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Da Camargue a Barcellona, sognando Gaudì – Di Daniela Larentis

«Vi sono luoghi che affascinano più di altri, imbevuti d’arte, di storia e di magia»

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Vi è una città meravigliosa, baciata dal sole, impregnata di sale, imbevuta di storia e di arte e che trasuda magia. Questa città è Barcellona e una volta lasciata, il primo impulso che vi coglierà improvviso sarà il desiderio di tornare per rivederla ancora.
Se avete perso l’aereo, il treno vi annoia e l’auto vi stanca, sappiate che è possibile raggiungerla anche in camper, non solo transitando da Genova e dalla Liguria, ma in alternativa puntando verso Torino e oltrepassando Monginevro, raggiungendo poi il paese di Briancon, appena al di là del confine italo-francese, muovendosi dunque in direzione di Camargue, la zona che abbraccia il delta del fiume Rodano, nel sud della Francia, dove vi è una straordinaria coabitazione di specie diverse: dai piccoli insetti come le diffusissime zanzare alle delicate libellule, ai superbi aironi, agli eleganti fenicotteri rosa, ai verdi ramarri fino ai laboriosi castori, ai robusti tori dal lucido mantello nero, agli splendidi cavalli bianchi che vivono allo stato brado in una vastissima riserva unica al mondo, una terra impregnata di acqua e di sale, dove il limpido azzurro del cielo, nel quale si intrecciano i voli di più di quattrocento specie di uccelli, si confonde nelle profondità blu del mare.
 
Passando da Arles, che invita a scoprire la sua storia attraverso i numerosi monumenti come il teatro, l’anfiteatro, i musei, deviamo verso S. Marie de la Mer e puntiamo, prima di proseguire il viaggio in direzione della Costa Brava per raggiungere la capitale della Catalogna, verso Agues Mortes.
Antico villaggio francese dal quale Luigi IX di Francia si imbarcò per ben due crociate (dalla seconda delle quali non tornò più, morì infatti a Tunisi di peste nel 1270), non si può che rimanere rapiti dal fascino del suo antico borgo medievale, che vanta una delle cinte murarie meglio conservate d’Europa e che fu realizzata nell’arco di cinquant’anni.
Luigi IX fece infatti costruire la Tour Constance, possente maschio a difesa del luogo e alla sua morte il figlio Filippo l’Ardito continuò l’opera e fece innalzare i bastioni (fondò allo scopo una società di finanziamenti mediante l’aiuto dell’Ordine dei Templari).
A completarla ci pensò il suo successore, Filippo il Bello. 
 
Parlando di crociate (serie di campagne militari, se ne contano nove, intraprese dall’XI al XIII secolo), esse furono volute dal papato al fine di riconquistare la Terra Santa occupata dai musulmani e «a vendicare gli oltraggi subiti dalla città di Cristo» (oltre che al contempo direzionare gli alterchi fra i nobili fuori dall’Europa).
Allo scopo vennero creati ordini cavallereschi, il più noto dei quali è quello dei Templari.
Nel 1119 o giù di lì alcuni cavalieri al fine di vigilare i viaggi dei pellegrini cristiani fondarono infatti l’ordine chiamato «Ordine dei cavalieri del Tempio», con sede a Gerusalemme.
 
Bernardo di Chiaravalle, monaco e abate francese, fondatore di vari monasteri fra cui la famosa abbazia di Clairvaux, Chiaravalle, scrisse un testo a riguardo, «L’elogio della nuova cavalleria», un famoso trattato sui Templari, un testo che fra le varie cose trasmetteva l’idea che l’uccisione del nemico nella guerra contro i pagani facesse trionfare sostanzialmente il bene sul male e sul peccato, anche se lui riteneva che sarebbe stato meglio non uccidere nessuno ed esortava a seguire tutta una serie di atteggiamenti, come l’obbedienza totale, l’adozione di un abbigliamento sobrio, la prudenza nel combattimento ecc.
Sua la citazione «Troverai più nei boschi che nei libri. Gli alberi e le rocce ti insegneranno cose che nessun maestro ti dirà»
Dante nella Divina Commedia lo collocò in veste di guida nell’ultima parte del suo viaggio, in Paradiso (canto XXXI). 
 

