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Gli alberi di Mastro 7 – Di Daniela Larentis

Le sette opere racchiudono il pensiero dell’artista trentino e simboleggiano il legame profondo fra la terra e il cielo

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Luca, Settimo e Giangranco Tamanini.
  
È primavera. Le chiome fiorite delle piante sembrano ora voler ricordare a tutti che dopo il gelo dell’inverno la natura si risveglia, in un tripudio di profumi, suoni e colori che ammalia.
Osservando la bellezza degli alberi in fiore vengono in mente alberi altrettanto meravigliosi, forgiati dalle sapienti mani di un famoso orafo e scultore trentino: Settimo Tamanini, in arte «Mastro 7», che ha saputo plasmare il metallo in maniera sublime, creando delle stupefacenti sculture: sette straordinari alberi in rame soffiato a fuoco, le «Grandi Madri», e molte altre opere.
Due parole sull’ artista che insieme ai figli Gianfranco e Luca (i quali lavorano con lui condividendo con entusiasmo la medesima passione) rappresenta attraverso le sue creazioni il pensiero profondo che lega l’uomo alla terra e al cielo. 
  
È interessante provare a capire l’uomo che si cela dietro all’artista, cercando di intuire quale sia la natura profonda di questo personaggio dalla mente articolata, la cui grande abilità contrasta con l’umiltà che lo contraddistingue.
Sesto di sette fratelli, era fra tutti quello dotato fin da piccolo di una spiccata inclinazione artistica, tanto da mostrare subito la sua innata predisposizione per il disegno. 
  
Istintivo e particolarmente sensibile, ha iniziato a dipingere fin dalla tenera età meravigliosi paesaggi montani, delicati ritratti che via via s’intristivano sempre più nel tempo, fino a diventare maschere angoscianti, tanto che a un certo punto lui smise di disegnare.
Più avanti ebbe modo di capire che dietro quei visi inquietanti si celava il puerile tentativo di esorcizzare un evento drammatico al quale lui stesso aveva assistito e che non era riuscito ad accettare: la scena di due bambini nell’atto di raccogliere due ordigni bellici scoppiati poi improvvisamente, causandone la morte, nella zona sud del paese di Mattarello.
  
 
Castagno.

Abbandonata la pittura, ripresa poi in età adulta (dopo aver sposato Fausta, la compagna che gli è sempre rimasta accanto e che con lui ha diviso un’intera vita, la madre dei suoi figli) si è avvicinato, innamorandosene, al variegato mondo dei metalli.
Era il 7 settembre 1957 quando iniziò il suo lavoro a fianco del maestro cesellatore Vittorio Benetti e da lì in poi è storia che noi tutti conosciamo (anche la bisnonna Irene Agostini fu una cesellatrice, segno che «buon sangue non mente»).
«La famiglia», così come «la casa», è un tema ricorrente nelle opere di Mastro 7 e per far comprendere meglio quanto questo valore sia radicato in lui è bello ricordare un simpatico episodio che fa parte della sua vita familiare e che ha come protagonista un albero del tutto speciale: un ciliegio, attorno al quale ruota la storia della sua famiglia. 
  
Il nonno di Settimo, Pietro, era un uomo profondamente legato alla propria terra.
Occorre sapere che nel 1885 piantò un ciliegio nell’orto, alla nascita del figlio Giovanni Attilio (il padre di Settimo). Quando questi, molto tempo dopo tornò dalla guerra con il legno di quel ciliegio ci costruì i mobili della stanza matrimoniale, dove lì nacquero i suoi sette figli.
Una volta c’erano padri che abitualmente costruivano con fatica e amore la propria casa, perfino i mobili, mettendo in piedi non solo dei muri, ma scavando nella terra le fondamenta della propria famiglia, la quale rappresentava un valore centrale nella vita di ognuno.
Un «bene» che non era negoziabile e qui, ancora adesso, vive ed opera Mastro 7.
  
È proprio Mastro 7 a ricordare un detto popolare che evidenzia l’importanza del ruolo della donna, della madre in questo caso, altro argomento a lui caro: «Quando more ’na mare, pianze i travi del quert» («Quando muore una madre piangono anche le travi del tetto»).
Questo detto rimanda alle parole di Hermann Hesse, il celebre scrittore e poeta tedesco che nel suo romanzo «Narciso e Boccadoro» racconta la storia di una meravigliosa amicizia fra il monaco Narciso e l’artista Boccadoro, due personalità opposte.
Ecco cosa dice infine Boccadoro, prossimo alla morte, al suo amico Narciso (ed. Oscar Mondadori): «Come puoi morire un giorno se non hai una madre? Senza madre non si può amare e non si può morire». Parole struggenti che toccano nel profondo.
  

Fico e Mandorlo.

La donna è per Mastro 7 una figura emblematica. Egli afferma di volere «attraverso l’arte restituire il ruolo naturale della donna».
Ora meglio si spiega il titolo delle sue opere: «Le Grandi Madri». La madre, simbolo di dolcezza, amore incondizionato, fecondità; e l’albero, icona di femminilità e madre di tutte le cose.
«Ho provato – egli spiega – ad andare in profondità, ispirandomi alla Bibbia», citando poi la Genesi (La Bibbia Testo ufficiale CEI - Ed. Piemme - Genesi 2,22): «Il Signore Dio plasmò con la costola, che aveva tolta all’uomo, una donna e la condusse all’uomo».
Sottolinea infine l’intento di «cercare di rappresentare in maniera sublime la Madre di Dio», la figura femminile simbolo del trionfo del bene sul male: Maria, la madre di Gesù.
 
