Da dove veniamo e dove stiamo andando? – Di Daniela Larentis
Si può riflettere sul senso dell’esistenza, ispirati dall’arte e leggendo Mancuso
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C’è un celebre quadro del noto pittore Paul Gauguin (foto) intitolato «Da dove veniamo? Cosa siamo? Dove andiamo?» (1897): si tratta di una sorta di testamento spirituale, di una tela di grandi dimensioni dipinta durante un suo soggiorno a Tahiti in un periodo di grande sconforto, su cui sono ritratte diverse figure che rappresentano le varie stagioni della vita.
Si parte dal neonato posto a destra del dipinto fino ad arrivare alla donna anziana che si vede a sinistra, la quale simboleggia la vecchiaia e la paura della morte.
Osservandolo, viene spontaneo cercare di riordinare le proprie idee riguardo alla nostra esistenza, si riflette con la consapevolezza che tutto è in divenire e incerto, mutevole come i pensieri di oggi che potrebbero non essere quelli di domani. Chissà.
Quante emozioni sprigiona un quadro. Quello di Gauguin sembra regalarci qualche frammento di verità, pare volerci «raccontare» quanto sia veloce quella che noi definiamo «vita», il lasso di tempo entro il quale noi uomini, esseri intelligenti dotati di volontà, accumuliamo le cosiddette «esperienze» (guai a chiamarli errori!), amando, odiando, provando grandi passioni e tutta una serie di sentimenti non sempre nobili. Pare anche suggerirci l’idea di quanto importante sia prendersi cura non solo di noi stessi, ma anche degli altri e del nostro meraviglioso pianeta.
Chissà perché di fronte al quadro del grande pittore francese dell’Ottocento, pensando alla «cura» di quel giardino (l’ambientazione del dipinto è un affascinante giardino), a noi tornano in mente le parole di un noto teologo italiano contemporaneo, Vito Mancuso, nonché celebre scrittore e famoso filosofo (ha insegnato presso l’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano e l’Università degli Studi di Padova).
Nel suo straordinario libro intitolato «Questa vita» (Edizioni Garzanti), in uno dei primi capitoli è riportata un’antica favola di Igino, uno scrittore latino del II sec., che Martin Heidegger cita interamente in «Essere e tempo».
Si tratta, come la definisce Mancuso, «di uno dei documenti più significativi sull’intima essenza della vita umana». Un misterioso personaggio femminile è il protagonista della storia, Cura, gli altri personaggi sono: Giove, la Terra, Saturno, l’Uomo primordiale.
Ecco il testo riportato a pag. 23 del saggio: «La Cura, mentre stava attraversando un fiume, scorse del fango cretoso; pensierosa, ne raccolse un po’ e incominciò a dargli forma. Mentre era intenta a stabilire che cosa avesse fatto, intervenne Giove.
«La Cura lo pregò di infondere lo spirito a ciò che essa aveva fatto. Giove acconsentì volentieri. Ma quando la Cura pretese di imporre il suo nome a ciò che aveva fatto, Giove glielo proibì e volle che fosse imposto il proprio.
«Mentre la Cura e Giove disputavano sul nome, intervenne anche la Terra, reclamando che a ciò che era stato fatto fosse imposto il proprio nome, perché lei gli aveva dato una parte del proprio corpo. I disputanti elessero Saturno a giudice.
«Il quale comunicò ai contendenti la seguente giusta decisione: «Tu, Giove, che hai dato lo spirito, al momento della morte riceverai lo spirito; tu, Terra, che hai dato il corpo, riceverai il corpo.
«Ma poiché fu la Cura che per prima diede forma a questo essere, fin che esso vive sia la Cura a possederlo. Per quanto concerne la controversia sul nome, si chiami homo perché è fatto di humus (Terra).»
È un racconto che ha delle analogie con il racconto della Bibbia dove l’uomo viene descritto come un essere formato dal soffio divino e dalla terra.
Come scrive Mancuso «nella favola di Igino però si dice qualcosa di più: si dice che questo essere composto di due elementi discordanti non è riconducibile né al primo di essi, la terra, né al secondo, lo spirito, ma a una misteriosa figura femminile chiamata Cura che l’ha formato con le sue mani. Sicché abbiamo: Homo = Cura».
Cura in latino ha due significati fondamentali, ci ricorda Mancuso, quello attivo di sollecitudine, premura, attenzione e quello passivo di affanno, inquietudine, preoccupazione.
Scrive a pag. 24: «La seconda accezione ha generato il termine sinecura, letteralmente senza preoccupazione, che originariamente indicava un beneficio ecclesiastico senza obbligo di prestazioni, una nomina cioè da cui si aveva tutto da guadagnare e nulla per cui lavorare, di quelle appositamente escogitate dai papi del passato per favorire i loro parenti e i loro protetti.