  
Ma di crociate la Chiesa ne condusse anche in Europa, per esempio quella albigese, che fu diretta contro i catari per vent’anni (a partire più o meno dal primo decennio del milleduecento), cristiani eretici che vivevano nella regione di Albi, in Francia, predicando povertà, castità e penitenza (e che grazie a papa Innocenzo III furono quasi del tutto sterminati nei territori della Linguadoca).
Di una setta catara e di un thriller avvincente, ambientato nel quartiere Gotico di Barcellona, si parla nel romanzo di Riccardo Gwyn intitolato «Color cane che fugge» edito da Neri Pozza. L’intrigo parte quando Luca, il protagonista (un trentatreenne traduttore di testi letterari che vive in un «atico», dal quale può ammirare il vecchio mercato di piazza Santa Caterina), trova sul pavimento una cartolina, una riproduzione di un quadro di Joan Mirò, sul retro della quale sono indicati una data e l’orario di quello che sembra essere un appuntamento. 
 
Una storia «colore cane che fugge» come dicono a Barcellona (e come cita il titolo), ossia incerta e nebulosa, piena di fascino e mistero, come le vie della Rambla, dove la vita pulsa sia di giorno che di notte fra l’allegro vociare della gente che si perde fra le bancarelle di fiori, le gabbie degli uccelli, i negozi che si susseguono l’uno dopo l’altro, gli artisti di strada, mimi, musicisti e molto altro, da piazza Catalunya e giù fino al porto antico, passando dal mercato della Boqueria, davanti al quale proprio Joan Mirò eseguì uno splendido mosaico sulla strada.
Famoso pittore, scultore e ceramista, esponente del surrealismo spagnolo, egli nacque nel 1883 a Barcellona, città che ospita una fondazione a lui dedicata (la Fondazione Mirò, nella quale si possono ammirare numerosissime delle sue opere più belle e che vale davvero la pena di visitare).
 
Come non farsi guidare dall’atmosfera e dai profumi delle bancarelle che offrono di tutto, dalla verdura alla frutta più insolita, dal pesce fresco alla carne, ai dolci, alle spezie, in un tripudio di colori davvero invitanti?
E parlando d’atmosfera, quella rivoluzionaria della Barcellona durante la guerra civile spagnola venne ben descritta dallo scrittore e giornalista inglese George Orwell nel suo libro autobiografico «Omaggio alla Catalogna» (egli si arruolò nelle file repubblicane, partecipò ai «disordini di maggio» a Barcellona, fu in seguito anche gravemente ferito e dovette infine abbandonare clandestinamente la Spagna per non essere arrestato).
 
Barcellona è una città incredibile, come incredibili sono le opere di Gaudì, l’architetto considerato il massimo esponente del «Modernismo catalano» e uno dei maestri dell’Art Nouveau in Europa, colui che creò uno stile del tutto originale e unico ammirato da migliaia di turisti ogni giorno.
Oltre al suo capolavoro, la celeberrima Sagrada Familia, la grande basilica cattolica conosciuta ovunque e simbolo della città (tuttora in costruzione, la progettò ispirandosi alla natura, creando internamente un gigantesco bosco simbolico), ideò molte altre opere, tra cui parchi (lo stupefacente Park Güell dalle forme sinuose e costellato di elementi fantastici davvero suggestivi), ville, palazzi e case, fra le quali ne ricordo solo alcune: «Casa Batlò» con i suoi comignoli che si stagliano contro l’azzurro del cielo, e «La Pedrera», con la sua facciata in pietra e le sue ringhiere in ferro battuto, solo due esempi della sconfinata creatività di un vero genio.
Nel primo caso Gaudì trasformò un edificio come tanti in un’opera d’arte, in cui seppe combinare magistralmente materiali, forme e colori, creando una serie di stanze luminose e accoglienti in cui prevalgono le linee curve.
Nel secondo caso immaginò La Pedrera come un enorme organismo vivo in costante movimento, in cui la pietra evoca con la sua forma le onde del mare, interrotta solamente dalle ringhiere realizzate con ferro recuperato, l’una diversa dalle altre, benché costruite con il medesimo sistema. 
 

