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Globalizzazione? No, grazie – Di Daniela Larentis

Meglio privilegiare i prodotti locali che quelli globali, un pensiero da molti condiviso

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«Il cibo non è più quello di una volta».
Quante volte lo abbiamo pensato, detto, sentito? In un’epoca dove conta solo il profitto, pare sia sempre più difficile nutrirsi in maniera davvero sana.
Tante sono le contraddizioni, quando si parla di nutrizione. Ci sono zone nel nostro pianeta dove si muore ancora di fame, purtroppo, e luoghi dove si muore a causa di un’alimentazione scorretta, pensiamo a tutte quelle patologie come l’obesità, il diabete e via dicendo, che affliggono soprattutto l’Occidente.
Si parla tanto di globalizzazione, può nascere il dubbio, tuttavia, che essa porti beneficio principalmente alle multinazionali, con la scusa della riduzione dei prezzi di produzione e del miglioramento degli standard qualitativi.
In realtà pare avvenga l’esatto contrario, ossia vengano immessi sul mercato prodotti di bassa qualità e a prezzi ingannevoli.
Questa realtà fa terra bruciata dei piccoli coltivatori, non rispetta i tempi della natura, produce danni a lungo termine.
 
Vandana Shiva, voce autorevole dell’ecologia mondiale, ha avviato progetti e ricerche in molti Paesi del mondo, a partire dall’India, e si è battuta per cambiare le politiche agricole e alimentari.
È autrice del saggio intitolato «Chi nutrirà il mondo? Manifesto per il cibo del Terzo Millennio», edito da Feltrinelli (2015), traduzione di Gianni Pannofino, un libro nel quale vengono sollevati numerosi interrogativi su chi assicurerà il nutrimento al mondo di oggi e di domani.
Forse l’agricoltura delle multinazionali che dominano il pianeta, «assetata di profitto e avvelenata da pesticidi, fertilizzanti, Ogm» oppure quella dei contadini africani, indiani, cinesi, «capaci di valorizzare la ricchezza della biodiversità e l’equilibrio spontaneo degli ecosistemi»?
Chi nutrirà il mondo? Proprio una bella domanda, la quale ne solleva un’altra, ossia, cosa intendiamo esattamente per «cibo», che significato diamo a questo termine?
 

 
Leggiamo a pag. 20: «Se per cibo intendiamo il tessuto della vita –la sua materia prima, il nutrimento, le nostre cellule, il nostro sangue, la nostra mente, le culture e le identità – e se per noi il mondo è Gaia – il nostro pianeta, con tutta la sua ricchezza e vitalità, la Madre Terra, animata dalla varietà degli esseri viventi e degli ecosistemi, le moltitudini delle persone e delle culture – dovremo rispondere che è il concorso di biodiversità, sensibilità, sapere e intelligenza dei piccoli coltivatori ciò che dà veramente da mangiare al mondo.»
Rimaniamo colpiti da questa semplice osservazione che fa riflettere.
«Il cibo viene prodotto dal suolo, dai semi, dal sole, dall’acqua e dai coltivatori, nelle loro molteplici interazioni. Il cibo incarna le relazioni ecologiche, e la scienza delle interazioni e delle dinamiche che producono cibo è detta agro-ecologia. E’ l’agro-ecologia che ci dà da mangiare.»
 
Dobbiamo pensare il nostro pianeta come un organismo vivente, «la sua materia prima è la vita, la sua moneta corrente è il cibo».
È la varietà che ci nutre, e come viene sottolineato nel libro «sono i piccoli coltivatori, le famiglie contadine e gli orticoltori coloro che ci danno da mangiare».
Non dobbiamo quindi pensare al cibo come una merce, è certo anche una merce, ma occorre tenere in mente e riflettere profondamente su ciò che viene detto, ossia che «ogni essere umano ha un rapporto particolare con il cibo, e ogni cultura o comunità produce il proprio cibo».
 