«In ogni caso da questa analisi del termine cura quale espressione dell’essenza umana emerge la sostanziale ambiguità che connota la nostra vita: l’essere attivamente piena di sollecitudini e di premure, e insieme l’essere passivamente esposta a inquietudini e preoccupazioni.»
Scrive più avanti: «Dicendo Homo = Cura, l’antica favola tramandata da Igino insegna che ognuno di noi consiste nell’instabilità che nasce dall’incontro dei due elementi primordiali tra loro eterogenei. La favola li chiama Terra e Giove, il fango cretoso e il soffio del dio, in analogia con la Genesi, ma questa dualità si ritrova in altri testi espressa in altri modi…»
Aggiunge poi: «Tale dualità antropologica è la riproposizione in piccolo di una più originaria dualità che struttura l’intero cosmo: vita e morte, tempo ed eterno, unità e pluralità, senso e assurdo, essere e nulla, Dio e mondo, ideale e reale, spirito e materia, pensiero ed estensione, luce e tenebre, libertà e necessità, bene e male, Yin e Yang, e persino l’apollineo e il dionisiaco che secondo Nietzsche strutturano l’estetica greca fondendosi in uno nella tragedia.
«Non tutte queste coppie di opposti rimandano alla medesima ontologia, tutte però costituiscono polarità che esprimono una tensione strutturale, una dialettica originaria che attraversa i fenomeni e da cui scaturisce quel movimento che è all’origine dell’evoluzione della materia verso la vita e dell’evoluzione della vita verso l’intelligenza…»
Forza di attrazione e forza di repulsione, due forze che agiscono nel mondo fisico come nell’anima, come ricordava Beethoven in uno dei suoi quaderni, sottolinea il teologo.
La scienza, ricorda Mancuso, oggi ci dice che alla base del nostro universo ci sono due grandi dinamiche, la forza di espansione e la forza di contrazione: «Siamo immersi in una dinamica cosmica che si sviluppa come interazione di due forze contrarie: espansione + contrazione. Se prevalesse l’una o l’altra l’universo sarebbe molto diverso e di certo la vita al suo interno non sarebbe possibile, ma nessuna delle due prevale, il moto cosmico non interrompe mai né la sua espansione né la sua capacità di aggregazione.
«Si potrebbe dire che l’universo respira e che, esattamente come la nostra respirazione è basata sui due movimenti contrapposti di inspirazione ed espirazione, così esso si espande e al contempo si contrae producendo aggregazioni sotto forma di atomi, stelle, pietre, galassie e una sconfinata sequenza di esseri viventi.»
Tale dialettica, che Mancuso definisce «non dualista ma duale (perché si tratta di forze non nemiche ma complementari)» regola la nostra respirazione, «il movimento decisivo della nostra vita», l’azione che ci permette di vivere.
Mancuso definisce l’essenza della vita come «cura in tutte le complesse articolazioni del suo esistere».
Scrive a pag. 27: «Dicendo che nella nostra più intima essenza siamo cura, affermiamo che siamo relazione, più precisamente un plesso instabile e sempre in divenire di relazioni, che a volte contraggono e a volte espandono la nostra esistenza.
«Tutto ciò ci consegna al significato attivo di cura in quanto premura e attenzione, e insieme ci espone al significato passivo di cura in quanto inquietudine e affanno. Ciò che comunque emerge come decisivo» sottolinea il teologo «è il fatto che non c’è prima un io isolato che intreccia poi le sue relazioni, come pensava quasi tutta la filosofia e la teologia del passato che ritenevano di comprendere l’uomo cogliendone l’essenza atemporale a prescindere dai suoi legami e dalle sue relazioni.
«Al contrario, ognuno di noi è e diviene le sue relazioni. E’ la cura attiva e passiva, è il nostro phatos, a consegnarci la nostra identità.»
Aggiunge infine un’osservazione.
«Tra le due accezioni del termine cura, io penso però che prevalga quella passiva, nel senso che la vita è anzitutto inquietudine, affanno, preoccupazione, paura, fame, freddo. L’essere vivente è sempre in travaglio scriveva Aristotele: noi lo vediamo dal fatto che ogni vivente chiede cura, come gli uccellini nel nido con il loro ininterrotto pigolare.
«Anche tra gli esseri umani io penso che non esista nessuno che non sia bisognoso di cura in senso attivo a causa del suo essere cura in senso passivo. Anche coloro che vogliono dimostrare di non aver bisogno di nulla, ne sono bisognosi, forse in misura maggiore».
Pensandoci bene è proprio così: siamo tutti connessi.
Ognuno di noi ha bisogno degli altri, siamo tutti petali di un unico fiore.
Daniela Larentis – [email protected]
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