Mastro 7 si ispira spesso alla Bibbia nella creazione di tutte le sue sculture, anche di quegli alberi meravigliosi, frutto del contrasto, da cui nasce l’armonia delle forme.
Il contrasto, altro tema a lui caro: la rappresentazione delle due facce della stessa moneta, il bene e il male, il caldo e il freddo, il buio e la luce e via di questo passo.
Così il contorcersi del tronco dell’ulivo di Getsemani (l’Orto degli ulivi in Terrasanta), nell’opera intitolata «Albero della meditazione», trasmette un senso di infinita sofferenza e si contrappone allo splendore della chioma e dei frutti, simbolo di fecondità e pace. 
 
Mastro 7 racconta che detto albero «nacque» in un Venerdì Santo (come ben tutti sanno giorno in cui viene commemorata la Passione e la Crocefissione di Gesù, il venerdì che precede la Pasqua cristiana).
Proprio in quel periodo Papa Giovanni Paolo II morì dopo molti patimenti (2 aprile 2005).
La sua malattia, la sua croce, simboleggiata dal deformarsi di quel tronco, si contrappone al messaggio meraviglioso che Papa WojTyla ci ha lasciato, rappresentato da quelle straordinarie olive, frutto del suo lungo pontificato.
 

Melo e Melograno.
  
«L’albero della prosperità», il melograno, innalza i suoi sottili rami verso il cielo, simboleggiando l’abbondanza. Non si può che rimanere incantati innanzi alla sua grazia, osservando la rotondità di quei frutti che maturi sembrano essere sul punto di staccarsi e di cadere a terra.
Viene così naturale, poi, toccare la liscia corteccia dello splendido «Albero dell’accoglienza», il fico, i cui frutti si aprono qua e là fra l’apparente leggerezza delle foglie e dei rami, facendo generosamente dono di se stessi.
 
Ma è «L’albero della generosità» a sorprendere l’osservatore lasciandolo letteralmente senza parole.
È un castagno alto 500 cm e largo 450 cm che con la perfezione delle sue foglie, la rotondità dei suoi ricci, i profondi solchi del suo tronco, commuove e stupisce; nell’osservarlo un pensiero si fa spazio fra la meraviglia di quella chioma rigogliosa: «L’artista ha plasmato il metallo donandoci la bellezza della sua opera, così come il Creatore ha plasmato l’intero Creato».
Cosa è l’arte se non la manifestazione dello spirito, l’espressione della propria interiorità, un mezzo, come alcuni filosofi hanno teorizzato, per rivelare la verità?
Il collegamento con qualcosa di più grande, di infinito?
La compiutezza di quell’albero, infatti, rimanda alla perfezione dell’Universo e al suo Creatore. Mastro 7 dichiara che «il compito dell’artista è dire la verità».
 
Accostandosi all’«Albero della gioia», la Vite, verrebbe spontaneo tentare di staccare quegli invitanti grappoli dagli esili rami; quanta gioia ha accompagnato nella storia quel semplice atto, staccare il grappolo d’uva dalla pianta, il perpetuarsi delle antiche tradizioni.
L’«albero del risveglio», il Mandorlo, emoziona con quei piccoli fiori aperti alla vita, mentre l’«Albero della conoscenza» ha un’aria del tutto familiare: è il rigoglioso melo, i cui frutti noi tutti conosciamo e apprezziamo.
 

Olivo e Vite.

Mastro 7 dedica idealmente una pianta alla sua famiglia.
«Il castagno per i miei nipoti», questo meraviglioso albero attorno al quale pullula la vita è dedicato ai futuri nipoti, alla futura discendenza: fra le sue fronde nidificano gli uccelli, ai suoi piedi crescono i frutti del sottobosco, funghi, fragole e molto altro; è una pianta longeva i cui frutti sono protetti dagli aculei dei ricci.
«L’olivo per i miei figli», questa splendida pianta simbolo di pace e fratellanza è dedicata a Gianfranco e Luca, i quali lavorando con fervore al suo fianco hanno portato innovazione e competenza oltre che rinnovate energie e creatività. A loro, per sua stessa ammissione, ha lasciato in eredità «la passione per il bello».
«La vite per me» afferma, dedicando a se stesso una pianta i cui frutti sono apprezzati e conosciuti ovunque: «in vino veritas» ossia nel vino la verità» (chi eccede nel bere, infatti, dice la verità senza inibizioni).  
 
La vite, pianta antica simbolo di fecondità e di saggezza, simbolo nella Genesi dei doni che Dio elargisce all’uomo (La Bibbia, testo ufficiale CEI ed. Piemme - Gn 27, 28): «Dio ti conceda rugiada del cielo e terre grasse e abbondanza di frumento e di mosto».
E noi tutti, verrebbe da aggiungere, possiamo infine godere dello splendore di tutte le sue opere, perché la bellezza è un dono da condividere.
 
Daniela Larentis
[email protected]
(Rubrica Pensieri e Parole)

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