«Una questione di memoria» – Di Daniela Larentis
La memoria ci permette di ricordare ciò di cui abbiamo fatto esperienza: Piero Angela nel suo libro «Viaggio dentro la mente» ci dà alcune spiegazioni
Foto di Ivan Piffer.
«Una questione di memoria» è il titolo di un racconto di fantascienza di Isaac Asimov, nel quale John Heath al fine di fare colpo con la sua ragazza si offre come cavia per testare un nuovo farmaco che potenzia la memoria. Ma quanto sappiamo oggi della memoria?
Nell’interessante libro di Piero Angela intitolato «Viaggio dentro la mente» (Edito da Mondadori), attraverso un dialogo con un ipotetico interlocutore l’autore spiega con linguaggio semplice e chiaro la complessità del nostro cervello: in un solo centimetro cubo pare contenga mediamente più di cinquanta milioni di cellule nervose (da 50 a 70 milioni circa), ognuna delle quali si dirama formando una rete immensa percorsa da continui impulsi elettrochimici.
Riguardo alla memoria, distingue fra quella a breve e a lungo termine. «Memorizzare – spiega – significa modificare i circuiti nervosi attraverso lo sviluppo di nuove sinapsi, cioè di nuovi collegamenti…»
Esistono però la memoria a breve termine, quella, per intenderci, che ci permette di ricordare per un tempo limitato un numero di telefono, e la memoria a lungo termine, grazie alla quale possiamo ricordare eventi accaduti molto lontani nel tempo.
Stando al libro è essenziale il ruolo che il sistema limbico svolge nel processo di memorizzazione; questa parte più antica del cervello, infatti, provocherebbe l’attivazione di sostanze grazie alle quali avviene la fissazione del ricordo.
Per spiegarlo l’autore usa una metafora (pag. 73): «Immaginiamo di attraversare un prato con l’erba abbastanza alta. Una volta attraversatolo, guardando indietro, vediamo la traccia del nostro passaggio.
«Ma dopo un certo tempo l’erba calpestata si rialza e pian piano tornerà come prima. E’ una memoria a breve termine. Se invece attraversiamo il prato avanti e indietro varie volte, la traccia rimane impressa per più tempo. Sarà una memoria a medio termine.
«Se poi passassimo sul prato con un aratro, basterebbe farlo una sola volta per lasciare una traccia molto profonda, che richiederebbe molto tempo per rimarginarsi.
«Se addirittura passiamo con un bulldozer e scaviamo un solco profondo, estirpando le radici e portando via l’humus, quella traccia rimarrà per un tempo indefinito.
«Detto in altre parole, probabilmente non esistono solo due tipi di memorie, a breve e a lungo termine, ma una varietà di livelli e di modi di memorizzare. Anche un numero di telefono, se lo ripetiamo ogni giorno mentalmente, diventa una memoria a medio lungo termine, pur non avendo niente di emozionante… […].
«Le forti emozioni invece (quelle provocate dall’aratro o dal bulldozer) lasciano automaticamente una traccia che non soltanto è profonda, ma che viene alimentata anch’essa da frequenti ri-passi. Infatti nel ricordo, o nei racconti, gli eventi a forte contenuto emotivo vengono spesso rievocati, proprio perché sono esperienze significative, e quindi vengono rinforzati.»
Tuttavia ci sono nella quotidianità degli eventi all’apparenza del tutto insignificanti che rimangono impressi, piccoli dettagli che riemergono per associazione di idee, oppure che vengono richiamati alla memoria da una musica, da un’immagine, come sottolinea anche l’autore nel libro.
La pubblicità, per esempio, è sia emotiva che ripetitiva, tanto che viene riproposta continuamente e proprio per questo entra nella memoria con facilità.
Esiste poi una memoria che ci permette di sentire internamente i suoni, per esempio la voce di una persona amica o addirittura una canzone, una memoria olfattiva che ci permette di ricordare un profumo particolare o un odore sgradevole e una memoria tattile.
La nostra straordinaria capacità di archiviare memorie e di arricchire il nostro cervello di esperienze si può osservare a livello microscopico nella corteccia. Sono stati condotti degli esperimenti (non su uomini ma su roditori) che hanno dimostrato come alcuni topi, a seguito di una stimolazione, cioè dopo essere stati inseriti in gabbie attrezzate con giostre, labirinti e quant’altro, abbiano, rispetto ai loro simili isolati in semplice gabbie vuote, presentato sensibili modificazioni della corteccia e connessioni più fitte.
