di poter continuare il percorso iniziato con il periodo universitario. Serve a poco ricordare che la situazione economica attuale, magari, non permette grossi sbocchi in quello che potrebbe e dovrebbe essere uno dei settori trainanti dell’economia italiana (pensiamo a quanti beni culturali sono disseminati sul nostro territorio nazionale!). Spero comunque di poter portare avanti l’idea di una valorizzazione più completa di alcuni beni monumentali situati nel bacino del Noce, mantenendo la convinzione di una necessaria sinergia tra il bene stesso, il suo territorio e le produzioni tipiche della zona.
«Formula vincente come testimoniato anche, ad esempio, da alcune recenti iniziative organizzate dalla Provincia Autonoma di Trento con la collaborazione di importanti Enti (tra i quali Castello del Buonconsiglio) come il Trenino dei Castelli o la Rete Castelli del Trentino: è sufficiente esaminare alcune recensioni o parlare con gli appassionati che hanno partecipato alle iniziative per raccogliere numerosi spunti positivi che testimoniano – al contrario di quanto magari ci dice la televisione – che anche l’italiano sa apprezzare i beni del suo Paese».
Meneghini: La necropoli in fase di scavo nei primi anni '90.
La tesi di laurea di Marco Meneghini si è sviluppata, invece, sulla necropoli tardoantica altomedievale di Farra.
Lei ha conseguito presso l’Università degli Studi di Trento una laurea triennale in Beni Culturali, indirizzo archeologico. Quando è nata questa passione?
«Da sempre ho coltivato una passione per la conoscenza del territorio e dell’antico: storia, archeologia, geografia, speleologia.
«La decisione di iscrivermi all’università, a trentasei anni, è nata in una spedizione speleologica e archeologica in Giordania, nel 2009, a stretto contatto con docenti e ricercatori universitari.
«Gli interessi c’erano da tempo, e li praticavo, ma le circostanze sono maturate in quel periodo.
«Desideravo acquisire una base teorica da mettere poi alla prova in un percorso di studi.»
Quali sono gli interessi e le esperienze a cui si riferisce? Ci potrebbe dare qualche breve informazione in merito?
«Pratico la speleologia da oltre vent’anni e mi interesso in particolare delle cavità artificiali, quelle realizzate dall’uomo (ad esempio fortificazioni, insediamenti, acquedotti). E’ una branca della speleologia molto vicina alla storia ed all’archeologia.
«Mi occupo dello studio e della catalogazione di questi ipogei in Trentino, Veneto e Friuli Venezia Giulia, oltre che all’estero (Giordania, Slovenia). Ho l’incarico di Curatore del Catasto Nazionale delle Cavità Artificiali della Società Speleologica Italiana.
«Quindi le maggiori esperienze le ho avute in questo campo, ad esempio collaborando con la S.A.T. – Comitato Storico e la Soprintendenza della Provincia nel rilievo della Galleria della Prima guerra mondiale del Corno di Cavento sull’Adamello.
«Ho partecipato alle spedizioni speleologiche dell’Università de L’Aquila, congiuntamente al C.N.R., ed alla Soc. Speleologica Italiana per documentare gli insediamenti rupestri a Shawbak, in Giordania, non lontano da Petra.
«Le esperienze di scavo archeologico si sono limitate alle attività nel percorso di studi, ma sono state estremamente formative ed interessanti dati i contesti di cui ci siamo occupati: con l’Università di Verona, ho partecipato agli scavi del castello bassomedievale di Illasi (VR) e, quest’anno, dell’anfiteatro di Aquileia, con scoperte che hanno suscitato moltissimo interesse fra gli studiosi ed il pubblico.»
Ci può descrivere sinteticamente il processo che ha portato alla redazione finale della sua tesi, dal titolo «La necropoli tardo antica – altomedievale di Villanova di Farra (GO). Analisi preliminare dei materiali e della cronologia delle sepolture.»? Come è avvenuta la scelta del tema?
«Io sono di Gorizia, e mi sono sempre interessato del mio territorio e la sua storia, fin dall’età più giovane, in cui frequentavo Farra d’Isonzo e i suoi dintorni.
