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Marcello Doff Sotta, il tempo tra arte e restauro – Di Daniela Larentis

Restauratore e artista, unisce tradizione e innovazione, trasformando il legno di recupero in opere che celebrano il tempo e la tradizione – L’intervista

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Marcello Doff Sotta, restauratore e artista, incarna una visione del tempo che abbraccia il passato e il futuro, la conservazione e la creazione.
Originario della valle di Primiero, proviene da una lunga tradizione familiare di falegnami, un’eredità che porta avanti con passione nella sua bottega di Trento, dove da oltre trent’anni si dedica al restauro di mobili antichi.
Negli anni, si è trovato ad esplorare nuove forme di espressione. C’è un filo invisibile che lega il restauro alle sue creazioni artistiche ed è proprio il tempo.
Un tempo che non si limita a scorrere, ma che si può toccare, recuperare, plasmare.
Attraverso il suo lavoro, egli esplora il concetto del «tempo vissuto», parallelamente attraverso le sue creazioni esplora quello del «tempo misurato».
 
Questo è il mondo di Marcello Doff Sotta, un artista poliedrico, capace di muoversi con disinvoltura tra il passato e il futuro, tra il mestiere del restauratore e l’invenzione di orologi, vere e proprie opere d’arte. Da un lato, si confronta con la pazienza e la precisione necessarie per ridare vita a mobili e oggetti che hanno un’anima e con cui entra in relazione dialogica; dall’altro, immagina e realizza pezzi unici che non misurano solo le ore, ma sono essi stessi riflessioni visive sullo scorrere del tempo e sulla lentezza intesa come valore.
Il restauratore è un custode della memoria, un professionista che lavora nel silenzio per restituire al presente ciò che appartiene al passato, ogni restauro è un viaggio a ritroso, un legame con chi ha creato una data opera e con la storia che racchiude.
 
Doff Sotta, diplomato presso l'Istituto d'Arte Alessandro Vittoria di Trento e perfezionatosi sotto la guida di Franco Gilmozzi, maestro di falegnameria legato al grande futurista Fortunato Depero, ha da sempre vissuto il restauro come una forma d’arte.
Il suo laboratorio è un luogo dove mobili antichi vengono riportati a nuova vita con maestria e rispetto per la tradizione, ma anche uno spazio in cui la creatività trova piena espressione.
Le sue opere di restauro spaziano dalle collaborazioni pubbliche, come il restauro degli arredi del Teatro Sociale di Trento, a interventi su mobili intarsiati di pregio e pezzi rustici della tradizione locale.



Ma è nell'ultimo decennio che la dimensione creativa di Doff Sotta si è evoluta in una direzione parallela: la creazione di orologi da parete realizzati con materiali di recupero.
Ogni pezzo, frutto di una lavorazione artigianale che si nutre dell'esperienza maturata nel restauro, diventa una riflessione artistica sul concetto di tempo.
Lontano dall'essere solo un oggetto funzionale, l’orologio diventa un’opera d’arte che invita a soffermarsi, a interrogarsi sullo scorrere delle ore e sul valore di un’esistenza lontana dalla frenesia che caratterizza l’epoca contemporanea. La lentezza, infatti, è il cuore pulsante delle creazioni di Doff Sotta.
Se nel restauro essa si manifesta nel gesto paziente e minuzioso di riportare un’opera al suo antico splendore, nella realizzazione degli orologi diventa una sorta di filosofia.
 
Ha scritto di lui Gabriella Ferrari, musicista, direttrice della Scuola musicale di Tione, in un passo del suo contributo critico:
«Gli orologi da muro di Marcello sono un invito a soffermarsi, perché sono loro a interrogare sul tempo che passa e come passa.
«Con la passione del restauratore che sa riconoscere e restituire valore alle cose, Marcello intuisce le proprie opere dentro a legni e oggetti altrimenti destinati al disuso e alla dimenticanza.
«Con il loro gioco di accostamenti, di volumi spostati, di vuoti improvvisi e materia in bilico, i Tic Clock inventano profili inaspettati e suscitano un senso di spaesamento proprio a causa del tempo, dando l’impressione che questo sia lì intorno, se non a divertirsi, passando un po’ più in là.»
 
Da una parte c’è quindi il restauratore, custode della memoria e degli affetti, che attraverso il suo lavoro preserva la storia di mobili e oggetti del passato.
Dall'altra, c’è l'artista che trasforma materiali dimenticati in qualcosa di nuovo e sorprendente, usando il tempo come materia prima della sua arte.
Abbiamo avuto occasione di porgere a Marcello Doff Sotta alcune domande.
 

