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La dignità del piccione – Di Daniela Larentis

Nel libro di un famoso autore tedesco il piccione simbolicamente rappresenta l’imprevisto e costringe il protagonista ad accettare il cambiamento

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Non ha il muso garbato di un cavallo, gli occhi dolci del cane né l’eleganza del gatto.
Non suscita quell’allegria mista a tenerezza tipica dei canarini, né il rispetto che incute il pappagallo.
Il suo sguardo fisso e privo di espressione sembra non voler affatto far trapelare una qualche emozione: stiamo parlando del piccione, il volatile che nell’immaginario comune è tanto detestato quanto poco considerato, perché insudicia, imbratta, rovina.
Un uccello giudicato molesto e portatore di moltissime malattie (alcune contagiose per l’uomo), fra cui la salmonellosi, la tubercolosi, l’ornitosi e chi più ne ha più ne metta.
Vien da pensare, tuttavia, se sia una colpa nascere piccione, anziché pecora, piuttosto che orso.
Non è certo cattivo, nessun animale lo è se per cattiveria intendiamo quella malignità, quella crudeltà, quell’iniquità tipica invece dell’uomo.
 
Gli animali non sono cattivi, nemmeno il piccione lo è.
Eppure, questo uccello che ama insediarsi nelle aree urbane, sporcando, è letteralmente odiato da molti.
Tanti lo ignorano, alcuni lo sopportano appena.
A questo punto sorge spontanea una domanda: ha più dignità un piccione o un canarino, una pecora o un orso, un gatto o un pesce? E chi lo sa, sembra che come sempre, del resto, sia l’uomo a stabilire cosa sia meritevole d’attenzione (e d’amore) e cosa lo sia meno, in base, si può supporre, al proprio mero interesse.
Così almeno la pensano alcuni.
 
A proposito di piccioni, lo scrittore tedesco Patrick Süskind ha scritto un libro intitolato «Il piccione», edizioni TEA, nel quale il protagonista, un uomo sulla cinquantina che conduce una vita alquanto monotona, un bel giorno si trova davanti alla soglia della sua stanza (abita a Parigi, in un sottotetto) niente meno che un piccione, e questo incontro sconvolge la sua piatta esistenza.
La vicenda del piccione (il quale simbolicamente rappresenta l’imprevisto) è assai significativa, un evento che per lui, privo di flessibilità, assume dimensioni assurde.
Egli è un uomo ancorato alle proprie abitudini (ogni accadimento fuori dall’ordinario è stato nel passato per lui causa di dolore, ecco perché odia gli imprevisti), il cui equilibrio viene turbato dalla presenza dell’odiato volatile che interrompe il tranquillo scorrere della sua esistenza (la vicenda si svolge nell’arco di sole ventiquattro ore).
Jonathan Noel, questo è il suo nome, ha problemi di relazione e a causa di avvenimenti risalenti alla sua infanzia e che riguardano la sua storia familiare non si fida del prossimo. Egli infatti ha vissuto più di un abbandono, quello dei genitori deportati quando era bambino, poi, dopo varie vicissitudini, da adulto viene lasciato dalla moglie che conosce appena, la quale scappa con un altro uomo portandosi via il figlio (pag. 9):
«Ma già quattro mesi dopo Marie partorì un maschio, e quello stesso autunno prese il volo con un commerciante di frutta tunisino di Marsiglia».
Qualche riga dopo si legge quanto segue: «…Da tutti questi avvenimenti Jonathan Noel trasse la conclusione che negli esseri umani non si potesse riporre fiducia e che si potesse vivere in pace soltanto tenendoli alla larga.»
Lui si sente sicuro solo nella sua piccola stanza nel sottotetto, una «chambre de bonne» al sesto piano in rue de la Planche, a Parigi, il suo rifugio dove poter condurre una vita serena, addirittura monotona, e dove i giorni si rincorrono gli uni uguali agli altri, al riparo dalla cattiveria del mondo.
 
Una stanza che non è per lui solo uno spazio, ma che rappresenta psicologicamente un punto fermo, un luogo accogliente su cui poter contare e, paradossalmente, qualcosa che per lui è molto più importante di qualsiasi persona.
Ecco come la descrive l’autore a pag. 14: «…Ma per trent’anni aveva conservato la sua qualità fondamentale: era e restava il porto sicuro di Jonathan nel mondo insicuro, restava il suo solido punto di appoggio, il suo rifugio, la sua amata, sì, perché la sua stanzetta lo accoglieva con tenerezza la sera quando rientrava, lo scaldava e lo proteggeva, lo nutriva nel corpo e nell’anima, era sempre presente quando ne aveva bisogno e non lo abbandonava; in effetti era l’unico bene che in vita sua si fosse dimostrato degno di fiducia…».
A ogni modo l’incontro con il piccione stravolge la sua vita e lui aprendosi alla novità, a nuovi equilibri, finisce con l’accettare che la vita è cambiamento.
Leggendo questo libro affiorano alla mente molti pensieri, uno dei quali riguarda la solitudine che alberga spesso nell’animo umano. E’ una condizione comune a molte persone, purtroppo.
 
Nessuno, però, può bastare a se stesso, al contrario, ognuno di noi ha bisogno degli altri, di stabilire relazioni positive con il prossimo, di aprirsi all’incontro, cercando di vivere in modo autentico.
Vivere in modo autentico può voler dire molte cose; per esempio lo fa l’uomo che è in grado di progettare il proprio futuro, di porsi degli obiettivi da raggiungere, di coltivare i propri sogni, alla luce delle proprie possibilità.
Si potrebbe dire che ogni persona abbia un progetto da realizzare e che ognuno possa essere il protagonista della propria storia.
La comunicazione (non solo attraverso le parole, ma attraverso i gesti, gli sguardi) è il ponte che permette di uscire dalla solitudine, dall’isolamento.
Il dialogo fra le persone è molto importante, esso conduce alla comprensione e al rispetto reciproco.
Può capitare che, molte volte per mancanza di dialogo, si provi addirittura odio o risentimento verso qualcuno.
Orientare la propria vita sulla strada del bene significa anche imparare a perdonare.
Più facile a dirsi che a farsi, tuttavia si può sempre provare, anche perché facendolo ci si libera dalla catena che ci tiene legati a chi ci ha arrecato offesa (perdonando si ritorna liberi, il perdono è quindi in fin dei conti un atto di libertà). 
 
Daniela Larentis – [email protected]

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