Contando le pecore... – Di Daniela Larentis
Se l’antico metodo non funzionasse, in caso di insonnia, si potrebbe sempre provare a riflettere sul mistero dei numeri e sul rapporto che ci lega alla natura
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C’è chi, in caso di insonnia, consiglia, anziché la solita tazza di camomilla, un bell’infuso di alloro da bere caldo poco prima di coricarsi oppure un decotto di luppolo.
Se non si impazzisce proprio all’idea di bere qualcosa di simile si può sempre optare per un antico rimedio suggerito per quando non si riesce proprio ad addormentarsi che è quello di contare le pecore, un metodo non proprio efficace a detta di molti e dall’effetto soporifero quasi nullo, sembrerebbe di capire.
Tuttavia, c’è anche chi racconta che, dopo averne contate almeno 40, sarebbe poi sprofondato immediatamente in un lungo sonno ristoratore.
Che sia il numero 40, ci siamo chiesti, la chiave del mistero? E chi lo sa, ma a proposito di questo numero abbiamo scoperto qualcosa di davvero curioso.
Nel libro di Albrecht Beutelspacher intitolato «Le meraviglie della matematica – 66 esperienze spiegate attraverso i numeri» (ed. Ponte alle Grazie, traduzione di Umberto Gandini) ecco cosa si legge sull’appassionante numero quaranta (pag. 115): «…Osserviamo ora di nuovo le componenti del numero 40, ovvero le cifre 4 e 0. Che sono davvero qualcosa di speciale.
Per il numero 4 vale sia 4 = 2 + 2 che 4 = 2 x 2. Non esiste altro numero positivo che si possa rappresentare come x + x e contemporaneamente come x x x.
Il 4 è il primo «vero» numero al quadrato (dopo 0 = 0³ e 1 = 1²).
Se il numero 2 simboleggia il principio del raddoppio, il 4 è il simbolo del duplice raddoppio.
Poi viene il numero 0, il più importante in assoluto!
E dire che la storia dei numeri si è svolta per secoli senza lo zero.
Perché si dovrebbe avere un simbolo per il «nulla»? Il nulla non sarebbe rappresentato al meglio… dal nulla?
Senonché l’invenzione dello zero da parte degli indiani, invenzione che gli arabi trasferirono poi nell’Europa occidentale, è la base della nostra rappresentazione numerica e del nostro – relativamente semplice – modo di calcolare.
Al più tardi dall’anno 1202 lo zero era noto anche in Occidente: fu allora infatti che il geniale matematico italiano Fibonacci pubblicò il «Liber abbaci» (Libro dell’abbaco), nel quale illustrò l’invenzione dello zero assieme a tutti i vantaggi che ne derivano».
Ma chi era Leonardo Pisano detto il Fibonacci? Il matematico italiano vissuto a cavallo del 1100 e 1200, divenne famoso per i suoi importantissimi studi e per la celebre sequenza aritmetica da lui elaborata, nota con il nome di «successione di Fibonacci» (1,1,2,3,5,8,13,21,34,55… dove ogni termine, a parte i primi due, sono la somma dei due precedenti).
A proposito di numeri: ci fu un famoso matematico nonché astronomo, politico e filosofo greco antico fondatore della scuola a lui intitolata che era fissato con i numeri, naturalmente stiamo parlando di Pitagora (sarebbe stato il figlio niente meno che di Apollo, secondo un mito popolare diffuso nel I sec. d.C. da Apollonio di Tiana), nato nell’isola di Samo (in Grecia) e vissuto un bel po’ prima di altri due famosi filosofi, Platone e Aristotele (alla scuola pitagorica è attribuita l’idea che alla base della natura vi siano relazioni matematiche).
Il suo teorema è noto a tutti, mentre le notizie relative al suo pensiero e alla sua vita si devono in gran parte (ricostruzione storica del pitagorismo) a Platone e Aristotele (vissuti grosso modo un po’ meno di due secoli dopo il grande sapiente) e molto più tardi anche ai racconti biografici dei filosofi Giamblico, Porfirio o dello storico Diogene Laerzio.
La figura di quest’uomo si perde nella notte dei tempi: sembra che ancora giovane si sia recato in Egitto e che per completare la sua formazione abbia girato un bel po’ prima di ritornare in patria e diventare maestro del figlio del tiranno dell’isola (si dice che, durante il suo peregrinare, abbia fra le altre cose imparato nozioni di astronomia dai caldei, di geometria dai fenici e che abbia perfino incontrato il persiano Zarathustra).
Successivamente si narra abbia lasciato Samo e si sia diretto sulla costa calabra, sbarcando a Crotone e fondando lì una scuola (le cui regole pare fossero piuttosto particolari. Sia lui che i suoi discepoli sembra ci tenessero molto alla segretezza, tanto da non lasciare scritti).
Tornando ai numeri, per i pitagorici il numero 4 rappresentava la giustizia e il 5 il matrimonio.
