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Come si guarda un quadro? – Di Daniela Larentis

C’è chi suggerisce di guardarlo a lungo, per esempio Philippe Daverio nel suo libro intitolato «Il museo immaginato»

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Philippe Daverio è un critico d’arte, giornalista, professore ordinario alla Facoltà di Architettura dell’Università di Palermo, incaricato al Politecnico di Milano, nonché direttore della rivista «Art e Dossier» e conduttore televisivo di «Passepartout» e di «Emporio Daverio».
Nel suo libro intitolato «Il museo immaginato» (edito da Rizzoli) scrive: «La nostra visione della storia dell’arte è ancora ottocentesca. Io mi diverto a cambiare i punti di vista. Sono i giochi di uno che guarda al passato per capire il presente».
Attraverso interessantissime pagine lui presenta una sua personale collezione d’arte, esponendo alcuni capolavori di grandi artisti, una sorta di viaggio in un «museo immaginato», descritto in maniera esaustiva e accattivante.

Quello che vorremmo raccontare noi ora, accogliendo un particolare suggerimento contenuto nelle pagine del libro, è come ci si dovrebbe porre di fronte a un quadro.
Naturalmente ogni opera si presta a diverse letture: il critico d’arte osserva con occhio diverso un dipinto, rispetto a una persona comune, tuttavia qualsiasi quadro andrebbe osservato per più di una manciata di secondi, da chiunque.
I musei di tutto il mondo pullulano di persone (molte delle quali sono naturalmente i turisti) che, percorrendo le sale museali piuttosto in fretta, vedono una gran quantità di opere d’arte in maniera del tutto superficiale.
Vedere un dipinto non significa infatti guardarlo, la differenza è tutt’altro che sottile e ce la spiega proprio Daverio, in uno dei primi capitoli del libro, (a pag. 19): «… Intere truppe di esseri umani vengono spinte da un mito ignoto a percorrere le sale a velocità da maratoneta per vedere da lontano opere celate dagli altri visitatori che si trovano davanti a loro».
«Al Louvre si sale con elegante fatica lo scalone che porta alla Nike di Samotracia, poi si gira a destra e si corre velocemente fra le sale degli artisti d’Italia, fino a entrare in un grande salone dove le orde, ormai già perse e disaggregate, rivolgono preferibilmente lo sguardo al soffitto: esso è molto decorato, ricorda una immagine confusa di pompa monarchica e viene come tale fotografato. Il Paolo Uccello appeso sotto appare un marinaio perso in un porto lontano…».

Si continua a leggere la descrizione del percorso fino ad arrivare nella sala più fotografata, quella in cui è esposta la Gioconda.
«…Le enormi Nozze di Cana di Veronese vengono sbirciate nel retrovisore perché si è giunti a destinazione: eccola la folla davanti alla Gioconda. Guai a essere un po’ più bassi della media, perché allora la si può vedere solo quando la coda avanza.
«Nella coda tante mani alzate perché protendono i telefonini per la foto d’obbligo. Infine per alcuni secondi si può vedere l’icona, dietro uno spesso vetro protettivo verde che la fa apparire come un’ostrica nel suo sugo.
«Cinque secondi per non vedere il capolavoro che Napoleone teneva in camera da letto e guardava prima di cadere nel suo breve sonno…».

Stando al ragionamento dell’autore, il tempo che viene mediamente dedicato all’osservazione dei singoli dipinti, nei musei, è veramente esiguo (potremmo anche dire pochi minuti o addirittura pochi secondi), cosa che, come ricorda lui, non avveniva nel passato, poiché una volta le opere d’arte erano ammirate nelle chiese dai fedeli nell’arco di un’intera vita e i quadri ospitati nelle famiglie che potevano permetterseli rimanevano nelle medesime dimore per intere generazioni e potevano quindi essere osservati a lungo.
Daverio a tal proposito dice che «c’è un modo per uscire dal consumismo dell’arte visiva, ridare tempo al tempo» e cioè bisognerebbe recarsi nel museo e guardare un solo quadro per volta.

Sembra un’assurdità detta così (anche valutando il costo del biglietto d’entrata e la necessità di ottimizzare i tempi durante una vacanza), ma pensandoci bene seguire il consiglio di Daverio sarebbe proprio un modo intelligente per apprezzare davvero un’opera, cogliendone le sfumature, valutandone i particolari, gioendone poi al ricordo.
«Non è facile, è veramente roba da iniziati – aggiunge, ricordando qualche riga più avanti altri modi attraverso cui poter iniziare a conoscere un dipinto. – Poi ci sono i libri. Vanno guardati con simpatica e distratta attenzione, aprendoli di tanto in tanto. Infine, c’è il magico strumento della nostra epoca.»
Suggerisce così un esercizio che consiste nell’andare a cercare una grande riproduzione dei «Coniugi Arnolfini» di Jan van Eyck (foto a pié di pagina).
Invita poi ad aprire l’immagine e a ingrandirla, muovendola, alla ricerca della collana di vetro appesa al muro («rimarrete stupiti dalla abile riproduzione della luce nell’ombra che lascia sul muro – commenta, – vedrete quanto questo muro è screpolato, come in un dipinto dell’Ottocento»), osservando poi bene le arance sul davanzale («troverete il legno dell’incavo della finestra con i chiodini arrugginiti – sottolinea – mentre la maniglia è fresca e potrete toccare il cemento che lega i mattoni»).
Poi esorta a spostare l’attenzione sul viso diafano della figura maschile, guardando infine gli zoccoli di legno del padrone di casa, «con le stringhette di cuoio invecchiato, e lui invece felice d’avere la calzatura si seta indenne dalle sozzure stradali», nonché le deliziose scarpette della figura femminile «vicino al tappeto d’Oriente…» (descrizioni a pag. 23).
«E ricordatevi» sottolinea «che è del 1432, e che tutto ciò ossessiona ancora oggi la pittura del reale». Conclude il capitolo con queste parole: «Siete pronti a questo punto ad andare a Londra, fare un paio d’acquisti inutili e una seria visita alla National Gallery dove il dipinto è appeso. Vi garantisco che non lo guarderete solo in dieci secondi.»

Il suggerimento di Daverio è assai prezioso, infatti prepararsi prima di una visita in una galleria o in un museo è proprio il metodo migliore per poter godere appieno della bellezza di un’opera d’arte e per poterla comprendere meglio, rapportandola al contesto in cui è maturata.

Daniela Larentis – d.larentis@ladigetto.it

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