«Quando la necropoli fu scoperta, nel 1987, a quattordici anni ho avuto la fortuna di partecipare brevemente come volontario agli scavi. In seguito mi sono occupato di altre cose.
«Una volta iscritto all’Università, nel settembre 2011 ho partecipato al convegno Necropoli longobarde in Italia organizzato dalla mia relatrice prof. Elisa Possenti ed ho avuto modo di incontrare la d.ssa Serena Vitri, allora Direttrice del Museo Archeologico nazionale di Cividale del Friuli che mi ha dato lo spunto per occuparmi di questo sito nella mia tesi.
«L’idea è stata accolta dalla prof. Elisa Possenti, docente di archeologia medievale dell’Università di Trento, e in seguito proposta alla Soprintendenza archeologia, di Trieste, che ha dato l’autorizzazione per consultare il materiale d’archivio.»
Qual è l’oggetto di studio dell’elaborato? Qual è stato il settore geografico di ricerca e la fascia temporale presa in esame?
«Si tratta di una necropoli di cento tombe, romane ed altomedievali, di tipologia e consuetudine funeraria molto diversa fra loro. È situata ad est di Villanova di Farra, una frazione di Farra d’Isonzo, a circa otto chilometri ad ovest di Gorizia.
«La zona è nota per essere stata un punto nevralgico nella viabilità romana fra la metropoli di Aquileia e l’Oriente. Ci troviamo in pianura, allo sbocco delle valli dei fiumi Isonzo e Vipacco che costituiscono le vie naturali di valico delle Alpi orientali.
«Una delle caratteristiche principali della necropoli è di coprire un vastissimo spazio cronologico. Si va dalla piena età imperiale all’alto medioevo: dal II secolo d.C. fino al VII, se non addirittura all’VIII secolo d.C.».
Quali sono stati gli elementi principali del lavoro svolto?
«Ho iniziato consultando la documentazione di scavo presso la Soprintendenza, a Trieste: relazioni, disegni, fotografie che ho rielaborato in formato digitale, in particolare creando un database dei reperti e delle tombe, e in seguito un GIS: un sistema informativo globale della necropoli, in pratica una pianta di tutte le tombe, che, che interrogata attraverso il programma informatico che ho utilizzato, fornisce informazioni dirette su di esse, soprattutto, incrociando i dati delle singole sepolture.
«In particolare ho approfondito le informazioni sui reperti rinvenuti, consultando la bibliografia più recente per giungere ad una loro datazione più aggiornata, per poi ipotizzare l’epoca delle sepolture.
«Un elemento fondamentale è stata la raccolta di quante più informazioni possibili sulla necropoli e della relativa bibliografia pubblicata, per avere un’idea del materiale disponibile.»
Quali sono state le principali difficoltà affrontate?
«La necropoli è estremamente varia per epoche, reperti e tipologie, consuetudini funerarie e studi svolti. Ho dovuto consultare diversa documentazione e bibliografia, reperibile in differenti archivi e biblioteche, principalmente in Friuli Venezia Giulia.
«Lavorando e vivendo a Mezzolombardo, non mi è stato facile ma la disponibilità della Soprintendenza di Trieste e del personale di molte biblioteche hanno facilitato il mio compito. Il supporto ed il confronto con la prof. Possenti è stato continuo ed ha permesso di affrontare e superare problematiche e difficoltà.»
Progetti futuri?
«Dalla tesi è uscito un lavoro piuttosto corposo, ma che è da considerarsi del tutto preliminare, che avanza diverse ipotesi nuove sulla cronologia di alcune sepolture, sulla presenza di un abitato nei pressi della necropoli, non ancora individuato, e propone analisi più approfondite dei reperti.
«Mi sono iscritto alla Laurea Magistrale in Quaternario, Preistoria Archeologia, interateneo fra Ferrara, Modena - Reggio Emilia, Trento e Verona, con l’intenzione di approfondire ed ampliare il tema della necropoli e del territorio circostante nella futura laurea magistrale.»
Daniela Larentis – [email protected]
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