 
Lei proviene da una lunga tradizione di falegnami. Quanto ha influito la sua famiglia sulla scelta di diventare restauratore e sull’amore per il legno?
«L'amore per il legno è una tradizione che affonda le radici nella mia storia familiare.
«Provengo da una famiglia di falegnami: mio nonno, nato nel 1876, alla fine dell'Ottocento fondò una cooperativa con altri due soci a Primiero per finanziare l'acquisto di macchinari.
«Tra loro, uno doveva possedere un diploma e, per sorteggio, toccò a mio nonno. Così, trascorse tre anni a Trento, presso la Scuola di Arte e Mestieri in corso Buonarroti.
«Conservo ancora tutti i suoi documenti, libri e quaderni. Grazie a quei finanziamenti, aprirono una bottega nel paese di Imer, il primo della valle di Primiero.
«Mio nonno ebbe dodici figli, e mio padre era il più giovane. Alcuni dei miei zii, più grandi, iniziarono a lavorare con lui.
«Nel 1925, però, la famiglia fu colpita dalla morte della nonna e, poco dopo, si profilava la crisi economica del 1929. Decisero quindi di trasferirsi a Pozza di Fassa, dove trovarono impiego in una fabbrica di mobili appena inaugurata, la Facchini Zenti.
«Mio nonno divenne caposquadra in quella azienda di circa trenta dipendenti, che rappresentava un'importante realtà produttiva. Anche tre dei miei zii, allora adolescenti, lavorarono lì fino al 1934, anno della morte del nonno.
«Dopo la sua scomparsa, la famiglia tornò in valle, dove i tre figli proseguirono l’attività con la falegnameria Doff Sotta. La mia famiglia è conosciuta con il soprannome i martinoti, perché da generazioni c'è sempre stato un Martino.
«Mio nonno, appunto, si chiamava così. Mio padre, nato nel 1920, faceva parte della falegnameria insieme ai suoi fratelli. C'erano quattro soci: lo zio Minico (Domenico), che si occupava della progettazione e dei rapporti con i clienti; un altro zio esperto di lavorazioni in ferro; un altro ancora specializzato nelle rifiniture; infine, mio padre, che era il creativo del gruppo.
«Negli anni Ottanta, l'attività passò nelle mani dei miei cugini, figli di uno dei tre zii, fino alla chiusura definitiva nel 2005.
«Da bambino, con la bottega sotto casa, sono cresciuto circondato dal profumo del legno e dalla polvere di segatura, immerso in un ambiente che trasudava arte e tradizione.
«Ricordo con orgoglio le straordinarie capacità di mio padre: oltre ad essere falegname, era un fotografo, un pittore, un musicista, un autentico creativo.
«Nel suo lavoro, riusciva sempre a infondere quel tocco di creatività che lo rendeva unico.
«È scomparso nel 1971, quando avevo solo nove anni. Ho molti ricordi di lui, anche se, purtroppo, non ha potuto accompagnarmi professionalmente. Ero troppo piccolo quando ci ha lasciati.»
 
Ha avuto l’opportunità di formarsi con Franco Gilmozzi, un maestro del restauro e falegname di Fortunato Depero. Qual è stato il suo insegnamento?
«Dopo la morte di mio padre, mia madre decise di riavvicinarsi alla sua famiglia e ai suoi fratelli e ci trasferimmo a Trento. Frequentai la Scuola d’Arte Alessandro Vittoria di Trento e, successivamente, lavorai per tre o quattro anni in diverse falegnamerie della città.
«Nel 1985 mi licenziai e venni a sapere che l’Agenzia del Lavoro della Provincia di Trento aveva organizzato un corso di restauro a Rovereto.
«Decisi di partecipare: si trattava di un corso di tre mesi, e il docente della sezione falegnameria era Franco Gilmozzi. Noi eravamo in tre a seguire il percorso dedicato al legno, e ci fu l’opportunità di andare a bottega da lui.
«Come progetto didattico, restaurammo un portone, che fu poi presentato durante la cerimonia di fine corso. Verso la conclusione del corso, presi coraggio e stavo per chiedere a Gilmozzi se potessi continuare a lavorare con lui.
«Con mia grande sorpresa, fu lui a farmi la proposta: mi chiese se volevo rimanere. Aveva due figli, ma il più grande, all'epoca diciottenne, era allergico alla polvere del legno, il che gli impediva di seguire le orme del padre.
«Così, con grande generosità, Gilmozzi mi trasmise tutto ciò che avrebbe voluto insegnare ai suoi figli. Dal punto di vista professionale, fu come se lui avesse trovato un figlio a cui tramandare la sua arte, mentre io trovai in lui una figura paterna da cui imparare un mestiere.
«Mi insegnò che ogni lavoro, ogni mobile da restaurare, ha un’anima, e che bisogna rispettarla. Mi trasmise anche l’importanza del rapporto umano con i clienti.
«Il suo laboratorio era situato in via della Terra a Rovereto, in un palazzo storico: Gilmozzi amava parlare con i passanti, conoscenti, clienti, non lo riteneva una perdita di tempo.
«Si dedicava con piacere alle relazioni umane, perché per lui il lavoro non era mai solo una questione di guadagno. Questa lezione ha lasciato un segno profondo in me e ha influenzato il mio modo di vivere il lavoro.»
 