 
A Barcellona visse anche Pablo Picasso che partì da Malaga con la sua famiglia all’età di quattordici anni e vi approdò nel 1895, rimanendovi stabilmente fino al 1904, quando lasciò la città definitivamente.
Un museo dedicato a molte delle sue meravigliose opere, gran parte delle quali relative al periodo della sua formazione, ma anche altre eseguite negli anni più maturi, si trova nel quartiere Barri Gòtic.
Che dire di questo celeberrimo pittore del quale è stato già tutto scritto, se non che al cospetto delle sue stupefacenti opere è impossibile non avvertire la sua straordinaria grandezza?
Di fronte alla luce crepuscolare racchiusa nel suo quadro «Terrazzi di Barcellona», per esempio (facente parte di un gruppo di opere realizzate fra il 1901 e il 1904 in cui predomina il colore blu, appartenenti a quella che verrà definita «l’epoca blu», periodo nel quale lui visse dividendosi fra Barcellona, Parigi e Madrid), non si può che lasciarsi trascinare dallo stupore misto a un senso di indefinibile malinconia, così come carica di sconsolata amarezza ci appare la sua opera «Il matto», dello stesso periodo: è un acquerello su carta che racchiude una forte componente spirituale e che trasmette un sentimento che non so definire, forse «tristezza», è un’opera che «ammalia», provocando un sottile dolore nello scorgere quelle lunghe membra allungate, quelle mani piegate scompostamente, quel ghigno e quello sguardo infelice di quello straccione dall’aria svitata così sapientemente ritratto.
 
In questi anni vissuti a cavallo tra Parigi e Barcellona, Picasso dipinse numerose opere in cui ritrasse persone, mute testimonianze di una realtà, che vivevano ai margini della società, senza la speranza di un futuro.
Presso il museo è possibile ammirare moltissime altre sue opere dalle tinte allegre e molto più colorate, per esempio «La nana» o «L’attesa», che racchiudono una grande energia e le cui pennellate conferiscono ai quadri l’aspetto quasi di un mosaico, oltre che a una miriade di altre realizzazioni di successivi altri periodi (una serie di oli, interpretazioni dell’opera del pittore Velázquez, «Las Meninas», per esempio) e molto altro (incisioni, litografie, ceramiche ecc.).
La Barcellona di Picasso è comunque concentrata nella città vecchia e dintorni; quello che è certo è che lui amò questa splendida città e infatti, il 12 gennaio del 1936 fu lui stesso a scrivere: «…Barcellona la bella e intelligente ove io lasciai tante cose appese sull’altare dell’allegria che adesso mischio con un po’ di colore del collo del piccione della melanconia», citazione che è riportata sulla guida relativa alle sue opere reperibile presso il museo («Picasso a Barcellona» ed. Fisa Escudo de Oro).
 
Vi sono luoghi che ammaliano, imbevuti d’arte, di storia e di magia, nei quali è anche bello fantasticare di poter andare a vivere, un giorno, dove la vita sembra scorrere su di un binario parallelo al nostro.
Barcellona è uno di questi.
È una città che entra nel cuore, che emoziona e sorprende sempre, che induce a ritornare alla ricerca di un sapore, di un profumo, di un paesaggio impresso nella mente più d’altri.
Questa splendida città è appunto questo e anche molto, molto di più. 
 
Daniela Larentis

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