Dolore, scomodo compagno di viaggio – Di Daniela Larentis
In un viaggio nel senso profondo della vita Umberto Veronesi affronta il dolore
L’«Urlo» di Munch.
Esistono vari tipi di sofferenza, a partire da quella fisica. Chi meglio dei medici conosce l’esperienza umana del dolore, di coloro che dedicano la propria vita a cercare di alleviare quello altrui?
Umberto Veronesi, il famoso chirurgo milanese (ex senatore e ministro della Sanità nel 2000, ha guidato l’Istituto dei Tumori per diciotto anni ed è fondatore e direttore dell’Istituto Europeo di Oncologia dal 1994), nonché autore di numerosi libri, ha scritto con MariaGiovanna Luini, anche lei scrittrice e medico (da sempre impegnata nella lotta contro il cancro) un esaustivo libro che affronta il tema del dolore, una sorta di viaggio nel senso profondo della vita, intitolato «Oltre il dolore» (Edizioni Cairo).
Nella premessa viene fatta una riflessione sulla natura dell’uomo.
«La condizione umana è dualistica e, se posso usare una similitudine, l’uomo è attore su un palcoscenico di antinomie, cioè di antitesi: la luce e le tenebre, il giorno e la notte, il bene e il male, la vita e la morte, la gioia e il dolore. La gioia esiste quando è assente il dolore e viceversa: sono quindi due facce diverse della stessa condizione sensoriale.»
Come viene spiegato più avanti il dolore può essere visto da angolazioni differenti.
Di solito c’è chi lo combatte «negandogli il diritto di esistere», agognando un mondo senza sofferenza, e chi lo interpreta come mezzo di elevazione dell’anima, accettandolo e considerandolo una prova e una sorta di «offerta sacrificale».
Tuttavia, viene indicato un terzo atteggiamento possibile nei confronti del dolore, ossia cercare di comprenderlo, di capire il suo significato più profondo partendo dal presupposto che esso fa parte della vita, esiste (pag. 10): «Non è lecito negarlo, ma se si deve combatterlo, alleviarlo o eliminarlo bisogna conoscerlo e conoscere la ragione della sua presenza nel corpo e nella psiche.»
Nel classificare le varie forme di dolore, gli autori si soffermano anche su quello «esistenziale», come viene definito, sottolineando che «la sofferenza esistenziale può condurre alla demotivazione a vivere che è alla radice del fenomeno sempre più frequente dei suicidi che con i 4.000 casi in Italia rappresenta un problema su cui nessuno vuole soffermarsi o discutere».
All’inizio del capitolo dedicato al suicidio (cap. 5) leggiamo quanto segue.
«È difficile parlare del suicidio. Al di là dell’atto di togliersi la vita, la difficoltà sta nella giustificazione o meno dei motivi veri e presunti, nell’approccio che si ha alla scelta libera e consapevole di porre fine alla propria esistenza: interrompere la vita è un atto che suscita dolore, angoscia, sgomento, repulsione, qualche volta ammirazione in chi resta e deve fare i conti con il silenzio di spiegazioni che non giungeranno mai.
«Quando qualcuno si suicida il mondo lo giudica prima ancora di piangerlo. Religione e filosofia, esperienza personale e storia familiare hanno un ruolo importante nel determinare l’opinione che si ha del suicidio.»
A noi verrebbe da dire che non si dovrebbe mai giudicare la sofferenza altrui. A volte c’è chi vive il disincanto della propria esistenza abbandonando completamente la speranza.
È difficile capire il dolore degli altri, si può cercare di farlo in punta di piedi, con rispetto e senza la presunzione di riuscire a comprenderlo, pensando che certe reazioni emotive non sono mai dovute a un’unica causa, ma a un susseguirsi di eventi.
C’è poi chi sceglie il suicidio per ragioni politiche o addirittura religiose, ma quest’ultima è tutta un’altra storia (chi si fa saltare in aria causando la morte di altre persone non solo rinuncia alla vita così come la conosciamo, ma infligge dolore agli altri, provocando volontariamente la sofferenza altrui).
A proposito delle terapie del dolore Veronesi puntualizza (pag. 12): «Le terapie del dolore, prevalentemente farmacologiche specie con oppiacei o localmente invasive con infiltrazioni di anestetici o cortisone oppure, raramente, chirurgiche sono nel complesso efficaci.
Ma difficile, quasi impossibile, è la terapia della sofferenza in cui spesso si deve far ricorso allo psichiatra.
Nella mia vita ho visto centinaia di casi terminali e ho capito che la maggiore sofferenza non è il dolore fisico ma la solitudine, l’impossibilità a dialogare, il senso di emarginazione e la percezione di espulsione dalla società alla stregua di un «rifiuto».
«E qui il medico deve dare il meglio di se stesso e deve dedicarsi al paziente con impegno, assiduo e continuo, fatto di dialogo, di presenza affettiva e di partecipazione empatica. Almeno se vuole essere un buon medico.»
Non è facile interrogarsi sul senso del dolore, si può tentare di farlo con la certezza che prima o poi toccherà in una delle sue molteplici forme tutti noi, perché il dolore è un’esperienza umana che riguarda tutti e non ha età.
Nel libro, a proposito di questo una particolare considerazione colpisce la nostra attenzione: «Il dolore non conosce età, ma l’età ha un’influenza piuttosto evidente sulla filosofia personale con cui un individuo lo affronta e spiega, tenta di razionalizzarlo e risolverlo: ciò che siamo a quindici, venti, quarantadue, ottanta anni è un divenire che dal punto di vista fisiologico non ci lascia uguali a noi stessi».
«Cambia il corpo, cambiano le emozioni e le capacità percettive, cambia l’elaborazione razionale di ciò che viviamo. Cambiano perfino i ricordi: chi può dire di ricordare con esattezza eventi e persone, discorsi e relazioni? Si ricordano le interpretazioni che di questi eventi, persone, parole e sentimenti abbiamo dato, e perfino le interpretazioni non restano mai le stesse».
E più avanti Veronesi sottolinea che proprio col passare del tempo anche il cervello non è più lo stesso, questo non significa che funzioni meno, ma che le cellule che lo compongono cambiano («la mente può essere perfetta, migliore di prima, ma i neuroni, che una volta si ritenevano cellule fisse e immutabili, si sono completamente rinnovati» afferma a pag 15).
A tal proposito viene fatta questa osservazione: «Ecco perché la percezione e l’elaborazione del dolore non possono mai essere identiche nella medesima persona, ecco perché il dolore non può essere comunicato in pieno all’altro e non trova – se non in casi eccezionali – un sollievo reale nella condivisione empatica. Ognuno ha un’esperienza a sé, e anche la persona stessa si modifica (i neuroni e le loro connessioni, il grado di tolleranza e saggezza, la suscettibilità fisica e psichica) con l’avanzare dell’età.»
Potremmo anche noi aggiungere che il dolore sebbene sia un’esperienza che prima o poi ci accomuna tutti è anche una prova individuale, ognuno la elabora a modo proprio, accettandola con coraggio o rifiutandola con disperazione, vivendola in un modo anziché nell’altro in base alle proprie convinzioni, alla propria storia personale, facendo i conti anche con le proprie paure. Perché il dolore spaventa e se non lo si supera annienta.
Daniela Larentis – [email protected]
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