Il 10 era il numero considerato perfetto, un’entità divina, e l’1, il 2, il 3 e il 4 erano considerati numeri speciali, in quanto la loro somma dava appunto 10.
C’è un libro molto interessante che parla di Pitagora, intitolato «La musica di Pitagora – la nascita del pensiero scientifico», di Kitty Ferguson (l’autrice di «L’uomo dal naso d’oro»).
A proposito di alcune abitudini del grande filosofo e matematico e dei suoi discepoli ecco cosa si legge a pag. 69: «Aristotele era sicuro che Pitagora e i suoi seguaci mangiassero la carne di animali, eccezion fatta per l’utero e il cuore e i ricci di mare.
Forse evitavano anche la triglia di scoglio, aggiunse Plutarco. Diogene Laerzio insistette che erano proibiti la triglia di fango, il melanuro e il cuore di animali, ma riferì che secondo Aristosseno egli permetteva di cibarsi di tutti gli altri animali, eccezion fatta per gli agnelli, per i buoi, che erano spesso usati per arare i campi, e per i montoni (VIII, 19-20).
Porfirio, fondando la sua conclusione su un’antica fonte del IV sec. a.C. o inizio del III, pensava che Pitagora osservasse un doppio livello. Chi non era impegnato nel perseguimento pitagorico della sapienza, che durava per tutta la vita – per esempio un atleta o un soldato (ricordiamo il consiglio di Pitagora ai giovani atleti olimpici) – poteva mangiare carne. Ai membri della propria scuola permetteva invece solo un assaggio rituale della carne che veniva offerta in sacrificio agli dei…».
Sembra proprio che Pitagora odiasse le fave, anche se a pag. 72 è scritto: «Gellio», Aulo Gellio il quale provò a chiarire l’equivoco delle fave, «spiegò qui che la parola fave non significava il legume, bensì i testicoli».
I pitagorici usavano aforismi oscuramente simbolici che potevano essere decifrati solo da altri pitagorici, e quando Empedocle parlò di «fave», sottolineò Gellio, intendeva simboleggiare con essa la causa della gravidanza umana e l’impulso alla riproduzione.
La fava è, dopotutto, un seme, dalle potenzialità simili.
Gellio interpretò quindi la frase di Empedocle nel senso di guardarsi dai capricci dei rapporti sessuali…».
(Pare altresì che Pitagora non incoraggiasse il celibato, egli stesso sembra abbia avuto dei figli).
Invece, riguardo alla musica, ecco cosa si legge all’inizio del cap. 5, a pag. 76: «La scoperta pitagorica che tutte le cose che si conoscono hanno numero, poiché “senza il numero non sarebbe possibile pensare né conoscere alcunché (DKr, 44 B 4), fu fatta in musica».
«È ben stabilito, come poche cose di Pitagora lo sono, che la prima legge matematica che sia mai stata formulata matematicamente fu la relazione fra l’altezza dei suoni e la lunghezza di una corda d’arpa vibrante, e che essa fu espressa dai primissimi pitagorici.
«Antichi studiosi, come il discepolo di Platone Senocrate, pensavano che la scoperta fosse stata fatta dallo stesso Pitagora…».
L’invenzione del «kanon», uno strumento a una sola corda, è attribuita proprio a Pitagora.
È interessante a pag. 79 leggere quanto segue.
«Quando Pitagora e i suoi discepoli videro che certi rapporti di lunghezza di corde producevano sempre l’ottava, la quinta e la quarta, balenò nella loro mente l’idea che dietro la bellezza che essi udivano nella musica doveva esserci una regolarità nascosta: una regolarità che riuscivano a capire, ma che non avevano creato o inventato loro, e che non potevano cambiare. Regolarità aritmetiche e geometriche simili dovevano celarsi dietro tutta la quotidiana confusione e complessità della natura; nell’universo c’era ordine, e quest’ordine era fatto di numeri…».
Molti uomini del Cinquecento furono affascinati dalle idee dei pitagorici, dalla loro intuizione che alla base della natura vi fosse armonia espressa in numeri, uno di questi fu Andrea Palladio, il celebre architetto nato a Padova nel 1508, autore di «Quattro libri dell’architettura» (1570).
Si legge a pag. 264: «Nel libro I Palladio scelse sette insiemi delle proporzioni più belle e armoniche da usarsi nell’architettura delle sale. Fra di esse c’erano ovviamente il cerchio e il quadrato. Altre quattro erano derivate dai rapporti musicali pitagorici…».
E oggi come ieri, l’uomo non può essere considerato staccato dall’ambiente in cui vive, basta guardarsi attorno per rendersene conto!
Siamo tutti parte integrante di qualcosa di immensamente più grande che abbraccia il concetto di natura, una natura dietro alla quale pare celarsi razionalità e ordine, come i pitagorici avevano intuito moltissimo tempo fa, e spetta proprio a noi meditare sul rapporto che ci lega a essa, alla luce di una riflessione profonda sul senso stesso del nostro vivere.
Daniela Larentis
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