E come scrive l’autrice «dato che tutti devono mangiare, la sovranità alimentare delle comunità è essenziale per la sicurezza alimentare: è il cibo locale a nutrirci».
Ribadisce l’attivista e ambientalista indiana che il cibo è prodotto attraverso processi naturali e che «in agricoltura e nella produzione alimentare, la natura e le sue leggi vengono prima di tutto».
È tanto evidente, vien da dire, che violare queste leggi, forzare la natura, non sia un atteggiamento saggio.
Scrive inoltre: «La necessità di nutrire il pianeta solleva alcune delle questioni più importanti della nostra epoca. La questione alimentare diventa un problema etico che riguarda il nostro rapporto con la Terra e con altre specie: è giusto, per esempio, portare altre specie all’estinzione o negare a molti membri della famiglia umana il diritto a un’alimentazione sicura, sana e nutriente?».
 

 
Come evidenzia sorge poi anche un problema ecologico, in quanto ci si chiede se gli uomini si condanneranno all’estinzione, distruggendo le fondamenta ecologiche dell’agricoltura.
Non da ultimo la questione diventa anche culturale, in quanto il problema del cibo riguarda anche le nostre tradizioni, la nostra identità, il nostro radicamento nel territorio.
A proposito di tradizioni, pensiamo al nostro Paese, e a un cibo a cui noi tutti siamo abituati, il formaggio, fatto in Italia con latte fresco e non con polvere di latte (ricordiamo che l’Unione Europea ci ha richiesto di consentire la produzione di formaggi fatti con latte in polvere).
Ma come, e noi dovremmo rinunciare ai nostri straordinari formaggi tradizionali, ai nostri prodotti buoni e sani di alta qualità? Che tristezza.
La Shiva fa presente nel libro che «i costi ecologici dell’agricoltura industriale a elevato impiego di sostanze chimiche e carburanti fossili sono enormi e stanno causando cambiamenti climatici, erosione della biodiversità, impoverimento delle risorse idriche ed erosione del suolo».
 
L’agricoltura industriale globalizzata sta portando, dice, allo sradicamento in massa dei piccoli coltivatori, e ciò non può lasciare indifferenti.
A nutrire il mondo non è la globalizzazione ma l’agricoltura locale, lo sostiene la Shiva e lo pensano tantissime persone.
L’evoluzione dei sistemi alimentari del mondo è stata plasmata da due principi, il primo sostiene che tutti devono mangiare, il secondo dice che a qualsiasi latitudine, che si tratti dell’Artide o del deserto, dove vive l’uomo c’è cibo e a ogni luogo corrisponde un dato sistema alimentare.
Questo è il pensiero espresso dall’autrice, la quale riferendosi ai sistemi alimentari evoluti per sfamare le persone in ogni parte del globo, afferma che essi per effetto dei due principi citati hanno per loro stessa natura un carattere locale.
 
Leggiamo a pag. 126: «Questi sistemi di produzione alimentare nutrono sia la diversità biologica sia quella culturale. La produzione locale di alimenti è non solo naturale, bensì anche vitale, perché permette ai contadini di mettere in pratica la Legge della Restituzione, di produrre più cibo con l’aiuto della biodiversità, di creare sistemi alimentari adeguati alle culture e alle ecologie locali e di sfamare se stessi, le loro comunità e anche il suolo a cui restituiscono tutto il possibile».
Aggiunge poi: «Negli ultimi vent’anni, la globalizzazione dei sistemi alimentari e agricoli è stata presentata come un fenomeno naturale e inevitabile. Invece non c’è nulla di naturale nella globalizzazione, in particolare in quella del cibo.»
Un pensiero da molti condiviso e che fa riflettere su quelli che saranno gli effetti della globalizzazione nel tempo, almeno per quanto riguarda il cibo, e in questo caso è naturale che nascano dei dubbi e delle preoccupazioni. In fondo, un alimento prima di essere considerato merce è innanzitutto cibo, nutrimento per corpo e anima.
È meglio non dimenticarlo.
 
Daniela Larentis – [email protected]

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