C’era una volta la stenografia – Di Daniela Larentis
Con le sue abbreviazioni logiche rimanda allo stupefacente veicolo comunicativo degli sms di oggi
Nell’era della comunicazione telematica fa sorridere ricordare che, un tempo, al posto dei registratori vocali (o dei cellulari dotati di tale funzione e cioè quasi tutti) venisse usato un tipo di scrittura veloce, la stenografia, semplice espressione grafica del pensiero, la quale efficacemente rappresentava, mediante tutta una serie di segni, la molteplicità dei suoni che compongono le parole.
Tale particolare grafia permetteva di fissare nel minimo spazio e in brevissimo tempo interi dialoghi, traducendo i suoni alla stessa velocità con cui venivano prodotti.
Un sistema stenografico era costituito dal complesso organico di leggi grafiche applicate a una determinata lingua, il più conosciuto dei quali fu, per la lingua tedesca, il sistema «Gabelsberger» (dal nome del suo inventore che lo ideò nel 1834), adattato poi efficacemente alla lingua italiana da Enrico Carlo Noë, nel suo «Manuale di Stenografia secondo il sistema Gabelsberger applicato alla lingua italiana».
Ma la stenografia ha un passato di tutto rispetto: probabilmente già utilizzata ai tempi di Senofonte, era usata anche dai Romani (il segretario di Cicerone, Marco Tullio Tirone, inventò un sistema di circa quattromila simboli che sostituiva le radici verbali e le lettere finali).
È interessante fare un cenno ai principi fondamentali su cui si fondava il sistema Gabelsberger-Noë (chi ne volesse sapere di più vada a consultare il libro di Abele de Marco – Stenografia – ed. Poseidonia):
a) Principio fonetico che stabiliva una corrispondenza fra suoni e segni.
b) Principio etimologico secondo il quale veniva valutata la composizione delle parole.
c) Dipendenza delle parole nel discorso, per cui si veniva considerata la concordanza grammaticale e il nesso logico (vincoli di reciproca dipendenza fra parole di una proposizione, di un periodo ecc)
d) Principio grafico col quale si teneva conto del fine pratico della stenografia e cioè l’esigenza di raggiungere tracciati più brevi possibile, quindi più veloci.
e) Incompatibilità di lettura, secondo la quale era possibile attribuire a qualche segno un valore diverso da quello assoluto, perché tale valore avrebbe fatto leggere parole non esistenti nella propria lingua.
La scrittura stenografica aveva la stessa pendenza della scrittura ordinaria ed era compresa in una rigatura composta da quattro righe, di cui una detta «base», la linea fondamentale di appoggio.
Sinceramente, di fronte a una pagina stenografata si ha la strana sensazione di trovarsi al cospetto di un testo scritto forse in arabo, se non fosse per quelle rigature che ricordano vagamente i pentagrammi musicali (il rigo musicale è composto però da cinque linee orizzontali parallele, non da quattro, come nella stenografia).
In un’epoca come la nostra, in cui i progressi tecnologici si sono rapidamente susseguiti nel giro di pochi decenni, il solo pronunciare la parola stenografia ha un sapore un po’ retrò, anche se pare che in Italia sia stata addirittura utilizzata, nel campo della resocontazione parlamentare, per verbalizzare le assemblee della Camera dei deputati fino all’anno 2000.
Incredibile.
La stenografia, ad ogni modo, prevede una serie di abbreviazioni logiche, le quali non sono arbitrarie, ma seguono regole ben precise.
E parlando di scrittura e di abbreviazioni vien da pensare a quelle adottate dallo stupefacente veicolo comunicativo degli sms.
Dovendosi adattare alla brevità dello spazio e all’istantaneità della comunicazione, gli sms risultano essere sempre più coincisi e non tengono conto più di tanto delle regole ortografiche (anzi, proprio per niente: la punteggiatura è un concetto astratto di cui non curarsi affatto, per non parlare delle maiuscole del tutto inesistenti e della sintassi assente o semplificata al massimo).
Essi, rappresentando attualmente il linguaggio più veloce utilizzato soprattutto dai giovanissimi, anche se non esclusivamente, si avvalgono spesso di acronimi (es. T.V.B. sta per ti voglio bene), di sostituzioni di lettere (la K sostituisce la ch, per esempio), inoltre di elementi extra-verbali, quali smile ecc. (le tanto simpatiche faccine che esprimono lo stato emotivo di chi scrive).
E chi più ne ha più ne metta.
In un mondo in cui il non diventa nn, il con diventa cn, il cmq sta per comunque, il xrò vuol dire però, xé perché, cs sta per cosa, grz vuol dire grazie e spt significa soprattutto, tipe significa ti penso e ap vuol dire a presto, che dire se non che l’antiquata stenografia non è da considerarsi come un qualcosa di alieno, bensì un sistema di scrittura sicuramente obsoleto, ma almeno non «sgrammaticato» e in fondo concettualmente più moderno di quanto si possa pensare di primo acchito?
Quello che è proprio difficile da digerire, parlando di sms (anche per chi è di larghe vedute), è la questione dell’acca.
Va bene dimenticarsi degli apostrofi, ignorare i punti interrogativi, non accorgersi degli accenti, ma scrivere ai al posto di hai, o al posto di ho, a al posto di ha e addirittura farlo apposta, è una vera provocazione, altro che capelli a cresta o tatuaggi selvaggi!
Se poi uno scrive a qualcuno tat volendo sottintendere ti amo tanto e quello capisce tu animale tarato, son cavoli suoi, potrà sempre aggiungere un tvb. nella speranza che il suo interlocutore non capisca invece ti vendo bubbole, in qual caso si beccherà di rimando un sicuro Nn c pos cred, qll ke è trp è trp! (non ci posso credere, quello che è troppo è troppo) e forse pure uno schiaffo, questa volta dal vivo, alla prima occasione.
CVD (come volevasi dimostrare) è sempre meglio prediligere la comunicazione diretta.
Inoltre, c’è da aggiungere che leggere a tu per tu l’espressione di una faccia emoziona sempre più che ricevere una qualsiasi emoticon.
C’è da crederci.
Daniela Larentis
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