A pag 76 leggiamo a riguardo una precisazione: «Va però detto che qui il confronto è stato fatto con topi deprivati, cioè con animali in condizioni anormali (in libertà i topi sono tutti molto attivi, perché devono continuamente risolvere molti problemi).
«Quindi, gli esperimenti hanno reso possibile osservare le conseguenze di una deprivazione. Ma hanno anche fornito la dimostrazione che è l’apprendimento che arricchisce il cervello di nuove ramificazioni e sinapsi».
Il libro non parla solo della «macchina celebrale» e del suo sviluppo, dei neuroni, delle sinapsi, dei collegamenti, della formazione della memoria ecc., ma affronta anche un argomento alquanto interessante: il pensiero.
«Quando cerchiamo qualcosa nella memoria, o proviamo a immaginare qualcosa, tendiamo effettivamente a chiudere gli occhi, come per vedere meglio la proiezione delle immagini all’interno della nostra mente».
È molto interessante leggere cosa viene scritto circa il meccanismo di rivedere mentalmente un’immagine che ancora è impressa nella nostra memoria.
Effettivamente tutti noi ne facciamo continuamente esperienza: chiudendo semplicemente gli occhi possiamo visualizzare una qualsiasi scena relativa a un avvenimento appena accaduto.
Chiaramente questa immagine mentale sarà simile a ciò che abbiamo davvero visto, come fa presente Piero Angela le due immagini sono simili, - l’esempio da lui riportato fa riferimento alla visualizzazione di un pranzo di compleanno - ma in realtà si differenziano soprattutto nei dettagli, non abbiamo quindi immagazzinato l’immagine come una fotografia, quella che abbiamo in mente è piuttosto solo «una ricostruzione mentale realizzata con pezzi di memorie che ci restituiscono la collocazione spaziale degli oggetti e delle persone e che si valgono, per questa associazione immaginaria, di categorie, di parametri: tavolo, credenza, candelabro… seguendo lo schema generale del nostro ricordo».
Nel libro viene sollevata anche la questione che riguarda le testimonianze, le quali quindi sarebbero delle ricostruzioni imprecise di quella che noi definiamo realtà. Leggiamo a tal proposito a pag. 80:
«…Ci sono molte ricerche che mostrano quanto una testimonianza possa essere inesatta. Ma soprattutto quanto possa essere influenzabile, o contaminabile. Per esempio si è visto che un interrogatorio svolto in modo non corretto può alterare il ricordo […].
«Ci sono anche test che mostrano quanto ci si può sbagliare nel ricordare una scena».
Piero Angela riporta un esperimento mostrato in una puntata di Superquark; degli attori avevano girato, in accordo con un ricercatore, una scena violenta sotto il ponte di Brooklyn, nella quale un ragazzo accoltellava dopo un litigio una persona, uccidendola.
Il filmato venne fatto poi vedere a un gruppo di studenti universitari, ai quali vennero in seguito mostrate cinque foto di presunti colpevoli, chiedendo di individuare fra questi l’omicida.
Ognuno indicò una persona differente. Quando alla fine venne mostrato loro nuovamente il filmato, gli studenti si resero consapevoli del fatto che il vero assassino era stato ripreso sempre di spalle, quindi nessuno degli individui ritratti in foto poteva essere il colpevole.
In linea generale una testimonianza può essere valida naturalmente, però è possibile anche l’errore, soprattutto per quanto concerne i dettagli. Nel libro viene sottolineato quanto segue.
«Il valore della testimonianza è molto importante per la ricerca delle prove, come strumento per scoprire elementi probatori. In particolare se un testimone afferma di non avere visto nulla, e cambia idea dopo essere stato sottoposto a sollecitazioni; oppure se indica una persona e poi (sempre sotto interrogatorio) ne indica un’altra, queste testimonianze basate su memorie ricostruite non possono avere valore cruciale per la condanna, ma possono essere usate solo se utili a identificare eventuali prove concrete.»
Il fatto è che noi crediamo di cogliere la realtà come se i nostri occhi fossero telecamere, ma quello che poi arriva al cervello e viene memorizzato non sono esattamente immagini, ma impulsi e codici. Dice l’autore, dopo aver spiegato il funzionamento dell’occhio umano: «È questo insieme di segnali elettrochimici che alimenta il nostro teatrino mentale: lì dentro non ci sono immagini, ma solo codici».
Daniela Larentis – [email protected]
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