 
Quando ha iniziato la sua attività in proprio?
«Dopo otto o nove mesi, il maestro Gilmozzi mi disse che ero pronto, che era arrivato il momento di volare con le mie ali. Mi rassicurò, dicendomi che sarebbe sempre stato disponibile in caso di bisogno.
«Quando iniziai a lavorare in proprio, passai a dargli del tu, un segno di amicizia e rispetto reciproco.
«Nel 1987 aprii la mia attività in un piccolo spazio a Cristo Re, e dopo quattro anni mi trasferii in una sede più ampia in via San Martino. Il mio lavoro è un continuo processo di apprendimento, spesso attraverso gli errori.
«Con il tempo ho capito che è il mobile stesso a insegnarti come trattarlo. Quando smonti e rimonti un mobile del Seicento per restaurarlo e consolidarlo, entri in un rapporto profondo sia con l’oggetto sia con l’artigiano che lo ha realizzato.
«Si crea un legame difficile da spiegare a parole, quasi come se quel mobile avesse un’anima. È come aprire un libro, in cui ogni capitolo ti guida attraverso la storia.»
 
Come concilia il suo lavoro di restauratore con l’attività artistica di creazione di orologi? C’è un filo conduttore che unisce queste due dimensioni?
«Nel 2008 è scoppiata la crisi economica, ma io ne ho sentito gli effetti nel 2010. Fino a quel momento, il lavoro non mancava, poi le commissioni hanno iniziato a diminuire drasticamente. Per evitare di chiudere la mia bottega, ho deciso di reinventarmi.
«Avevo a disposizione del legno vecchio e, sfruttando questa materia prima, ho cominciato a realizzare piccole creazioni. Inizialmente si trattava di oggetti semplici, ma poi ho iniziato a produrre orologi, mettendo alla prova la mia creatività. Ho saputo unire le mie competenze professionali trovando un nuovo equilibrio.
«Dopo alcune sperimentazioni, nel 2015 ho partecipato a delle mostre, ottenendo riscontri positivi e importanti. Il materiale che utilizzo per queste creazioni, il legno antico, è un testimone del tempo, ricco di storia.
«La paura, paradossalmente, ha stimolato la mia creatività. Sono partito dall'esigenza di sopravvivere alla crisi che mi aveva colpito, e da qui sono nate queste opere.
«Oggi, questo percorso parallelo si affianca alla mia attività di restauratore, che continuo a portare avanti con passione e orgoglio.
«La creazione di queste opere mi permette di esprimere la mia sensibilità artistica, mantenendo viva la mia creatività.»
 
Che cosa la ispira nella creazione delle sue opere?
«Tutto parte dal legno e dal suo legame con il tempo. Un'importante fonte di ispirazione è stata un amico che, in quel periodo, stava lavorando a un libro sulle memorie di Angelo Michele Negrelli.
«Da quel testo ho tratto grande ispirazione. Angelo Michele Negrelli, un commerciante di legname, era il padre di Luigi Negrelli, celebre progettista del Canale di Suez, originario di Primiero.
«Questo legame tra il legno e la storia ha profondamente influenzato il mio processo creativo.»
 
Le è capitato di ospitare giovani desiderosi di imparare il mestiere?
«Circa una decina di anni fa, un professore del Liceo Artistico di Trento mi inviò un ragazzo per uno stage nella mia bottega. Si trattava di Manuel Rossi, che all'epoca frequentava la quarta liceo e, contemporaneamente, una scuola serale di liuteria.
«Notai subito il suo talento. Rimase con me per un mese, poi si diplomò e proseguì i suoi studi a Firenze, frequentando un corso di restauro in una scuola privata.
«Dopo essersi formato, nel 2019 ha aperto una bottega di liuteria e restauro a Cimone. Quando incontrai Manuel per la prima volta, provai la stessa emozione che, a suo tempo, il maestro Gilmozzi deve aver provato nei miei confronti.
«È stato emozionante sceglierlo e, nel periodo che ha trascorso con me, trasmettergli le mie esperienze e conoscenze, proprio come Gilmozzi aveva fatto con me trent'anni prima.»
 
Un pensiero conclusivo?
«Nella società contemporanea stiamo assistendo alla scomparsa di molti mestieri antichi, e con essi dei maestri che ne custodiscono il sapere. È un vero peccato, una grande perdita culturale.»

Daniela Larentis – d.larentis@ladigetto.it

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