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L’interconnessione fra noi e ciò che ci circonda – Di Daniela Larentis

«Il concetto di separatezza è solo un’illusione, stando al pensiero del famoso monaco zen Thich Nhat Hanh»

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È stato da poco inaugurato a Corsico, Milano, uno dei maggiori centri buddhisti europei, forse il più grande del vecchio continente.
Definire il Buddhismo è assai complicato, è considerato universalmente una religione (milioni di persone, nel mondo, vi aderiscono), per taluni lo è solo in senso ampio, molti lo definiscono una filosofia, altri una pratica spirituale, comunque esso ha origine dagli insegnamenti di Siddharta Gautama, vissuto nel VI sec. a.C., il quale al momento del cosiddetto «Risveglio» individuò «le quattro nobili verità».
Non è nostra intenzione, tuttavia, parlare del Buddhismo e dei suoi fondamenti, ci interessa menzionare piuttosto una delle virtù morali più care al buddhista, ossia la compassione; potremmo definirla quel tipo di sensibilità che permette di percepire la gioia e il dolore di un proprio simile, comprendendolo profondamente, poiché siamo tutti interconnessi, nessuno di noi è slegato dagli altri e dal contesto in cui vive.
 
Tutti conoscono il nome del monaco buddhista tibetano Dalai Lama, il quale nel libro intitolato «L’arte della felicità» (di Howard C. Cutler, edito dalla Mondadori, nel quale l’autore riporta i lunghi colloqui privati avuti con il Dalai Lama) a proposito della compassione disse (conferenza in Arizona con meditazione sulla compassione, riassunta a pag. 115):
«Quanto al metodo per maturare la compassione, cerchiamo innanzitutto di riconoscere che non vogliamo soffrire e che abbiamo diritto alla felicità. Tale verità possiamo constatarla e confermarla attraverso la nostra stessa esperienza.
«Vediamo allora di capire che, proprio come noi, anche gli altri rifuggono dalla sofferenza e hanno diritto alla felicità. È questa la base per cominciare a sviluppare il sentimento della compassione…».
 
Per quanto riguarda la sofferenza, riportiamo il pensiero sviluppato a pagina 120.
«Benché siano fenomeni umani universali, non è certo facile accettare il dolore e la sofferenza, e uomini e donne hanno ideato una vasta gamma di strategie per evitarli. In certi casi usiamo mezzi esterni come le sostanze chimiche, lenendo e curando il dolore dell’animo con farmaci o alcol.
«Inoltre abbiamo una serie di meccanismi interni: difese psicologiche, spesso inconsce, che ci impediscono di provare troppa pena e angoscia quando siamo costretti ad affrontare una difficoltà.
«A volte simili difese sono assai primitive: si pensi al rifiuto di riconoscere che un problema esiste; altre volte magari riconosciamo vagamente la sua esistenza, ma ci buttiamo nelle distrazioni e nei divertimenti per evitare di pensarci.
«Altre volte ricorriamo alla proiezione; incapaci di ammettere di avere un problema, lo proiettiamo inconsciamente sugli altri e ne diamo la colpa a loro…»
 
Quante volte, infatti, per evitare la sofferenza si incolpa della propria infelicità il proprio vicino con cui non si va d’accordo, il proprio capo ufficio, questa o quella persona ecc. (e qui gli esempi potrebbero essere infiniti).
Come si legge qualche riga più avanti, riferito in questo caso all’idea di felicità e all’uso di droghe e sostanze chimiche, «l’euforia prodotta da farmaci, droghe o alcol senza dubbio attenua per un certo tempo il dolore, ma, con l’uso continuato, il danno fisico procurato dall’organismo e il danno sociale procurato alla vita del soggetto induce una sofferenza ben più grande del senso di insoddisfazione o dell’intenso disagio psicologico che, all’inizio, avevano portato al consumo delle sostanze…».
Purtroppo, c’è chi cerca la felicità nel posto sbagliato, forse confondendo la felicità con il piacere.
 
Molte cose gratificano nel breve periodo, rivelandosi a lungo termine una delusione. Howard C. Cutler, a proposito dell’approccio alla sofferenza umana del Dalai Lama, ecco cosa scrive a pag. 122: «Il Dalai Lama spiegò in dettaglio il suo approccio alla sofferenza umana, un approccio che contempla, sì, la potenziale liberazione dal dolore, ma che innanzitutto considera quest’ultimo una realtà naturale della vita ed esorta ad affrontarlo coraggiosamente in maniera diretta».
A pag. 35, riguardo al concetto di felicità, leggiamo questo suggerimento pratico, qualcosa che noi tutti possiamo applicare nella vita quotidiana: «…Mi darà la felicità?»
«Questa semplice domanda rappresenta un prezioso strumento, perché può aiutarci a gestire tutti i settori della vita, non solo a decidere se dobbiamo indulgere alla droga o concederci una terza fetta di torta alla banana; ci consente infatti di osservare le cose con un’ottica nuova».
Vi è un’interconnessione fra l’individuo e tutto ciò in cui è immerso, le persone non sono slegate le une dalle altre, al contrario, ognuno fa parte di un tutto, ciò pare insegnarci la filosofia buddhista. È proprio per questo che occorre relazionarsi con il prossimo con benevolenza, perché in fondo il concetto di separatezza è un’illusione.
 
C’è un bellissimo romanzo di Simon Van Booy, intitolato «L’illusione della separatezza» (edito da Neri Pozza, 2014), nel quale, proprio nella prima aletta del libro, è riportato il seguente pensiero:
«Siamo qui per risvegliarci dall’illusione della separatezza: così suona un pensiero del monaco zen Thich Nhat Hanh. A volte basta un piccolo evento, a volte è necessario un lungo cammino per squarciare il velo dell’illusione e capire che siamo soltanto parte di un tutto…».
Due parole sul Thich Nhat Hanh, monaco zen vietnamita, poeta e costruttore di pace, figura molto nota e carismatica del Buddhismo (anche in Italia molte sono le comunità che traggono ispirazione dal suo pensiero).
Molti lo ricordano poiché durante la guerra in Vietnam egli animò un movimento di resistenza non violenta (gruppi di monaci e laici che si dedicarono alla costruzione di scuole, ospedali ecc. nei villaggi bombardati, subendo attacchi dai contendenti, entrambi li ritenevano alleati degli avversari).
 
Costretto all’esilio vive da anni in Francia, in una comunità di monaci e laici da lui fondata, organizzando dei ritiri spirituali ai quali partecipano ogni anno migliaia di persone, a cui trasmette i suoi insegnamenti. Fra questi anche l’invito a vivere la piena consapevolezza, poiché, interpretando il suo pensiero, ogni piccola azione quotidiana può essere importante se vissuta in modo consapevole.
La verità è che si è sempre molto distratti da tutto ciò che ci circonda, e spesso questo ci impedisce di cogliere la bellezza di ogni singolo momento; è come se non fossimo mai davvero consapevoli di ciò che stiamo vivendo, degli impercettibili cambiamenti che si susseguono inevitabilmente nella vita di ognuno.
E questa considerazione ci fa pensare alle parole di Simon Van Booy, al suo pensiero riportato a pag. 29 del romanzo: «Passiamo dalla memoria all’immaginazione con un’appena vaga consapevolezza del mutamento». Un’osservazione che fa riflettere.
 
Daniela Larentis – [email protected]

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