Non è certo il Paradiso (che può attendere) – Di Daniela Larentis
È il Paese della Cuccagna, un luogo leggendario che richiama abbondanza e appagamento
Pieter Brügel il Vecchio, il famoso pittore fiammingo del XVI secolo, realizzò nel 1567 un celebre dipinto a olio intitolato «Il paese della Cuccagna» (foto), conservato a Monaco presso un museo d’arte, l’Alte Pinakothek. L’opera ritrae tre giovani figure che rappresentano i tre ceti della società feudale: un contadino, un chierico e un soldato, appisolati ai piedi di un tavolo imbandito.
A sinistra si nota un soldato sbucare da un nascondiglio, sul cui tetto si vedono in bella mostra delle torte. In primo piano si nota un appetitoso uovo à la coque, più indietro un pollo arrosto e un maiale, infine si intravede un uomo che fuoriesce dal buco scavato in una montagna di polenta, tenendo in mano un mestolo.
Il luogo leggendario, che richiama abbondanza e appagamento, compare in molti testi; se ne parla per esempio nel Decamerone, nel quale si cita la terra di Bengodi, un luogo immaginario che il Boccaccio colloca nella terra dei Baschi.
Nel libro di Umberto Eco, «Storia delle terre e dei luoghi leggendari», l’autore ci dà numerose notizie a riguardo. Per esempio ci racconta che in un dramma tedesco questo luogo si trova invece fra la città di Vienna e quella di Praga, mentre in un poemetto inglese medievale è in mezzo al mare, a ovest della Spagna.
Chi non ricorda poi il «Pinocchio» di Collodi, dove il Paese dei Balocchi, (che altro non è che quello della Cuccagna) rappresenta il luogo del piacere smodato che non conduce a nulla di buono?
Arturo Graf, poeta e critico letterario dell’Ottocento, nel libro «Miti, leggende e superstizioni del medio evo», edito da Bruno Mondadori, ecco cosa scrive a riguardo.
«L’immaginazione del Paradiso terrestre, e le altre consimili, hanno stretta relazione con quella del Paese di Cuccagna, o come altrimenti si chiami la terra beata che nelle tradizioni orali e nelle letterature di buona parte d’Europa ebbe quel nome» e poco dopo continua dicendo che «del resto, tra le due immaginazioni non c’è una separazione costante e sicura, anzi si passa per gradi dall’una all’altra: il Paradiso è talvolta poco più nobile e poco più spirituale del Paese di Cuccagna, e talvolta il Paese di Cuccagna, idealizzandosi alquanto, diventa un Paradiso.»
Umberto Eco, nel libro sopracitato, ecco cosa scrive a pag. 289: «I greci hanno parlato di terre felici come la città degli uccelli di Aristofane, che abbonda di ricchezze e letizia e «Luciano» descrive nella «Storia vera» (che inizia asserendo di essere piena di menzogne) una città dei beati tutta d’oro dove le spighe, invece di chicchi, recano pani – per non dire dell’abbondanza dei piaceri di Venere.
In un trattatello, greco in origine, tradotto in latino nel IV secolo, e intitolato Expositio totius mundi, si descrive un paese dove un popolo felice, ignaro dai morbi, si ciba di miele e di pani che cadono dal cielo.»
Sembrerebbe quasi una sorta di Paradiso, ma naturalmente il Paradiso è un qualcosa di ben diverso, che poco ha a che vedere con il Paese di Cuccagna.
Ecco come Vito Mancuso, famoso filosofo e teologo italiano, ne parla nel lungo capitolo dedicato al Paradiso, nel suo libro «l’Anima e il suo destino», edito da Raffaello Cortina editore.
«La distinzione tra anima e corpo che contrassegna la dottrina si inquadra nella modalità superata di pensare l’essere di molti secoli fa, per la quale la materia è una realtà altrettanto ultima come l’energia.
«Questa prospettiva pensa l’essere diviso in due, spirito da una parte e materia dall’altra, delle quali l’anima e il corpo vengono ritenuti le manifestazioni, incommensurabili l’una all’altra, a livello antropologico.»
E ancora, continuando più avanti, «come la materia non è una sostanza diversa rispetto all’energia, così il corpo non è una sostanza diversa rispetto all’anima. Come la materia è una manifestazione della realtà fondamentale che è l’energia, così il corpo è una manifestazione della realtà fondamentale che, a livello antropologico, è l’anima. L’energia è il fondamento della materia, l’anima è il fondamento del corpo, forma corporis dice giustamente il dogma. L’energia non si crea né si distrugge, la materia si crea e si distrugge in continuazione».
Il corpo e l’anima esprimerebbero stando a quello che scrive Mancuso due diverse configurazioni della medesima realtà e precisamente come lui stesso afferma «non essendo due realtà ontologicamente distinte, ciò che si afferma mediante l’immortalità dell’anima – ecco il punto decisivo – è esattamente lo stesso di ciò che si afferma mediante la risurrezione della carne».
Quindi stando a questo ragionamento, esiste un unico essere, un’unica energia che si manifesta attraverso due diverse modalità: corpo e anima, ossia la medesima realtà, visto che l’essere è unico.
Più avanti, a pag. 226 afferma ancora circa la risurrezione del corpo.
«In questa prospettiva si comprende che dichiarare l’immortalità dell’anima equivale a sostenere che anche la risurrezione del corpo, se per corpo si intende non la carne materiale ma l’Io e la sua personalità, il corpo spirituale di cui parla San Paolo in 1 Corinzi 15, 44. Se la sostanza ontologica è la medesima per l’anima e per il corpo, se ciò che li distingue è solo una diversa configurazione dell’energia, o completamente legata alla massa (corpo) oppure più libera (anima) o del tutto libera (spirito) dalla massa, al fondo corpo e anima sono la medesima realtà e dichiarare l’immortalità dell’anima o la risurrezione della carne equivale a dire la stessa cosa».
Per alcuni queste parole potrebbero risultare molto confortanti, è come dire che non spariremo per sempre, una volta lasciato questo mondo, mantenendo la nostra «personalità» e il nostro «corpo spirituale».
Si dovrebbe in quel caso però rinunciare all’idea di oziare tutto il santo giorno (anche perché dividere il tempo non avrebbe senso nell’eternità), chiacchierando per esempio del più e del meno con i nuovi venuti, e sperare invece in qualcosa di assolutamente diverso.
Daniela Larentis
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